PIANA DEGLI ALBANESI/1: ORIGINE DEL NOME E DEI VARI APPELLATIVI
INTRODUZIONE
(SA) -La storia di Piana degli Albanesi, è parecchio articolata, poiché rappresenta la storia di un popolo perfettamente
integrato con il popolo siciliano, che ha però saputo conservare intatte le proprie tradizioni, la propria lingua, i propri costumi.
In questo modo gli abitanti di Piana degli Albanesi, sono riusciti a restare popolo nel popolo, valida rappresentanza di una etnia che in Italia e non solo ha una sua immagine, una sua storia che sono stati capaci di non fare contrastare con la storia della terra che li ospita. Anzi bisogna dire che questa tenacia nel conservare la loro identità, ha arricchito la storia della terra e del popoli di Sicilia.
Data questa complessità, siccome non intendiamo ridurre o aggiungere niente che non sia parte reale e veridica della storia di quel popolo, sotto tutti i suoi aspetti e le sue sfaccettature, la pubblicazione avverrà in più puntate e seguirà fedelmente la ricerca portata avanti su google sia per quanto riguarda la parte storico narrativa che le foto messe a corredo.
(Salvatore Augello)
Piana degli Albanesi è stata nella storia variamente denominata. Nella licentia populandi concessa nel 13 gennaio 1487 agli esuli albanesi, Piana degli Albanesi è circoscritta come Casale Planicili Archiepiscopatus Montisregalis o Piana dell’Arcivescovo[, ma fin dalla sua costruzione l'abitato ufficialmente fu conosciuto in latino "Nobilis Planae Albanensium Civitas". Questa denominazione mutò in Nobilis Planae Graecorum Albanensium Civitas, con l'inserimento di Graecorum che indicava il rito bizantino professato della popolazione albanese (bizantino-greco e non romano-latino). Nei secoli, erroneamente, nell'uso catastale e abituale delle popolazioni limitrofe siciliane, rimase il nome di Piana dei Greci, data anche la solita confusione d'identificazione degli arbëreshë confusi come greci per il greco utilizzato nella liturgia
Fu conosciuta e chiamata anche dalle popolazioni del circondario Casale di lu Mercu territorii Montisregalis, Badia (perché la chiesa era stata sempre il punto di riferimento degli albanesi), La Chiana o Piana delli Greci. I suoi abitanti o gli albanesi delle altre colonie di Sicilia che si avvicendavano per raggiungerla, invece, la identificavano come Sheshi (piazza, centro), Kazallot (per una specie di sineddoche: Kazallot, toponimo locale, equivalente a Hora), Fusha e Arbreshëvet e quindi Hora e Arbëreshëvet. Il nome di Piana dei Greci, in seguito a un regio decreto e alla volontà di cambiare la denominazione per il fatto che in esso non si evidenziava l’origine albanese, dal 30 agosto 1941 venne modificato in Piana degli Albanesi. Qualche mese dopo, per decreto della Sacra Congregazione delle Chiese orientali del 25 ottobre 1941, anche ecclesiasticamente il nome di Planen Graecorum venne cambiato in Planen Albanensium, ossia Piana degli Albanesi.
Gli abitanti chiamano la cittadina nella propria parlata albanese Hora e Arbëreshëvet, traducibile letteralmente in Città degli Albanesi, per questo - abitualmente - è detta semplicemente Hora (tipico degli arbërorë, come 'borgo'-'regione'), vocabolo che nell’arbëresh ha assunto il significato di città città albanesi, capoluogo e sta per l'albanese qytet, ad indicare che essa è la principale fra le comunità siculo-albanesi. Qualche anziano usa ancora dire Hora e t'Arbëreshëvet. Gli abitanti in modo figurato si dicevano Bar i Sheshit (Erba dello Sheshi, nati nello Sheshi) e chiamano se stessi singolare arbëresh-i/e, plurale arbëreshë-t.
STORIA: ETÀ MEDIEVALE
La fondazione di Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet) risale alla fine del XV secolo quando, in seguito alla invasione della penisola balcanica da parte dei turchi-ottomani, numerosi gruppi di profughi albanesi cercarono rifugio nelle vicine coste dell’Italia meridionale, dove si stabilirono fondando un cospicuo numero di nuovi insediamenti rurali.
Un consistente gruppo di esuli albanesi, provenienti dalle regioni centro-meridionali dell'Albania e in secondo momento dalla Morea, cercarono rifugio a causa dell'imminente avanzata musulmana che minacciava la cristianità in Europa. L'esodo di massa ebbe inizio in seguito alla morte di Giorgio Castrista Skanderbeg, che vittoriosamente combatté e resistette, per più di un ventennio - insieme al suo popolo - per la libertà e la fede. L’assetto riservato allo stanziamento degli albanesi in Italia fu improntato alla considerazione che essi avevano saputo guadagnarsi e conservare presso i cristiani d’Occidente. Tra le regioni maggiormente interessate dalla diaspora albanese figurano la Calabria, la Sicilia, la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata.
Gli arbëreshë di Piana degli Albanesi diedero vita alla loro diaspora verso la Sicilia intorno al 1485. Dopo aver unanimemente difeso la propria terra, trovarono rifugio lasciando con rimpianto la madrepatria. Grazie all'appoggio della Repubblica di Venezia, che favoriva le migrazioni per ripopolare centri disabitati o colpiti da carestie, esuli della Himara, tra cui consanguinei di Castriota e nobili della più elevata aristocrazia albanese, come risulta dai diplomi reali di quella epoca, riuscirono ad inoltrarsi sino a raggiungere la lontana Sicilia. Sbarcati sul litorale, secondo la tradizione nei pressi di Solunto, e costretti a dirigersi verso l'interno per timore di eventuali rappresaglie da parte dei turchi, i profughi cercarono in diverse parti della Sicilia il luogo dove insediarsi e dopo alcuni tentativi, durati diversi anni, si fermarono negli ampi territori amministrati dalla mensa arcivescovile di Monreale.
Negli anni 1486 – 1487 fu chiesto al cardinale Juan Borgia il diritto di soggiorno sulle terre di Mercu e Aydingli, situate nell'entroterra montuoso presso la pianura della Fusha. L'ambiente si presentava non lontano dai principali poli cittadini, ma alquanto riparato, fertile e ricco d'acqua. Stipulati i Capitoli di fondazione, la concessione ufficiale fu sancita per il 30 agosto dell'anno 1488, cui seguì la costruzione del più grosso centro albanese dell'isola.
Sorse da principio alle falde dell'erto monte Pizzuta, ma i suoi fondatori, costretti dall'eccessiva rigidità del clima, si spostarono appena più a valle in prossimità della pianura sottostante. Edificato sulle falde di una collinetta (Sheshi), dominava un’estesa area pianeggiante dalla quale, con molte probabilità, derivò il nome: "Piana Archiepiscopatus Montis Regalis", in seguito "Piana dell'Arcivescovo". Il centro abitato si è quindi sviluppato su più quartieri, ognuno dei quali suddivisi in aree che generalmente prendono il nome dalle chiese in primis edificate, dai toponimi albanesi o dalle famiglie di Piana degli Albanesi, seguendo la morfologia montuosa del territorio. L'omogeneità sociale, culturale ed etnica degli albanesi si manifestò immediatamente con la rapida costruzione delle chiese di rito greco-bizantino e delle prime infrastrutture.
Le condizioni sfortunate ma dignitose dell’esodo iniziale erano state tali da segnare con caratteristiche definitive gli albanesi impiantati in Sicilia. Ne sono testimonianza le capitolazioni che gli albanesi contrassero con gli ospitanti, dopo qualche anno dal loro insediamento, essendo svanita ogni speranza di ritorno in patria. Quegli strumenti legali e giuridici si rivelarono, anche per le altre colonie albanesi dell'entroterra di Palermo, assai vantaggiosi: oltre a permettere una sistemazione definitiva e a garantire agli esuli una vita tranquilla e laboriosa, privilegiandoli addirittura rispetto agli autoctoni dell’Isola, essi salvaguardarono le loro tradizioni e la loro autonomia.
ETÀ MODERNA
Nel 1534, durante la seconda diaspora albanese, altri gruppi di famiglie provenienti dalla Tessaglia e dalle città di Corone, Modone, e Nauplia in Morea, attuale Poloponneso (vedi arvaniti), si aggiunse ai primi esuli. A tal punto si struttura come comunità autonoma, nell'assetto amministrativo, giuridico, economico, culturale e religioso. I fondatori, desiderando mantenersi sempre albanesi, e non volendo confondersi con l'elemento eterogeneo che stringeali da ogni parte, ostacolarono l'accesso ai forestieri. Per molto tempo non fu permesso ai "latini" di risiedere nel paese oltre un determinato periodo di giorni. Per atto espresso nel contratto del 30 agosto 1488, tra gli albanesi e l'arcivescovo di Monreale, le pubbliche cariche dovevano essere occupate dai soli cittadini albanesi di rito greco. Tale privilegio, riconosciuto unicamente agli arbëreshë di Piana degli Albanesi, rimase in vigore fino al 1819, e consentì agli esuli di difendere le proprie tradizioni etno-linguistiche e soprattutto religiose.
Verso la prima metà del XVIII secolo gli arbëreshë di Piana degli Albanesi avviarono un profondo processo di rinnovamento spirituale e culturale, grazie in modo particolare all’opera di P. Giorgio Gazzetta che fondando il suo Seminario Italo-albanese a Palermo, fornì un indispensabile sostegno alla salvaguardia dello specifico etnico, religioso e culturale delle comunità siculo-albanesi.
ETÀ CONTEMPORANEA
Lungo il XIX secolo, inserendosi negli umori rivoluzionari e risorgimentali che preparavano l’unità nazionale d’Italia, Piana degli Albanesi e i suoi abitanti giocarono un ruolo significativo. La loro partecipazione alle fasi più incisive dei moti risorgimentali siciliani e nazionali si concretizzò in un decisivo sostegno politico e militare.
Nel 1860 gli arbëreshë ospitarono nel loro paese gli emissari mazziniani: Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, giunti in Sicilia con il compito di preparare lo sbarco garibaldino. In seguito allo sbarco, Piana degli Albanesi ospitò i garibaldini, fornendo loro sostegni logistici, vettovagliamenti e un sicuro riparo strategico; quindi molti albanesi seguirono le campagne militari contro i borboni e alcuni rimasero vittime sul campo di battaglia. Fu così tra i centri che presero parte alla Rivolta della Gancia e agli avvenimenti della spedizione dei Mille denominati Insurrezione di Palermo.
Un altro momento significativo della storia di Piana degli Albanesi coincise con il movimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori (localmente in albanese: Dhomatet e gjindevet çë shërbejën), che verso la fine del XIX secolo interessò la Sicilia e, più in generale, le vicende della politica nazionale. Il Fascio dei lavoratori di Piana degli Albanesi ebbe come guida indiscussa il medico locale Nicola Barbato, tra i più prestigiosi e colti capi dell’intero movimento in Sicilia. I Fasci di Piana degli Albanesi furono tra i più “pericolosi” e certamente tra i meglio organizzati della provincia di Palermo, con la sezione femminile più forte e numerosa del movimento. Benché soppressi dal governo italiano, allora guidato da Francesco Crispi, anch’egli albanese, il movimento dei “fascianti” continuò la sua azione, perpetuando gli insegnamenti di Nicola Barbato e dalla decisione del popolo siculo-albanese.
Il 1* maggio 1947, giorno locale di inizio della quindicina di preghiera alla Odigitria come di tradizione bizantina, a Portella della Ginestra il bandito Salvatore Giuliano sparò contro i contadini inermi di Piana degli Albanesi, e di alcuni paesi limitrofi, che celebravano la consueta festa del lavoro. Fu la prima strage di mafia dell'Italia repubblicana.
I secoli XIX e XX costituirono un notevole progresso della cultura e della letteratura italo-albanese. Sospinta soprattutto dai principi romantici e risorgimentali, una nutrita schiera di intellettuali si interessò della storia, della lingua, delle tradizioni poetiche popolari arbëreshë, avviando un decisivo processo della storia letterario Albanese. In questo contesto, Piana degli Albanesi offrì figure di grande rilievo e personalità come: papàs Demetrio Camarda; Giuseppe Schiro; Cristina Gentile Mandalà; mons. Paolo Schirò; p. Nilo Borgia; papàs Gaetano Petrotta e tanti altri che in diverso modo e con diverse possibilità hanno contribuito all’arricchimento del prezioso patrimonio avito.
Nel corso del tempo gli abitanti, grazie alla loto tenacia e alle proprie istituzioni culturali, sociali ed economiche, hanno mantenuto inalterata la propria originaria identità etnico-linguistica e religiosa, conservato gelosamente le proprie radici culturali quali la lingua, il rito, i caratteristici costumi femminili riccamente ricamati, gli usi e le tradizioni. Ancor oggi è inalterato l'attaccamento alla tanto amata madre patria, sempre vivo nelle popolazioni italo-albanesi.
MONUMENTI E LUOGHI D'INTERESSE
Il centro antico del paese interpreta lo stile costruttivo tardo-medievale, cinquecentesco e seicentesco, rispecchiando gli status sociali e le condizioni economiche dell'epoca in cui sorse l'insediamento. Sulla base dei documenti, ad oggi disponibili, è possibile supporre che gli arbëresh fondatori di Piana degli Albanesi, dopo quasi un secolo di permanenza nel luogo, abitassero in case costruite secondo schemi architettonici più medievali che cinquecenteschi, ne è testimonianza l'uso di archi in pietra e di volte a botte.
Le strade urbane sono strette e costituite da scalinate (shkallët) e dal vicinato (gjitonì), lo spazio fisico luogo di aggregazione antistante le abitazioni, ad eccezione della strada principale (udha/dhromi i madh), l'asse longitudinale ampio e rettilineo di Corso Giorgio Kastriota che si stende da nord a sud-est, e sul quale si arriva entrando nel paese. Il tessuto dell'area centrale è costituito da grossi lotti irregolari e da una trama viaria curvilinea tardo-medievale, spesso accidentata, con rampe gradinate. Il centro di aggregazione per eccellenza, luogo reale e simbolico di incontro, comunicazione e informazione, con funzione regolatrice, è la Piazza Grande, ossia Piazza Vitt. Emanuele (Sheshi i Madh), con la vecchia sede del municipio e le "quinte secentesche" costituite dalla fontana Tre Kanojvet e dalla chiesa-santuario di Maria SS. Odigitria.
Il patrimonio artistico e monumentale di Piana degli Albanesi è fondamentalmente percorso da due stili, o meglio da due culture: quella barocca, la cui esistenza si è protratta sino agli inizi del Novecento; e quella bizantina, esistita sempre a livello latente e con periodi di piena espressione. I due stili hanno avuto anche momenti di fusione con esiti singolari. L'arte bizantina, quali erano legati gli esuli Albanesi, non viene abbandonata, anzi la sua influenza si fonde nell'orbita delle caratteristiche architettonico-urbanistiche.
Tra la fine del cinquecento e la prima metà del Seicento, principalmente, fu realizzato quanto vi è oggi di maggiore interesse artistico-architettonico: chiese, fontane, palazzi e assetto del centro storico. In questo periodo fu il barocco meno capriccioso e privato delle esasperazioni decorative lo stile che si affermò, e una personalità su tutte incise profondamente quegli anni, quella di Pietro Novelli, architetto e pittore monrealese, molto attivo nella colonia siculo-albanese[37].
Nei secoli successivi, tra il Settecento e l'Ottocento, non si registrarono che aggiunte e completamenti compatibili con la conformazione ormai assestata. Nel secondo dopoguerra sono state operate trasformazioni urbanistiche e architettoniche, non sempre rispondenti a canoni culturalmente e scientificamente corretti, che hanno prodotto in alcuni casi danni irreversibili e compromesso il fascino originario. Parallelamente, però, si è registrata una attenzione particolare per l'arte bizantina, rivalutando gli aspetti storici e artistici conservati.CONTINUA/1