I Siciliani appartenenti alla scomparsa civiltà contadina, erano molto religiosi; se ne trova conferma nella letteratura e nei proverbi dialettali, ma anche nella stessa vita reale dei campi. In quegli anni il duro lavoro nei campi era eseguito tutto a forza di braccia.

Allora si mieteva sotto il sole inclemente e si lavorava anche sotto la pioggia, dallo spuntare del sole fino al tramonto, con la schiena rotta dalla fatica, pur di potere portare a casa qualche "vastedda" di pane per i propri familiari. Questo pane amaro, sudato e faticato, assieme all'acqua sempre desiderata, erano il simbolo della vita, A conferma dell’immenso valore attribuito al pane, un antico detto siciliano diceva: “A cu ti leva lu pani levacci la vita”. Per potere avere acqua e pane occorreva senz'altro l'intervento benigno di Dio, viceversa c'era carestia e fame; pertanto il contadino si rivolgeva a Dio in ogni occasione della giornata lavorativa, per avere benedetto il lavoro ed il raccolto. Per la pioggia sempre avara, tante e tante volte si sono invocati i santi con delle processioni propiziatorie e preghiere rivolte con viva convinzione e fede. Nella processione religiosa del Venerdì Santo così si pregava: "l'acqua e lu pani vulemu Signuri – Pietà e misiricordia Signuri". La fede era stimolata dal bisogno e dalle avversità che i più poveri giornalmente incontravano vivendo in un ambiente ostile: Le terre di proprietà dei piccoli proprietari erano spesso poco produttive mentre le colture potevano essere danneggiate dalle calamità atmosferiche; c’era uno Stato poco efficiente, le pensioni e l’assistenza medica di massa ancora non esistevano; la terra (“la robba” citata dal Verga) apparteneva al ricco proprietario e il povero contadino nullatenente se la sognava per tutta la vita; la mafia e la delinquenza comune pretendevano o rubavano parte del raccolto. Le malattie, come la malaria e quelle provocate dalla denutrizione, come la TBC, e non curate per mancanza di fondi mietevano vittime specialmente nella prima infanzia. Impotenti contro queste avversità, solo Dio, vero padre misericordioso, poteva aiutarli a sopravvivere; “dunni manca Diu Pruvviri” diceva un proverbio, e loro si consolavano così. Per i nobili e i ricchi proprietari terrieri di allora, la religiosità era vista da un’altra prospettiva. A modo loro essi erano molto religiosi e nei loro palazzi non mancava un altarino o una cappella, dove il prete andava a celebrare la messa; inoltre, costruivano chiese nei bagli e nelle loro tenute di campagna. Per avere la coscienza tranquilla verso Dio erano molto generosi verso i preti e partecipavano generosamente alle offerte. Di contro, poiché non conoscevano in prima persona la povertà e la fatica dei campi, risparmiavano sulla paga e sui cibi dei contadini, da loro considerati scansafatiche. Ma il Siciliano alla normale fede religiosa aggiungeva la credenza di altri elementi, come superstizioni e scongiuri, provenienti dai numerosi popoli che nel corso dei secoli hanno colonizzato la Sicilia. Così, secondo la cultura popolare, i cattivi raccolti o il tempo inclemente erano considerati il frutto dei peccati commessi e della mancanza di preghiere, mentre le malattie erano causate da “fatture” fatte da persone invidiose e cattive. Questa concezione superstiziosa della fede era purtroppo condivisa anche dai preti di allora, non sempre culturalmente preparati; infatti, la povertà del popolo, la mancanza di scuole, portavano varie persone ad abbracciare la carriera ecclesiastica che offriva una vita comoda e molti vantaggi. Quando una persona si rivolgeva ai Santi ed otteneva una guarigione, ritenuta impossibile dalla stessa scienza medica di allora o veniva salvata da un naufragio o da una pestilenza, quindi da qualcosa che sa di miracoloso, portava in chiesa, da attaccare al Santo un “voto”. Oggi questi ex voto vengono studiati dagli storici per valutare la cultura di quel periodo. Alla fine del 1700, nella città di Castelvetrano, con una popolazione di poco superiore ai 10.000 abitanti esistevano circa 50 fra chiese, monasteri, conventi e chiese campestri, dove professavano 515 religiosi fra sacerdoti, novizi, professi, famuli, bizzocche, chierici professi e secolari oblati, un numero sproporzionato rispetto all’esiguo numero di abitanti. Anche Cesare Abba, uno scrittore garibaldino, rimase così meravigliato del gran numero di chiese, conventi, monasteri, monaci e preti esistenti nel 1860, che ebbe a scrivere: “...troppi davvero. Come fanno a nutrirli questi poveri Siciliani?”. Alla fine dell’800 l’amministrazione delle chiese era affidata a confraternite e congregazioni religiose, con finalità di mutuo soccorso. Le confraternite si interessavano delle processioni, della sfilata delle verginelle, dei fratelli incappucciati, dei cori salmodianti, dei “posi”, degli spari di mortaretti, dei giochi d’artificio e di tutto quanto serviva per rendere la festa religiosa più straordinaria e vistosa possibile. Questa sontuosità barocca, compresa l’“apparata” (ornata) in chiesa fatta di teli di seta e velluto che dal tetto arrivavano fino al pavimento, iniziata nel 1600 è continuata fino al 1950 circa; dopo, incominciò a scomparire. Le principali confraternite furono: la Confraternita di San Giuseppe fondata nel 1624, quella dei Santi Quattro Martiri Coronati del 1683, quella di Maria Santissima del pianto e dei sette dolori del 1604, quella di Nostra Signora delle Vittorie, quella di San Giovanni Battista. Nel 1922 si costituisce l’Unione Cattolica Maria Santissima Immacolata, nonché le pie associazioni femminili. Allora la vita non offriva tanti svaghi e le feste religiose erano le uniche occasioni per far divertire il popolo e far dimenticare la povertà in cui viveva. VITO MARINO