Ci sono state due specie di No, l'una "contro il Governo", l'altra "a salvaguardia della Costituzione", seriamente minacciata dal combinato disposto tra l'Italicum e la revisione Renzi-Boschi. Sei votanti contro quattro hanno detto No. Ma se la revisione Renzi-Boschi fosse stata concepita in modo meno raffazzonato è lecito ritenere che i rapporti di forza risulterebbero ora rovesciati. E che sei contro quattro avrebbero detto Sì. Questo traspare con evidenza dalle motivazioni del No che, rilevate negli exit poll, sono di due tipi. 1) Il No ha vinto "contro il Governo Renzi" perché l'Italia che soffre, nel Mezzogiorno e nel resto del Paese, era stufa di annunci. 2) Il No ha vinto "a difesa della Costituzione" perché la revisione era, tecnicamente parlando, una "puttanata", come l’ha definita Massimo Cacciari, il quale pure aveva invitato a votare Sì. Dato importante: dalle rilevazioni emerge nettamente che due terzi dei No (cioè circa il 40% dei voti espressi) s'intendevano rivolti per protesta "contro il Governo", mentre un terzo dei No (cioè il 20% dei voti circa) era motivato da una seria preoccupazione di merito "a difesa della Costituzione". È logico assumere, dunque, che i No espressi "a difesa della Costituzione", ove fossero stati posti di fronte a un disegno di riforma più sensato e non pericoloso, si sarebbero tramutati in Sì, rovesciando l'esito del referendum. Da ciò consegue sul piano politico che, nonostante l'assordante ra¬glio grillo-padano contro la coalizione di centro-si¬ni¬stra e la Consulta, "solo" un 40% dei votanti ce l'ha con la mag¬gio¬ranza di governo. La quale esce, certo, ammaccata dalle urne, ma non dele¬gittimata. Mentre il verdetto referendario suona più severo per il premier Renzi, giovane e simpatico, ma troppo divisivo e forse un po' carente in accuracy. Ancora: sei votanti su dieci hanno detto No a una revisione co¬sti¬tu¬zionale approvata da circa sei parlamentari su dieci. Quest'a¬sim¬me¬tria accade a una coalizione parlamentare che è "maggioranza" solo grazie al Porcellum. Provate, però, ad addizionare il consenso del 3,5% accre¬di¬tato ad Alfano con le percentuali (in voti e non in seggi) rac¬col¬te da Pd e dai Centristi alle politiche del 2013. Guarda caso, otterrete una somma intorno al 40-41%, sulla quale si sono attestati domenica scorsa i fautori del Sì. Il che ci aiuta a capire quanto tremen¬da¬mente fragili fossero le basi legittimatorie di una revisione portata avanti a colpi di minoranza giacobina dentro un Parlamento di "nominati". La "quistione principale" (come dice Formica) è che certe leggi elettorali aprono porte e portoni a perigliose forzature costituzionali. Ripercorriamo brevemente le tappe della vicenda. Dopo la "non vit¬to¬ria" alle politiche del 2013, Bersani è costretto a dimettersi in seguito a un’imboscata di Palazzo alla quale sono tutt’altro che estranei i "ren¬zia¬ni". Renzi stesso, già battuto da Bersani alle primarie (contendibili) del 2012, rincomincia la scalata alle nuove primarie (non più con¬ten¬di¬bi¬li) e diventa segretario del Pd, con l’aiuto dei poteri forti: è il 15 di¬cem¬bre 2013. Un mese dopo, il 14 gennaio 2014, la Consulta boc¬cia il Porcellum. Ma tre giorni più tardi Renzi stipula con Berluconi l’ac¬cordo del Nazareno, finalizzato a sostituire il Porcellum con l’I¬ta¬licum, una fotocopia. Così il "potere di nomina" resta in ma¬no ai capi-partito. Passa un altro mese e il neo-segretario del PD scalza Let¬ta da Palazzo Chigi, subentrandogli. Di qui in poi il premier Renzi av¬via un ampio rimaneggiamento della Costituzione "a colpi di mag¬gio¬ranza", combinato con l’approvazione dell’Italicum "a colpi di fiducia". La cavalcata ussara del giovane premier prosegue tra attacchi al sindacato, ammiccamenti a Marchionne, rottamazioni con sberleffo e annunci di grandi miglioramenti futuri in tutti i campi. Passano le settimane, i mesi e le primavere che – come diceva un antico poeta lirico – portano con sé "grandi fioriture, ma si mangia poco" e gli annunci si moltiplicano in un'escalation parossistica. Fin qui niente che non si sia già visto. Ma lentamente, dietro il gran polverone, emerge un punto pericoloso, molto pericoloso, per la democrazia nel nostro Paese: il combinato disposto tra revisione costituzionale e Italicum. Per intuire quanto questo "combinato disposto" fosse davvero pericoloso, basta la doppia svolta inaugurata da Beppe Grillo in questi giorni, all'indomani del voto referendario. Adesso il M5S potrebbe anche stipulare delle alleanze, ha detto: alleanze con la Lega e con le destre, mai con il Pd. E quanto all'Italicum, adesso andrebbe bene. Anzi, bisognerebbe estenderlo anche al Senato. Per poi correre verso elezioni anticipate. Perché correre? Perché, lo dicono gli opinionisti, Grillo lo vuole, la Lega lo vuole, Dio lo vuole… Evvia – cari amici opinionisti un tanto al chilo – a chi credete di darla ancora a bere, codesta narrazione neo-futurista d'accatto, dopo un quarto di secolo di scassinamenti istituzionali targati "Nuovo Che Avanza"?! Con l'Italicum tuttora in vigore, la cosa più probabile sarebbe un ballottaggio tra Pd e M5S alle prossime politiche, nel quale ballottaggio i grillini vengono dati vincenti. Ma qui inizierebbe una cavalcata ussara di nuovo tipo. Un movimento populista sostenuto da meno di un terzo degli italiani, privo di strutture democratiche interne, eterodiretto da un'opaca agenzia di comunicazione e comandato da un solo uomo, avrebbe in mano la Camera dei Deputati. Se la "puttanata" fosse passata, avrebbe in mano tutto il Parlamento… E allora ci mancava soltanto che domenica scorsa si fosse anche approvata la revisione costituzionale Renzi-Boschi. Perché, con la conseguente riduzione a 100 membri del "nuovo" Senato sarebbe automaticamente discesa a 366 seggi anche la maggioranza necessaria a mettere "in stato accusa" il Presidente della Repubblica di fronte al "Parlamento in seduta comune" (Art. 90 Cost.). Riflettiamo: se 366 parlamentari sarebbero bastati per destituire l'inquilino del Quirinale, l'Italicum ne garantisce già 340 grazie al solo premio di maggioranza, senza contare deputati eletti nella Circoscrizione Estero e i transfughi che non mancano mai. Sicché, a norma della Renzi-Boschi, sarebbe bastato aggiungere al premio di maggioranza della Camera un paio di sindaci e una ventina scarsa di "nuovi" senatori tra i 100 nominati dai consigli regionali per togliere di mezzo il Capo dello Stato. A individuare la virulenza di questo anello debole (non l'unico) nella revisione Renzi-Boschi è stato Felice Besostri, avvocato socialista che qui vorremmo permetterci di definire un benemerito della democrazia italiana in quanto protagonista prima della battaglia contro il Porcellum e ora coordinatore dei ricorsi in discussione contro la legge elettorale del governo Renzi. Riassumiamo: il vincitore populista di una prossima tornata elettorale avrebbe avuto in mano una mega facility per la destituzione del Capo dello Stato! Non solo: al Presidente destituito, la revisione Renzi-Boschi avrebbe fatto subentrare il/la Presidente della Camera, anch’esso/a in mano alla maggioranza di "un uomo solo al comando". E, a quel punto, tolto di mezzo l'alto garante della Costituzione, un plebiscito per l'uscita dell'Italia dall'Euro (o contro l'UE, o peggio) avrebbe avuto la strada spianata. Ma lo stesso dicasi per eventuali decisioni sullo stato di guerra, come faceva notare il generale Fabio Mini (vai all'intervista su MicroMega). Fortunatamente, nulla di tutto questo avverrà, dato che la revisione Renzi-Boschi è stata rigettata dal popolo sovrano e dato che l'Italicum vale solo per la Camera, mentre il Consultellum in vigore per il Senato esclude, quanto meno nel breve periodo, la possibilità di vedere la Repubblica messa in mano all'uomo forte. Insomma, l'abbiamo scampata bella. (fonte: ADL - Andrea Ermano)