Con questo articolo che cade a proposito visto che siamo nel pieno della raccolta delle olive, Vito Marino apre la serie dedicata all’olio ed alle olive, che sono una delle eccellenze della nostra agricoltura e del nostro settore agro alimentare.

Non c’era argomento migliore per aprire la serie, che quello di cominciare con “l’arricota di l’alivi”. Vediamo come ce la racconta Vito.

L’ARRICOTA DI L’ALIVI: siamo già in piena campagna olivicola; per le strade s’incontrano trattori con rimorchi pieni di cassette d’olive, destinate alla conserva per “olive da mensa” o di olive per l’estrazione dell’olio. Castelvetrano una volta era produttrice di grano duro, in seguito era diventata una zona vinicola, oggi produce quasi esclusivamente olive. Una volta “La rricota di l’alivi” (la raccolta delle olive) incominciava “doppu li morti” (dopo il due novembre). Oggi si anticipa a metà di ottobre con un’uliva ancora non proprio matura, con una percentuale di olio in meno, ma con una qualità veramente eccezionale. Mezzo secolo fa i raccoglitori partivano dal paese ancora al buio con i carretti trainati da muli o cavalli, per trovarsi alla “chiusa o alivitu a li sett’arbi” (all’alba). La raccolta delle olive era fatta con “l’olio di gomito” (tutta a mano), con “lu cannistreddu” (il canestro) messo a tracolla; le donne raccoglievano dai “pinnuluni” (la parte più bassa della pianta), mentre gli uomini con le scale raccoglievano dai rami alti: “li ntinnola”. Come prima operazione si raccoglievano per terra le olive che erano cadute a causa delle intemperie, quindi quelle degli alberi. Gli uomini salivano sulle scale alte anche sei metri, sempre col canestro. Infine si guardavano bene gli alberi già raccolti e se ce n’era qualcuna si faceva cadere con una lunga canna. Finita tutta la raccolta si raccoglievano di nuovo quelle che erano cadute per terra durante la raccolta. Finita la raccolta, col permesso del proprietario, passavano “l’arraciuppatura” per raccogliere qualche uliva che era sfuggita alla vista di chi raccoglieva. Si trattava di un ben misero raccolto, ma, siccome questo lavoro era eseguito da persone disoccupate, quello che trovavano serviva almeno per ottenere l’olio per i consumi familiari. Oggi, a causa del costo elevato della mano d’opera e del prezzo irrilevante delle olive, la raccolta avviene più in fretta possibile tralasciando tutte quelle che cadono per terra e quelle che si trovano in alto isolate. Volendo mettere in evidenza la sperequazione fra il costo della mano d’opera e quella dell’olio cito quanto mi raccontavano le persone anziane: “prima degli anni '50 del 1900, per comprare un litro d’olio il contadino zappatore doveva accumulare la paga di tre giorni di duro lavoro. La sua paga giornaliera si aggirava sulle 200 lire, mentre un Kg. di pane costava 80 lire. Si arrivava all’assurdo che un contadino zappava 14 ore al giorno soltanto per pochi Kg. di pane”. I canestri si svuotavano nei decalitri per la misurazione e questi nei sacchi di iuta. Allora le olive spesse volte non si pesavano, poiché in campagna non tutti avevano la “basculla” o la “statia”, tanto si sapeva che un decalitro pieno “arrasatu” pesava 12 Kg., che una “sarma” corrispondeva a 18 dal. Corrispondente a 216 Kg. Il lavoro di campagna è stato sempre faticoso, ieri più di oggi; ma stando in comitiva, il tempo scorreva veloce e la fatica non si notava. Alle discussioni seguiva il canto a botta e risposta fra due squadre, gli scherzi, “li smafari” (le barzellette), i discorsi a doppio senso, “li niminagghi” (indovinelli) apparentemente “vastasi” (sporchi); i più irascibili o i meno dotati d’intelligenza, anche se si trattava del proprietario o del curatolo o camperi, venivano “cutuliati” (presi in giro, entro certi limiti), però, quasi tutti stavano allo scherzo. “A la mezza” (a mezzogiorno) si mangiava del pane con olive dell’anno precedente o raccolte già qualche settimana prima e condite oppure pane con cipolla o con sardine salate; mentre di sera (per chi restava a dormire in campagna) si mangiava “pasta cu l’agghia a scannaturi: la pasta, già condita con abbondante aglio e olio, si versava dentro una “maidda” (una larga tavola con i bordi, usata per fare la “sarsa sicca”; o sullo “scannaturi” (tavola per lavorare la farina per fare il pane ) o direttamente sulla “buffetta” (rustico tavolo di campagna) e tutti i presenti, con delle forchette fatte di canna o con la “forchetta dì Adamo” (con le mani) si davano da fare per mangiare più svelti a discapito di chi era più lento. Di sera al lume di uno “spicchio” (lucerna ad olio) e al suono anche di un semplice “friscalettu” di canna (zufolo) o accompagnato da un “maranzanu”, si dimenticava la stanchezza e si “trippiava” (si ballava). VITO MARINO

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