Sarà la consapevolezza del tempo crudele che vola via, sarà la nostalgia del passato, ma gli anni della giovinezza, con il passare del tempo, ritornano alla propria mente, con maggiore insistenza. Per la nostra civiltà del benessere e del consumismo, gli usi e i costumi della passata civiltà contadina,

dove affondano le nostre radici e da dove proviene la nostra cultura, fanno parte ormai di un mondo scomparso, sommerso dalla civiltà d'altri popoli arrivata fino a noi con la globalizzazione. Non per questo devono scomparire dalla nostra memoria, anzi bisogna riesumarli e riportarli al loro giusto valore. Così con “la festa di li tri re”, una volta prettamente religiosa, oggi chiamata “della befana”, cioè del consumismo e dei regali, una cultura sicuramente non nostra, ma proveniente da altri popoli, il sei gennaio chiudeva tutta la festività e l’atmosfera natalizia. In chiesa, oltre al normale festeggiamento dell’Epifania, dopo la santa messa, in quel giorno si svolgeva a scopo umanitario “La vistizioni di lu Bomminu”, un cerimoniale a scopo umanitario, anche se simbolico: un bambino povero, in quella ricorrenza veniva vestito da capo a piedi, con indumenti nuovi. Il bambino, in sacrestia, veniva denudato delle proprie vesti e, sebbene il freddo fosse molto sensibile, veniva ricoperto solo da una benda e, postagli sulla spalla una piccola croce, veniva presentato al pubblico radunato in chiesa. Qui cominciava la vestizione con il lavargli i piedi e vestirlo degli abiti ricevuti in dono; inoltre, fra i fedeli si raccoglievano doni, dolciumi, cibo e denaro come regalo. Al termine il bambino veniva portato, in processione, alla propria casa. Terminata così la festività religiosa, nutrimento dell’anima, il giorno dopo, a taglio netto, si respirava un’aria tutta diversa, infatti, iniziava la festa della carne, dell’attrazione terrena, del nutrimento e godimento del corpo: la festa “di lu Cannalivaru” (del Carnevale). “Doppu li Tri Re, olè olè” (dopo l’Epifania, gran divertimento), così si diceva e già la stessa sera si vedevano in giro persone vestiti in maschera e iniziava il ballo nelle famiglie. Con il Giovedì Grasso, iniziava la vera festa carnascialesca. Fino agli anni ’60 circa, anni di magra succedutisi alla II Guerra Mondiale, il carnevale era molto atteso da tutta la popolazione, per divertirsi e scrollarsi di dosso i lunghi anni di terrore vissuti durante la guerra. Oltre al ballo in maschera, la festa si allietava con grandi abbuffate principalmente a base di “pasta di casa” e carne di maiale cucinata a ragù con “sarsa sicca”, il tutto innaffiato con abbondante “vinu di utti”. In modo particolare erano festeggiati i 5 giovedì antecedenti al Carnevale; in questi giorni i giovani innamorati, che avevano voglia di farsi fidanzati, potevano conoscersi e ballare. Durante il ballo spesso capitava ai giovani non sposati e non impegnati, di fare conoscenze con ragazze e da quel momento sbocciare un amore. Non dobbiamo dimenticarci che intorno agli anni ’40 la vita, oltre al matrimonio e alla procreazione, non offriva altre attrattive; inoltre, in linea generale, erano ancora i genitori a scegliere, a loro insindacabile giudizio, la fidanzata al proprio figlio. La scelta era fatta tenendo conto di tre elementi indispensabili ad un buon matrimonio: “Dote, sirvimentu e mantinimentu”. La maschera, di solito improvvisata con vecchi vestiti riciclati per l’occasione, disinibiva i più timidi ed era complice degli innamorati, che finalmente potevano stringersi durante il ballo, incuranti degli sguardi indiscreti. Si ballava in piazza, nei circoli culturali e ricreativi, nei cinematografi; si ballava anche nelle famiglie, ma solo in privato fra parenti, conoscenti e amici. In una civiltà ancora maschilista, da questo giorno sino alla fine del Carnevale, le donne potevano ballare con altri uomini e parlare e scherzare in maniera poco pulita, appunto “grasso”; inoltre era concesso fare scherzi anche pesanti, che dovevano essere accettati. Si diceva infatti: “Carnevali ogni schezu vali cu s’affenni è maiali”. Un altro proverbio diceva: “Cu è fissa Cannulivaru o cu ci va appressu?”. Anche allora, con le stesse modalità di oggi, si leggeva il testamento “di lu nannu” e si bruciava “lu nannu e la nanna”. Il Carnevale creava tanto di quell’entusiasmo che, per molti anni si festeggiò il “carnelivaruni” con balli in famiglia o nei circoli, la domenica dopo le ceneri. Purtroppo, intorno agli anni’60 è stato commesso un delitto in pieno centro della città, all’inizio della Via Vittorio Emanuele, da una persona vestita in maschera, che ha sparato uccidendo un pregiudicato. Le autorità, di conseguenza hanno sospeso il carnevale e, onde evitare il succedersi di un simile atto, negli anni successivi la manifestazione fu vietata. Quando dopo alcuni anni fu riattivato, il Carnevale ormai aveva perso ogni suo ardore. Oggi il carnevale si espande con magnifiche sfilate di carri allegorici, costosissimi, dove partecipa anche la stampa, la televisione e la pubblicità; di conseguenza i Comuni più poveri vengono esclusi da questo divertimento, e, quindi dall’intera festa di carnevale.. Secondo una mia considerazione personale, la festa del carnevale non deve realizzarsi con impiego di capitali , ma deve essere una gratuita e spontanea partecipazione di folla, che in quelle giornate si deve dimenticare di essere dei miseri mortali e riacquistare quegli attimi di spensieratezza, quella risata facile, spontanea e genuina, propria dei bambini, smarrita nel corso di una vita inutile, caotica e stressante. La scienza medica dice che questa è una buona terapia per tutti i mali psicosomatici (oggi, in qualche ospedale d’avanguardia, per i bambini ammalati c’è il clown per fini terapeutici). Come già detto, dopo gli anni ’60 il Carnevale a Castelvetrano ha perduto tutto il suo ardore; per colpa forse anche della globalizzazione, del benessere e della emancipazione della donna, la festa a poco a poco si è concentrata nei circoli, con balli in vestito di convenienza; il vestito più bello veniva riservato per l’ultima sera. Durante il veglione si stava seduti compostamente lungo le pareti del salone del circolo. La donna restava in attesa del cavaliere, che veniva ad invitarla con un inchino. I balli erano quelli classici del tempo: polche mazurche, samba, valzer, tango. Tutto si svolgeva col massimo rispetto del cavaliere verso la dama e si cercava di non creare confusione durante il ballo per evitare eventuali toccamenti nascosti agli occhi sempre vigili dei genitori. (VITO MARINO - foto in alto)