(SA) - Intanto chiedo scusa sia ai nostri lettori che a Vito Marino (foto accanto), perché avrei docuto presentarlo martedì scorso, quando sul nostro sito è apparso il suo primo articolo. I nostri attenti lettori, sicuramente comunque si sono accorti che dalla settimana scorsa questa rubrica viene redatta a cura di Vito Marino.

Ma chi è Vito marino, questo nuovo prezioso collaboratore che si è prestato a fornirci gratuitamente la sua opera? Egli nasce a Castelvetrano in quel di Trapani, in un periodo in cui infuriava la seconda guerra mondiale, nel 1940. Vive sempre a Castelvetrano, ha conseguito il diploma di ragioniere ed ha frequentato la facoltà di economia e commercio. Vive la sua vita lavorative presso le ferrovie italiane fino a conseguire la pensione. Personaggio di poliedrico ingegno, si dedica alla pittura, alla poesia , alla narrativa, esaltando ilo dialetto siciliano fino ad approfondire le sue ricerche sulle tradizioni popolari siciliane nonché sulla storia del canto orale. Da tempo pratica anche il giornalismo collaborando con diversi giornali quali ad esempio “Belìce”, “Scirocco”, “Città mia”, Alta Marea, Agave, Opinione, attualmente collabora con i giornali Kleos e sui giornali, Castelvetranonews e sul proprio blog: Sicilia Antica. Amante del canto, dopo avere partecipato a diversi cori, oggi è ancora tra i cantori del coro UNITRE di Castelvetrano. Dedito alla poesia, come abbiamo già detto, ha partecipato a diversi concorsi, aggiudicandosi per tre anni il primo premio del “Consorso Artistico Provinciale” organizzato dal CRAL-SIP di Castelvetrano. Preparato conferenziere, è stato relatore di diversi convegni. Nel campo dell’editoria, infine, ha scritto il libro “SICILIA SCOMPARSA IL MUSEO DELLA MEMORIA” pubblicato con la casa IBS di Ma zara del Vallo. E’ coautore del libro sulla chiesa di Santa Lucia di Castelvetrano e recentemente ha pubblicato il libro “FAMIGLIA SAPORITO FRA STORIA E LEGGENDA IN UNA CASTELVETRANO OTTOCENTESCA” Altre cose si potrebbero ancora dire di questo nostro nuovo amico, ma ci fermiamo a quanto sopra detto, giusto per dare l’idea di chi è questo nostro prezioso collaboratore, al quale diamo un caloroso ben venuta nella grande famiglia dell’Unione Siciliana Emigrati e Famiglia con la sua collaborazione nel curare la presente rubrica, che siamo certi riscuoterà grande apprezzamento ed interesse. BEN VENUTO CARO VITO (Salvatore Augello)

L’OVU DI ADDU

“L’ovu di addu” (l’uovo di gallo) più che una realtà era un modo di chiamare l’uovo quando è già stato fecondato dal gallo. Negli allevamenti moderni questo non può avvenire, perché la funzione del gallo è scomparsa; le galline ovaiole vivono in “batterie”, una serie di anguste gabbie di pochi decimetri ciascuna, da condividere con altre galline. Essa, come una macchina industriale, produce uova o carne secondo un programma già prestabilito e a tale scopo mangia in continuazione e non dorme mai; la durata della sua vita va da un minimo di due mesi (per la carne) ad un massimo di un anno (per le ovaiole). Le uova addette alla riproduzione sono fecondate artificialmente e covate tramite le incubatrici. Il mangime contiene anche ormoni, per stimolare la crescita della carne o favorire la produzione di uova. Per evitare temibili epidemie, il mangime contiene anche antibiotici. Durante la scomparsa Civiltà contadina e fino agli anni ’50 del 1900, molte famiglie, specialmente benestanti allevavano nel giardini, nei magazzini e nel pollaio “giuccu o addinaru o puddaru”. galline, conigli, colombi, “addurinia” (tacchini) e, in rapporto allo spazio disponibile, anche la capra ed il maiale. Per la loro alimentazione utilizzavano mangimi naturali come: orzo, frumento, fave, “furmintuni” ( mais), “canigghia” (crusca), verdure e “giubba” di finocchi “minuzzati” (tagliati sottili). Per i più giovani, voglio precisare che la pianta di finocchio, nel nostro dialetto, si divide in: “cosca”, che è la foglia bianca commestibile e “giubba”, che è la parte terminale verde da buttare. Le galline facevano parte del normale ciclo biologico della natura: razzolavano con il gallo in lungo e in largo per il podere in numero assai limitato; facevano le uova solo periodicamente e provvedevano alla loro cova per farle dischiudere. Per la povera gente si trattava di piccole attività che incombevano alla massaia e servivano per arrotondare le poche entrate quotidiane. Gli animali razzolavano nel cortile o per strada, dove c’era tanta immondezza, dove gli animali potevano trovare cibo a volontà, anche se l’igiene lasciava moltissimo a desiderare. Il contadino tornando dalla campagna portava sempre dell’erba fresca per gli animali, oppure si portava la capra legata al carretto o all’asino per farla pascolare in campagna. I contadini curavano gli animali con la loro esperienza e sapevano anche effettuare piccoli interventi chirurgici, come “sanare” (castrare) il maiale o il gallo. Quando le galline si allevavano in gabbia bisognava procurare del terriccio calcareo per fare irrobustire il guscio dell’uovo, viceversa l’uovo diventava “paparu” (molle e che si rompe facilmente). Fra le galline c’era sempre un gallo per fecondare le uova. Alcune persone, per fare produrre più uova, davano da mangiare alle galline dell’ortica. Altri davano molto orzo, perché più ricco di sostanze nutritive, aspettando inutilmente un buon risultato. Le galline, infatti, per produrre uova devono trovarsi nelle condizioni ideali di clima e di salute e “la rappa” (l’ovaia) deve essere matura al punto giusto nel suo ciclo biologico; pertanto, è sorto il proverbio “dari oriu a gaddina”, per significare che è inutile insistere in una data cosa. Le uova servivano in casa, ma più abitualmente venivano vendute. Fra le comari dei cortili, in sostituzione del denaro, le uova spesse volte si usavano come oggetto di scambio con il pane fatto dalla vicina di casa, con cavoli o altra verdura, ma anche col pesce del pescivendolo che passava di casa in casa; come offerta, si davano uova anche al prete, quando veniva a benedire la casa. Nelle 'feste comandate' si stirava il collo ad una vecchia gallina e si cucinava in brodo. Il galletto si preferiva cuocerlo a “stufatu” (al sugo di pomodoro o di “sarsa sicca”). I bisticci dei bambini sul pezzo di carne preferita, completava quest’atmosfera di festa; a me piaceva mangiare “la chirca” (la cresta). Allora, la dieta mediterranea si faceva per tradizione, per cultura o per necessità economica, non per moda o perché ne parlavano i medici, i giornali e la televisione, come avviene ai giorni nostri; comprare la carne dal “vucceri” o 'chiancheri' (macellaio) o “a la chianca" (alla macelleria), per come si diceva una volta, non faceva parte della nostra cultura; la carne consumata generalmente proveniva da animali allevati nei cortili. Anche il pesce, a parte la sardina di Selinunte, non faceva parte della nostra tradizione gastronomica. Ricordo che da Mazara, arrivava ogni mattina un pescivendolo, camminando a piedi scalzi, alla maniera marinaresca di allora e a passo svelto, portando sulla spalla un paio di cassette di pesce. Egli aveva sempre fretta a venderlo, per paura di riportarselo indietro guasto. Al ritorno, spesse volte si portava uova, verdura e altri prodotti agricoli, che accettava come pagamento in natura in cambio del suo pesce. Mia madre mi raccontava che, quando la principessa Pignatelli ed il suo seguito si trovavano al Palazzo Ducale, si vedevano sempre penzolare un paio di galline già uccise (sempre animali da cortile), fuori della finestra della cucina. Quando una gallina non riesce ad espellere l'uovo, perché ha 'l'ovu vutatu' (l'uovo messo di traverso), bisogna girarlo manualmente. Poiché la povera gallina in quelle condizioni sta male ed è nervosa, ad una persona irrequieta e facilmente irascibile, per similitudine si diceva:- 'Ma chi avi l'ovu vutatu?'. Per risolvere il problema, una credenza popolare assicurava che bastava prenderla per le ali e farla girare per tre volte su se stessa. Solo a titolo di curiosità: la pollastra che faceva il primo uovo (generalmente piccolissimo) era chiamata 'puddastra acciurata' (da acciurari = affiorare, emergere); la gallina dai colori bianco e grigio a scacchi, era chiamata 'giuppina'. La gallina, per legge di natura, una volta l’anno circa, 'arripuddisci', cioè invecchia diventando brutta, spennata e non fa più uova, essendosi esaurita 'la rrappa' (l'ovaia). Una volta si aspettava che ritornasse a fare le uova, oggi si ammazza. Poiché la gallina per istinto di natura andava a deporre le uova nel nido preparatosi in posti nascosti, il proprietario era costretto ogni sera a toccarle tutte, per accertare chi di esse aveva pronto l’uovo; in caso positivo le poneva in una gerla o in una gabbia fino alla deposizione. VITO MARINO