Questa volta, Vito Marino pesca ancora una volta tra i suoi ricordi, tirando fuori una struttura che nel passato era parte integrante della civiltà contadina: l’abbeveratoio ( la bbrivatura o abbriviratura). Oggi, specialmente quelli allocati dentro i centri abitati sono diventati cimeli antichi da salvaguardare e da offrire ai visitatori curiosi in cerca di antichità.

E’ in questo mondo che ci porta Vito con questa sua passeggiata indietro nel tempo, dove la tradizione si fonde con il mito e con la leggenda, ma leggiamo la fatica del nostro collaboratore Vito Marino.

L'ABBIVIRATURA

In Sicilia ed in alcune parti della Calabria prende il nome di gebbia, che deriva dall'arabo djeb ("cisterna per la raccolta delle acque") ed ha quasi sempre il duplice scopo di abbeveratoio per le mandrie e gli animali da soma e raccolta delle acque per irrigazione. La metodologia moderna più efficace ed efficiente è l'abbeveratoio a goccia, un sistema capillare di distribuzione dell'acqua che comporta minore spreco, nessuna superficie esposta a potenziali contaminazioni da batteri (soprattutto nella stagione estiva), praticità nella regolazione dell'altezza della fonte d'acqua in funzione delle dimensioni crescenti dell'animale. L’uomo, in un passato non troppo lontano, per eseguire i lavori più pesanti si serviva dell’aiuto “di li vestii” (delle bestie da soma). Prima di spuntare l’alba i contadini già “avaravanu” (partivano per andare in campagna) e già si sentivano sul selciato o i rumori dei carri e degli zoccoli degli animali. Allora la pastorizia era molto sviluppata, poiché il latifondo lasciava più terreni incolti a pascolo; inoltre, i terreni seminativi erano lasciati incolti un anno ogni due, per la rotazione agraria, cioè per farli riposare e reintegrare di azoto . Tutti questi animali avevano bisogno, specialmente nel periodo estivo, d’acqua da bere. I Comuni, a tale scopo, avevano costruito diversi “abbiviraturi” (abbeveratoi o beverini). Gli abbeveratoi più antichi sono generalmente costituiti di tronchi d’albero svuotati all’interno. Quelli più recenti sono costituiti da una vasca rettangolare in muratura, dentro le quali si raccoglieva l’acqua potabile che usciva dal “cannolu” (un tubo metallico); a volte, per economizzare l’acqua, al tubo c’era avvitato “l’aciddittu” (il rubinetto) particolarmente diffusi nelle zone rurali dell'Italia meridionale, localizzati in luoghi pubblici di transito, a volte realizzati in grandi dimensioni ed ornati di elementi architettonici, come epigrafi, stemmi e sculture. A Castelvetrano da alcuni decenni sono tutti scomparsi, diroccati, travolti dalla ventata euforica di modernità, da parte dell’amministrazione comunale, che ha coinvolto anche molti edifici antichi di notevole interesse architettonico e storico. Detti abbeveratoi si trovavano principalmente agli ingressi del paese, per permettere agli animali da soma di dissetarsi al loro rientro dalle campagne. Gli abbeveratoi per gli ovini e caprini si trovavano nelle campagne ed erano molto bassi. Per invitare il proprio animale a bere, il padrone gli fischiava in modo particolare. Un proverbio di quei tempi, infatti, diceva: “Si lu sceccu nun voli viviri, è ‘nutili chi ci frischii”. In merito, voglio aggiungere che il cavallo beve solo acqua potabile pulita. Ricordo che il cavallo di un nostro vicino di casa, non voleva bere l’acqua piovana contenuta nella sua cisterna; acqua, che invece consumava regolarmente tutta la famiglia. Quando l’acqua degli abbeveratoi si presentava sporca, il cavallo, anche se aveva sete, la rifiutava; allora, il padrone prendeva un recipiente, lo riempiva dell’acqua diretta del “cannolu” e lo faceva bere. A Castelvetrano, fino agli anni ’50 circa, esistevano ancora diversi di questi abbeveratoi; se la memoria non m’inganna essi si trovavano esattamente: - in Piazza Dante attigua alla Chiesa dell'Immacolata; - in Viale Roma; vicino al Calvario - in Via XX Settembre (allora fuori della cerchia urbana); - in Via Marinella all'incrocio dopo l'ospedale; - in Via Partanna, quasi a toccare il ponte della ferrovia; - in Via Calatafimi "la strata di lu fossu". Sicuramente qualcuna sfugge alla mia memoria. Forse sarà stata una semplice coincidenza, ma al loro posto sono sorti dei rifornimenti di benzina, quasi a simboleggiare una continuità fra le esigenze degli animali del passato e quelle delle automobili d’oggi; due simboli completamente diversi di civiltà, succedutesi in breve tempo. Abbeveratoi si trovavano anche nelle campagne; ne voglio citare due:

quello di “carabiddicchia” e quello “di li tririci pila”. Essi erano avvolti dal mistero, frutto che la fantasia popolare di una volta produceva abbondantemente. Quello di Carabbiddicchia, restaurato nel 1937, si trova ancora in contrada "Quartasu" seguendo la SS. 119; è lungo e basso (evidentemente serviva per far bere le pecore). In merito si narra che una volta un contadino trovò nel suo podere una bambina che piangeva; per consolarla le chiese ripetutamente: "Cara, biddicchia” (bellina), perché piangi? La bambina spiegò piangendo che si era smarrita ed aveva una gran sete per il caldo che c'era. Il contadino, allora, la fece dissetare in una piccola sorgiva d'acqua fresca, che sgorgava spontanea dalla roccia. Poiché tanta gente, accorsa al pianto della bambina (era il tempo della mietitura e molti contadini si trovavano nelle campagne), aveva ascoltato le parole del contadino, “Carabbiddicchia” divenne il nome della sorgiva, dell'abbeveratoio, che in seguito fu lì costruito, ed a tutto il territorio circostante. Nella zona nord di Castelvetrano, nell’ex feudo Torretta, che prendeva nome dal titolo del Principe della Torretta, fino a poco tempo fa sorgeva un bel casamento con torre e le famose “abbiviratura di li setti pila”, “l’abbiviratura di l’unnici pila” e "l'abbiviratura di li tririci pila" su cui era sorta la legenda che segue: Si trattava di tredici lavatoi in pietra (simili a quelli che si trovavano vicino al pozzo in tutti i cortili) tutti uguali e ben allineati, qui usati come abbeveratoi; oggi sono scomparsi, evidentemente davano qualche disturbo al proprietario del terreno o può anche darsi che qualcuno li abbia commercializzati come oggetti antichi. Stando alla leggenda, essi avevano qualche cosa di misterioso. Se qualcuno, infatti, voleva contarli per diverse volte, non risultavano mai dello stesso numero. Sempre stando alla leggenda, a chi riusciva a contarli per tre volte consecutive, con il risultato sempre uguale al numero esatto, si sarebbe rivelato un tesoro nascosto sotto uno dei lavatoi (evidentemente a quei tempi la matematica non era il loro forte).. (Vito Marino)