Ad un anno esatto dallo svolgimento degli Stati generali della lingua e cultura italiana all’estero svoltisi a Firenze il 20 ottobre 2014, nella stessa città si è tenuto il preannunciato incontro di verifica dello stato dell’opera sulla nostra lingua nel mondo. La prima notizia dell’aggiornamento non è male. Dopo un esame più attento e dettagliato del numero di coloro che in tutto il mondo studiano l’italiano in varie forme e nelle più diverse condizioni, si è potuto stabilire che l’insieme dei discenti ammonta a 1.760.000, vale a dire 250.000 in più rispetto allo scorso anno, distribuiti in 113 paesi. Ripeto, si tratta di una ricerca più scrupolosa, non di espansione vera e propria, come ha riconosciuto lo stesso Ambasciatore Meloni. Dal punto di vista delle aree geografiche, il 40,2% degli studenti è in Europa, il 15,7% in Asia e Oceania, il 12,9% in America latina, l’11,7% in Nord America, l’11,2% nel Mediterraneo e Medio Oriente, il 7% nell’Europa extra UE e appena lo 0, 8% nell’Africa sub-sahariana. Su queste cifre vorrei ragionare un po’ con voi, sia pure velocemente. È straordinaria la performance dell’Australia, dove 210.000 allievi studiano l’italiano, a partire dalle scuole elementari fino al livello universitario. Questo è dovuto al fatto che i nostri rappresentanti politici e diplomatici sono riusciti a far considerare l’italiano un retaggio dell’immigrazione nazionale e, quindi, a farlo inserire nel percorso curricolare. Con la conseguenza che come lingua di cultura, di insegnamento e di comunicazione la richiesta è vivace anche a livello universitario. Un altro caso vorrei richiamare, non per semplice curiosità. In aree geopolitiche molto difficili, come sono diventate quelle nordafricane, si sono sviluppate esperienze altrettanto significative. In Egitto, ad esempio, sono 132.000 gli studenti che studiano la nostra lingua a scuola e in Tunisia sono 40.000. In sostanza, la scelta di puntare prioritariamente allo svolgimento di corsi integrati nel curriculum scolastico ha dato i suoi frutti e va ribadita e rafforzata ovunque sia possibile, anche, come si è visto, in zone difficili come quelle menzionate. Naturalmente, non sono tutte rose e viole. In Asia, soprattutto nei paesi emergenti e di grande consistenza politica ed economica, come la Cina e lo stesso Giappone, l’italiano è richiesto soprattutto a livello universitario, per evidenti ragioni di scambi commerciali e di relazioni economiche, mentre non ancora penetra nel corpo sociale più diffuso. Indice di una percezione dell’Italia non ancora pienamente realizzata nelle sue potenzialità, soprattutto culturali. Nella nostra area, il Nord America, si registra una relativa espansione in Canada a livello universitario, dove sono impegnati in corsi di studio 11.000 studenti sui 65.000 complessivi, in larga prevalenza discendenti da famiglie di origine, essendo ancora ridotta la percentuale di stranieri che studiano l’italiano. Negli USA le buone notizie vengono dal progressivo consolidamento del programma AP e dalla creazione di un Osservatorio della lingua italiana, presente anche in Canada. Gli Osservatori consentono di rilevare la potenziale domanda in stretto riferimento alla situazione del paese e, quindi, di modulare l’intervento su una base concreta e realistica. Non a caso, una delle esperienze più riuscite fatte negli anni scorsi è stata quella dei Piani Paese, inspiegabilmente lasciati per strada, la cui funzione potrebbe essere riassorbita proprio negli Osservatori. Questo dell’adattamento alle peculiari situazioni delle aree e dei territori è ormai un grande e serio problema. Sarebbe un grave errore pensare di avere un modello di intervento unico per realtà diverse. Per questo francamente non si capisce, o si capisce con ragioni non strettamente linguistico-culturali, come si possa ritardare una riforma di sistema che affianchi ad un efficace ordinamento e razionalizzazione dell’impianto il massimo possibile di autonomia di gestione. Naturalmente, in qualunque contesto si operi, una delle questioni decisive è la formazione e la qualità degli insegnanti. Anche in questo caso, il sistema tradizionale di portarli in Italia per formarli e specializzarli non può più funzionare, soprattutto per mancanza di risorse, sicché è da accogliere con favore la maggiore attenzione che finalmente si sta dando alla formazione a distanza attraverso le ormai ordinarie tecnologie di comunicazione. Sapendo, per altro, che vi sono istituti universitari riuniti in consorzio che questa attività sono in grado di farla bene e a costi competitivi. È tempo ormai di rinnovare molto in questo campo, da un lato non fermandosi ad un’idea della promozione dell’italiano come esclusiva lingua delle radici e mettendosi dunque sul filo della corrente sempre più impetuosa del plurilinguismo, dall’altro levando molta polvere accademica e vecchi paludamenti dal sistema di trasmissione della nostra lingua e della nostra cultura. Ci sono, ad esempio, canali di conservazione e di promozione della lingua efficacissimi che passano attraverso le trasmissioni radiotelevisive, in particolare di RAI Italia, i giornali in italiano, internet, i social network. Purtroppo si continua a considerarli in modo separato rispetto alle modalità canoniche di trasmissione della lingua, quando andrebbero invece incorporati in un unico sistema, sia pure rispettando i linguaggi e le funzioni specifiche. Si tratta anche di avere un’idea più elastica e penetrante sia della lingua che della cultura. Se ne è avuta una prova proprio a Firenze nella tavola rotonda degli imprenditori italiani che operano nella sfera globale, nella quale alcuni di essi hanno dimostrato come possano essere efficaci parole italiane di forte intensità evocativa se inserite con linguaggi giusti in offerte di prodotti innovativi. La risposta che l’aggiornamento degli Stati generali di Firenze purtroppo non ha dato riguarda l’intenzione di coinvolgere tutte le forze che nel mondo sono cresciute in questo campo. Il vecchio vizio dell’italocentrismo è duro a morire. Ai nostri dirigenti politici e alti funzionari amministrativi sembra che sia buono e importante solo quello che parte dall’Italia. Eppure nel mondo vi sono università, istituti, scuole, esperienze, insegnanti, intellettuali di alto profilo e talvolta di eccellenza, che lavorano ogni giorno nel campo della lingua italiana. Essi, con un po’ di larghezza di vedute, potrebbero essere utilmente chiamati ad arricchire proficuamente il profilo di una cultura aperta, plurale, capace di riconoscere i valori reali e di farne una sintesi moderna e spendibile nella dimensione globale.