Le scelte di razionalizzazione della spesa pubblica adottate negli anni che vanno dall’inizio della crisi al 2014 hanno inciso profondamente sulla rete dei servizi destinati alle collettività all’estero. Dal 2006 in poi, infatti, le strutture decentrate del Ministero degli esteri si sono ridotte nei diversi continenti di 63 unità e sono oggi, nel complesso, 294: tra queste 123 sono le ambasciate, 79 gli uffici consolari, 83 gli istituti di cultura. In particolare, dal 2007 sono stati chiusi 5 ambasciate e 47 consolati di prima e seconda categoria. Questo è avvenuto non solo per il vincolo imposto dalla spending review nella legge finanziaria del 2012, che ha configurato un impegno di riduzione delle dotazioni organiche e di contenimento delle spese delle sedi estere tuttavia “a invarianza del servizio”, ma anche per la razionalizzazione geografica e organizzativa della rete diplomatica, in rapporto all’opportunità di coprire nuove aree geopolitiche. Sta di fatto che dal 2006 al 2014 la spesa per queste voci è diminuita di 11,3 milioni, nonostante che le dotazioni precedenti non fossero esaustive della domanda di servizio avanzata alla nostra amministrazione. Aggiungo che mentre le misure adottate hanno avuto sin dall’inizio effetti immediati e diretti sulle nostre comunità, solo dal 2015 sono diventati operanti, come osserva la relazione della Corte dei Conti, gli indirizzi riguardanti la riduzione dei contributi ad organismi internazionali e la rivisitazione del trattamento economico del personale in servizio all’estero e degli assegni del personale insegnante. La dotazione di personale in servizio a tempo indeterminato del MAECI è di 4.043 persone, di cui effettivamente in servizio 932 della carriera diplomatica, 52 di quella dirigenziale e 3.059 delle funzioni non dirigenti. Di esse, tuttavia, solo 2.207 sono adibite presso sedi all’estero. A questo personale, naturalmente, è da aggiungere quello a tempo determinato contrattualizzato localmente, che svolge ormai un lavoro insostituibile a costi notevolmente inferiori. Il contingente del personale a contratto è fissato globalmente in 2.277 unità. A seguito delle misure di riduzione della spesa, di cui si è detto in precedenza, il personale diplomatico si è contratto del 10%, mentre quello amministrativo, che notoriamente è adibito all’espletamento dei servizi ed è a più diretto contatto con i nostri connazionali all’estero, del 23%, più del doppio! I parametri ai quali i funzionari del MAECI hanno fatto riferimento nell’individuare le sedi da chiudere sono stati indicati , nella consistenza della collettività dei connazionali, nella distanza tra la sede in soppressione e la sede ricevente, nella facilità dei relativi collegamenti, e così via. Lascio a chi possiede un quadro obiettivo delle situazioni sulle quali si è intervenuto di valutare la rispondenza delle decisioni adottate alla obiettiva condizione delle nostre comunità. Mi limito a rilevare che tali misure e le loro modalità di applicazione sono state motivo non solo di acuto disagio e di diffusa protesta da parte dei potenziali utenti, ma anche di un sentimento di più generale distacco e delusione da parte della comunità italiana nel mondo, un sentimento che – tanto per restare a situazioni più recenti – ha pesato non poco nella scarsa partecipazione dei nostri connazionali alle operazioni di rinnovo degli istituti di rappresentanza comunitaria, quali i COMITES. In qualità di Presidente del Comitato per gli italiani nel mondo della Camera, non posso tacere, inoltre, la preoccupazione che la riduzione prevista nella legge di Stabilità per il 2016 di 25 milioni per il funzionamento delle strutture decentrate dello Stato italiano all’estero possa essere non solo l’effetto del ridimensionamento già effettuato della rete ma anche la prefigurazione di qualche ulteriore chiusura che inciderebbe pesantemente su una situazione già ai limiti della sostenibilità. Un’eventualità respinta proprio in queste ore dal parere che, su proposta del relatore collega Fedi, la Commissione Esteri della Camera ha espresso trasversalmente sul bilancio del MAECI, manifestando “l’auspicio che non abbiano a verificarsi ulteriori chiusure di sedi consolari e di Istituti di cultura” e sottolineando “l’esigenza di destinare una parte degli introiti derivanti dalla tassa di 300 euro connessa alle richieste di cittadinanza e dell’aumento delle tariffe per le prestazioni consolari, previsto nella presente legge di stabilità, al rafforzamento delle strutture consolari più esposte, in termini organizzativi e di incremento di personale”. Vorrei aggiungere che le soluzioni alternative adottate (la centralizzazione dei servizi in ambasciate e consolati hub, il consolato on-line e le sinergie con il Servizio Europeo per l’Azione Esterna), pur comprensibili alla luce del ridimensionamento avvenuto e in corso, non ci consentono di parlare del superamento di una fase di transizione ancora molto contraddittoria e soprattutto faticosa per i nostri connazionali. Basti pensare alle continue e innumerevoli proteste che ci pervengono per la difficoltà semplicemente di avere la linea telefonica del consolato o di poter stabilire un appuntamento e del tempo che intercorre prima di poter essere ricevuti dagli uffici. Senza contare che in America latina, e in particolare in Brasile, il tempo di prenotazione per la consegna di una pratica si conta ormai a mesi ed anni, e quello necessario per portare a conclusione una pratica di cittadinanza ha ormai superato il decennio. Desidero evitare qualsiasi accento populistico su queste cose e mi auguro che oggi se ne possa parlare in modo dialogico e costruttivo, ma credo che dovremmo percepire tutti responsabilmente la serietà di questa condizione di diffusa difficoltà e di reagire costruttivamente alla sensazione di abbandono che attraversa le nostre comunità. Vanificare la legittima attesa di una persona di poter riacquisire la propria cittadinanza in base a leggi in vigore, significa in sostanza vanificare un diritto di cittadinanza e questo non solo non è giusto in linea di principio, ma contrasta con l’interesse dell’Italia ad avere comunità di riferimento coese e fiduciose. Non possiamo, dunque, essere spettatori passivi di un processo di disaffezione dei nostri concittadini all’estero dallo Stato e da chi ai loro occhi lo incarna o limitarci a gestire le pur necessarie misure di risanamento della spesa pubblica agendo unicamente su una tastiera di ordine quantitativo. Dobbiamo invece cercare di trovare, in un quadro di compatibilità finanziarie definite con chiarezza per un tempo sufficiente a programmare le azioni, soluzioni nuove che portino non solo il segno del risparmio, ma anche quello dei diritti delle persone. Per perseguire questo obiettivo è necessario dimostrare con i fatti che si possono ancora offrire servizi che per la loro accessibilità e qualità possano favorire un rapporto civile e fluido dei cittadini italiani all’estero con lo Stato, pur in una condizione particolare come quella che essi vivono risiedendo in altri contesti nazionali. All’inizio mi sono soffermato puntualmente su alcuni dati per togliere qualsiasi ombra di velleità e di volontarismo a questa iniziativa che il Comitato della Camera per gli italiani nel mondo e – sottolineo – per la promozione del Sistema Paese ha voluto. Mi pare risulti chiaro, proprio dalla evidenza dei dati, che non siamo di fronte ad una parentesi temporanea della situazione finanziaria dello Stato, ad una specie di crisi congiunturale da lasciarsi alle spalle non appena “passata la nuttata”, come diceva Eduardo, ma a processi strutturali destinati a diventare permanenti. Per non penalizzare i nostri connazionali all’estero e accentuare una deriva di disinteresse verso l’Italia proprio in una fase in cui abbiamo più bisogno di trovare nell’internazionalizzazione il compenso della perdurante stagnazione interna, abbiamo bisogno di concepire un disegno riformatore e di riorganizzazione che non parta dai tagli, ma dalle esigenze dei cittadini. Finora la “riforma” è stata fatta, ma usando la leva del bilancio come una clava. Si tratta, invece di aprire un confronto di ampio respiro - e l’iniziativa di oggi spero sia un passo in questa direzione – tra i responsabili istituzionali, i rappresentanti dei connazionali all’estero e i soggetti sociali, che le esigenze le conoscono veramente perché vivono la quotidianità delle nostre comunità , affinché si ricostruisca un assetto certo più sobrio e meno costoso, ma capace di corrispondere ad una domanda di servizi ancora intensa e diffusa. Per quanto mi riguarda, ad esempio, da tempo mi sono mosso, assieme ad altri colleghi eletti all’estero, per convogliare una parte delle risorse derivanti dal contributo di 300 euro richiesto per le pratiche di cittadinanza (e aggiungo dal prossimo aumento delle tariffe per diverse prestazioni consolari) al rafforzamento di quei consolati che sono più esposti all’onda delle pratiche amministrative e che hanno accumulato giacenze ciclopiche di domande di cittadinanza. Su un piano più generale, credo sia arrivato il momento di interrompere il lungo gioco di rinvii e il dialogo tra sordi che ha caratterizzato la questione della convenzione tra il MAE e i Patronati. E’ una cosa che si prolunga ormai da nove anni, da quando cioè la stipula sembrava imminente e poi è stata rinviata per anni senza una chiara motivazione, ma verosimilmente per resistenze interne allo stesso Ministero. Nel frattempo, i Patronati sono stati esposti ad una specie di processo pubblico, in sede istituzionale e giornalistica, che con l’apparente giustificazione di voler conoscere i termini della loro attività, li ha fatti passare talvolta per una congrega di dilapidatori di risorse pubbliche, tal’altra per una banda di malfattori. Il mio compito è quello di porre le questioni da affrontare, non di fare l’avvocato difensore di alcuno che, per altro, non ne avrebbe bisogno perché in grado di difendersi da solo. Vorrei comunque dire che negare la funzione di segretariato sociale e di coesione delle nostre comunità all’estero che i patronati hanno storicamente assolto e continuano a svolgere, significa negare la realtà e la verità e assumersi la responsabilità di spostare sul piano delle polemiche e delle pregiudiziali politiche questioni che andrebbero affrontate nell’ottica di un servizio reso alla comunità italiana nel mondo. Per il resto, i rappresentanti dei coordinamenti dei Patronati sono qui e potranno dire le loro ragioni. Perché il nostro incontro possa svilupparsi in modo pacato e serio, mi consentirete di sgombrare il campo da un equivoco sorto, non so se in buona o cattiva fede, intorno alla questione della convenzione MAECI-Patronati. Alcune voci particolarmente stridule, provenienti dall’interno del mondo sindacale ministeriale, sollevano l’accusa che affidando ai Patronati alcune funzioni di supporto all’attività dei consolati si appalterebbero pericolosamente e illegittimamente funzioni pubbliche a chi non ha i titoli per esercitarle. Niente di più inesatto. Le funzioni direzionali, di controllo e di stretta amministrazione che ineriscono ai consolati nessuno ha intenzione di toccarle né si possono toccare non fosse altro perché la legge non lo consente. La questione si pone solo in un ambito di sussidiarietà, nel senso di concorrere in forme puramente organizzative e istruttorie a creare le condizioni, che lo Stato non riesce più ad assicurare, perché l’amministrazione sia liberata da incombenze secondarie e sia messa nella possibilità di compiere in modo più veloce ed efficace le funzioni che formalmente le spettano. Nulla di più e nulla di meno. Spero, dunque, che il confronto esca dalle polemiche strumentali e inutili e assuma il respiro necessario per inquadrarsi negli scenari sociali in cui i lavoratori e i pensionati italiani sono collocati, sia in Italia che all’estero. Facendo attenzione che nella foga di risparmiare, moralizzare e innovare alla fine non si buttino insieme l’acqua sporca e il bambino. Lo Stato italiano, infatti, si è dotato nel tempo di un ampio e complesso sistema di tutela dei diritti socio-previdenziali dei lavoratori migranti attraverso la realizzazione di una specifica normativa nazionale e soprattutto la stipula di numerose convenzioni bilaterali e multilaterali con i tanti Paesi di emigrazione ed immigrazione. Questo sistema ha garantito ai lavoratori e ai pensionati – e alle loro famiglie - una protezione socio-previdenziale generalmente adeguata anche grazie ai patronati presenti in Italia e all’estero che nella sostanza, e malgrado tante difficoltà, hanno saputo svolgere bene il loro ruolo istituzionale di assistenza e di tutela di interessi e diritti. Interessi e diritti che, sia ben chiaro, i lavoratori da soli e la stessa rete diplomatica italiana all’estero non avrebbero potuto assicurare. Sbaglia chi pensa che i patronati siano una semplice appendice degli apparati amministrativi pubblici o comunque grigi passacarte di pratiche previdenziali. A fronte di quasi 5 milioni i cittadini iscritti all’AIRE e decine di migliaia gli italiani che hanno ripreso recentemente ad emigrare e che reclamano una giusta ed efficiente tutela previdenziale, fiscale e sanitaria - che lo Stato italiano è solo in minima parte in grado di garantire all’estero – i patronati rappresentano l’unico legame vero, concreto, utile, qualificato che gli italiani all’estero hanno con l’Italia; un legame di diritti tutelati per il conseguimento in sede amministrativa delle prestazioni previdenziali e assistenziali senza fine di lucro e trattando in posizione di eguaglianza la generalità di tutti i lavoratori, ma anche di umanità e di amicizia, che spesso compensano il distacco burocratico e la supponenza della rete diplomatica. Vorrei infatti ricordare, ma lo farà meglio di me il Dott. Conte, Direttore del Dipartimento Convenzioni internazionali dell’Inps, che attualmente il servizio di pagamento delle prestazioni dell’Inps all’estero viene svolto in oltre 150 Paesi del mondo ed interessa una platea di circa 400.000 beneficiari per un importo complessivo di oltre 1 miliardo di euro. A fronte di questa realtà e dell’esplosione dei fenomeni migratori internazionali, acquisiscono sempre maggiore rilevanza le funzioni sociali, previdenziali ed assistenziali che fanno capo all’Inps ed ai patronati. Sta cambiando infatti la natura stessa della pensione internazionale, che in un mondo globalizzato non rappresenta più una categoria residuale rispetto alla pensione nazionale. Allora bisogna salvaguardare quanto più possibile queste esperienze maturate sul campo, molte delle quali sono legate alla presenza e al lavoro de patronato, stante il sempre maggior valore di pubblica utilità dell’attività demandatagli. Tale impegno occupazionale deve sensibilizzare il legislatore non a ridurre i finanziamenti, come si sta cercando ancora di fare, ma a dotare i patronati di una fonte di approvvigionamento finanziario che armonizzi il principio di gratuità (che sempre deve improntare le funzioni e le prestazioni offerte dai patronati) con l’esigenza dei patronati stessi di fare fronte agli impegni finanziari cui sono tenuti, e a puntare sull'estensione delle attività loro demandate che sia ben chiaro, nel caso dei patronati all’estero, non devono e non possono limitarsi alla pur utile attività di supporto alle autorità diplomatiche consolari italiane. Il vero problema è tutelare e corrispondere attivamente a quello che la Corte Costituzionale ha identificato come “nucleo costituzionale irrinunciabile”, “connotato essenziale della previdenza pubblica”. Ciò che vorremmo sentire nel corso del dibattito, tuttavia, sono le proposte di modifica dell’organismo “patronati” volte a migliorare l’efficienza del sistema e a ridurre gli eventuali sprechi prevedendo per l’allocazione del finanziamento criteri non solo quantitativi ma anche qualitativi in modo da mettere a tacere chi punta sostanzialmente a un mondo senza patronati e sindacati, e degli strumenti quindi di sostegno di lavoratori e pensionati. Abbiamo voluto porre l’accento sulla parola “rete”, perché siamo convinti che in una fase di riduzione e razionalizzazione della spesa pubblica la risposta migliore da dare sia la “messa in rete” appunto dei servizi tradizionali dell’amministrazione pubblica con le realtà associative presenti sul campo degli italiani nel mondo, patronati e non solo; in questo senso sarà utile ascoltare l’intervento del Dott. Reboani, Presidente di “Italia Lavoro”, società del Ministero del Lavoro che non molti anni fa si era cimentata in un progetto pilota particolarmente innovativo in questo senso. Il mondo degli italiani all’estero è infatti profondamente cambiato con il succedersi delle generazioni e con l’ascesa sociale che i discendenti degli emigrati hanno realizzato, divenendo classe dirigente nelle loro realtà d’insediamento. Senza trascurare, tuttavia, le sacche ancora ampie di bisogno sociale e talvolta di marginalità che esistono in alcune situazioni di storica immigrazione. La crisi, inoltre, ha innescato nella società italiana nuovi meccanismi espulsivi che hanno fatto crescere con progressione geometrica il numero di coloro che abbandonano il nostro Paese. Negli anni passati si è parlato di “fuga dei cervelli”, più di recente di “nuove mobilità” e, alla luce dei flussi sempre più consistenti e ramificati, credo si possa parlare più semplicemente di “nuove migrazioni”. Come è noto, stime attendibili parlano di poco meno di 150.000 persone che ogni anno lasciano l’Italia, ma se si aggiungono le mobilità brevi di lavoro, che non assumono una rilevanza statistica, si deve pensare a numeri più importanti. E’ vero che coloro che partono hanno in genere, ma senza esagerare, un livello culturale e un’attrezzatura linguistica più elevati rispetto agli emigranti della seconda metà del secolo scorso. Ma è altrettanto vero che il welfare e le reti di solidarietà si sono indebolite in quasi tutti i Paesi di più recenti immigrazione e che, quindi, ognuno dei partenti deve affrontare spesso in solitudine i problemi dell’insediamento, dell’informazione di lavoro, della scolarizzazione dei figli e delle tante altre cose che ad un’esperienza di emigrazione sono connesse. Sappiamo anche che i nuovi emigrati non sembrano interessati al mondo associativo tradizionale della nostra emigrazione e non cercano in esso i loro interlocutori. C’è una terra di mezzo, insomma, da sondare, da dissodare, da riempire. Rispetto a queste nuove esigenze come si stanno interrogando e preparando i Patronati? Quali sono i loro propositi, quali i loro progetti, quali le esperienze maturate sul campo? Ecco, queste cose vorremmo sentire oggi e ogni giorno da parte dei Patronati. Anche quest’anno faremo la nostra onesta battaglia a livello parlamentare per fare in modo che il taglio dei contributi sia evitato e non abbia effetti letali. Prenderemo chiaramente posizione contro la campagna di delegittimazione dei Patronati che si conduce sulla stampa e anche in qualche ambiente istituzionale. Chiederemo, anche grazie alla importante e significativa presenza del Sottosegretario Giro a questa iniziativa, che si apra finalmente un tavolo di confronto sulla questione della ratifica della convenzione con il MAECI perché si arrivi ad una posizione trasparente e costruttiva. Ma i Patronati, al di là di alcuni pur legittimi passaggi difensivi, che cosa dicono sulla loro riforma? Come intendono razionalizzare la loro presenza e la loro attività in relazione al nuovo quadro di compatibilità finanziarie che si è delineato? Come pensano di svolgere un ruolo non di osservatori o comunque indiretto di fronte alle nuove migrazioni che si stanno sviluppando? Camminare in avanti, avere un forte ispirazione innovativa, dimostrare di saper cambiare con il mondo che cambia: questa – crediamo – sia la migliore difesa che il patronati possano fare di sé stessi e la migliore prova che il loro ruolo è ancora necessario perché, come nel passato, esso si innesta nella condizione vera dei lavoratori e nella quotidianità reale delle persone.