REINALDO SIETECASE

Queste cronache appartengono al libro Non c'è tempo da perdere Editoriale Aguilar. Reynaldo Sietecase Il viaggio / I morti e Carta Natal si riferiscono all'arrivo dei miei nonni a Rosario. Alcuni siciliani e altri calabresi. Palermo e Taormina sono testimonianze di un viaggio.

VIAGGIO

Come chi segue le tracce di un pesce, cerco i genitori dei miei nonni e dei loro figli. Li cerco oggi quando nessuno prende in giro le loro giacche logore, i loro baffi folti e i loro cognomi oscuri. Suscito i loro segni particolari, le loro angosce. Nelle foto gialle vedo storie di partenze e ritorni. Nei sogni vedo le barche, i cappelli neri, la rivoltella di mio nonno Luis, le mani di mia nonna sulla pasta fresca. So che scappano e bevono. So che scappano e cantano. Vagano con nomi cambiati e amori perduti. Trovo quello che cerco anche quando non riesco a trovarlo e i loro passi si perdono nelle città del sud di Santa Fe che hanno contribuito a fondare. Cerco il piacere che si ottiene con la presenza di un'assenza. Cianciana non compare su alcune mappe della Sicilia. Il comune non è piccolo ma è stato messo in ombra da Agrigento, la città che ha dato il nome alla provincia. Lì, nel sud dell'isola, Giuseppe Setticasi si sveglia ogni mattina pensando di viaggiare. Giuseppe inventa meraviglie sotto il sole del Mediterraneo e incoraggia i suoi concittadini con dolci storie. “Contadini, c'è un altro mondo dove i giorni sono lisci e la terra è per coloro che vi affondano le mani ogni alba. Più lontano di Roma, nell'ignoto sud. Devi scappare dalla miseria. Vi assicuro che c'è un altro posto in cui pensare ai bambini". Giuseppe ha paura ma a 20 anni la paura è un amico. “Coraggio, cuore, io sono siciliano”. Terra di viaggiatori. Uomini dal nulla che camminano su un'isola che solca il mare. Arabi, Greci e Romani hanno bevuto la gioia che solo il fugace dona. «Coraggio cuore, vengo dalla Sicilia», ripete come una canzone stonata, come una preghiera che Dio poi ripudierà. Nessuno al porto è venuto a salutarlo e stipato in terza classe con mille connazionali, Giuseppe il contadino pensa all'America. Poi verranno i giorni infiniti in alto mare. Notti insonni, fame e solitudine. La nave è un pezzo d'Italia alla deriva. Una Babele fluttuante. C'è un partito della lingua nell'incrocio dei dialetti. È il maggio del 1896 e Giuseppe viaggia alla ricerca della sua ombra. Più tardi, a terra, perderà anche il cognome. La voce dei sette casi che ha accelerato la sua partenza. Attraverso lo stesso declino sulla conchiglia atlantica, su una nave diversa, percorre l'altra estremità del mio sangue. L'uomo basso non si muove dal mazzo. Il vento del mare gli colpisce il viso e lo costringe a stringere con una mano il berretto nero, mentre con l'altro braccio si aggrappa alla ringhiera di legno. Il secolo sta morendo e i suoi occhi azzurri si aggrappano all'oceano. La vita è un viaggio di quaranta giorni. Quaranta giorni non sono bastati a The Dark One per rompere la decisione del Nazareno nel deserto, perché Gaetano Deni dovrebbe rilassarsi proprio ora che il mare lo sta spingendo nel futuro? La nave cade come un sasso lungo il fianco della montagna. La donna piange in silenzio abbracciandole la vita. Chiara non perde i vicoli di Santo Stefano di Rogliano, il piccolo paese della Calabria dove è nata e si è innamorata fino a perdere la testa. Piange suo figlio morto sulla nave. Improvvisamente si ammalò e svanì tra il pianto e la febbre. Un ufficiale gli strappò di mano il corpicino e poi dovettero gettarlo in mare. “Morirò di tristezza”, pensa Chiara e l'idea la rassicura. "Argentina è solo un nome, per favore torniamo indietro", prega ogni notte prima di andare a dormire, e l'uomo con la cicatrice sulla fronte la abbraccia. «Il mio dolore è grande come il mare», mormora in dialetto, e il sonno la riporta ai campi di Cosenza. Ma Gaetano non tornerà. Sai che questo è l'ultimo viaggio. Verranno altri bambini e con loro tornerà la gioia. Ha già messo piede nella pampa tre anni fa e ora è deciso a lasciare l'Italia per sempre. Lo farà senza clamore come qualcuno che lascia una donna che ama ancora. Non è la promessa scritta sui manifesti del Comitato per l'Emigrazione a guidarla: Fare l'America. Bugie compagni. Questo paese ti mangerà il cuore, grida la sua coscienza anarchica. Ma non può farne a meno, è come una sete che lo spinge avanti. “Arrivederci, Santo Stefano”. Tutto si dissolve nell'azzurro del mare, della montagna, della casa paterna di via Contrada Capoalfieri, del bar, degli uliveti. Sono fantasmi amichevoli, disegni sulla sabbia. La nave cade come vino rosso sulla porcellana del piatto fondo. “Per piacere, ritorniamo”, implora Chiara. Il caporale maggiore Gaetano Deni si tocca la cicatrice sulla fronte e la bacia sulle labbra. Con uguale dolore, come se fosse un altro bambino sepolto nell'oceano, comincerà presto a perdere la lingua. Benvenuti nel sud del sud, dove paradiso e inferno sono simili. Qui saranno ingannati e rinnegati. Subiranno maltrattamenti e infamie. Cadranno e si rialzeranno di nuovo. Una, due, tre, tante volte. I Deni semineranno la provincia, lotteranno per la terra come se fossero nati lì e non in Calabria. Vinceranno il pane con il sangue. Nonno Luis sarà un giudice di pace. Lascerà in eredità un orologio, due mucche e una rivoltella, e anche la bellezza della pelle di mia madre. Le Sietecase conosceranno tutte le varianti della fame. Non si arrenderanno comunque. Mangeranno gli avanzi e i biscotti. Andranno a scuola. José Sietecase si innamorerà successivamente. Mia nonna Delia parlerà con Dio e alla fine sceglierà di non pugnalarlo. Mio padre nascerà da quel misto di misericordia e vendetta. Il destino riunirà le due famiglie a un ballo di carnevale, in una notte di luna, in un locale a Rosario. Un secolo prima che i miei polpastrelli si mettessero a fissare i loro nomi su carta, i genitori dei miei nonni e dei loro figli calpestavano la terra che li avrebbe coperti.

PALERMO

Sono finalmente sull'isola più grande del Mediterraneo. Ho raggiunto l'origine oscura del mio sangue. Il treno per Palermo scende da Roma con la forza di un sasso lanciato in un momento di odio. Mi spingono le promesse di Elio Vittorini, i pettegolezzi del vino rosso, le voci dell'infanzia. Non ci sono ponti con l'Europa, non ci saranno. Lo spero. Che meraviglia: solo la porta del mare si frappone. Il treno viaggia su una nave con un fragore di metallo. Non esiste un'operazione del genere in nessun'altra parte del mondo. Il mastodonte percorre i tre chilometri che separano l'isola dalla terraferma. È mattina presto. Scendo dalla macchina e salgo sul ponte del traghetto. Un passeggero con grandi baffi mi guarda con simpatia, con un braccio puntato verso le luci di Messina. Sono sospeso lì, appeso a quell'immagine, in mezzo al nulla. Un altro sconosciuto mi porge un caffè, con il bicchiere di plastica in mano rimango qualche minuto appoggiato alla ringhiera. È un benvenuto? Il ragazzo se ne va senza guardarmi. Non mi dà nemmeno il tempo di ringraziarlo per il gesto. Lascio andare il ricordo, la tavola apparecchiata fin dall'inizio della domenica, dispiegata come quest'alba che si allarga alle domande. Torno alla mia infanzia. Elaboro un incantesimo fatto in casa per contrastare la fame del primo mattino: “Pasta, pesce, arance, formaggio”, ripeto a bassa voce e torno in baita. Arriviamo al porto. Messina, più volte distrutta dai terremoti, si erge alta su se stessa. Messina, punto di riferimento per i siciliani. Per i viaggiatori, luogo di passaggio. Immediatamente il treno torna alla sua folle e terrestre corsa alla ricerca di Milazo, Cefalù e delle città a nord del triangolo magico. Sotto la fioca luce dell'alba passa il mare, le nuvole basse, le barche azzurre dei pescatori. La vita è un film attraverso la piccola finestra. Un bambino in bicicletta, una donna che porta un cesto di arance sotto il braccio, un uomo in maglietta ferma la mano sulla testa di un cane nero. Improvvisamente arriviamo nella capitale. Il Palermo è un frutto maturo sotto il sole. Palermu come lo chiamano in dialetto gli anziani. L'intera città è un mercato nel suo ritmo folle. Negozi di abbigliamento, stand gastronomici: pesce spada, polpo, frutti di gioia destinati alle riunioni di famiglia si susseguono per strada. L'albergo, di generosa valutazione, prende il nome Lampedusa dallo scrittore e aristocratico siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de Il Gattopardo. “Che tutto cambi in modo che tutto rimanga uguale”. Realismo politico a zero gradi. È così che va, credo. Noi e loro. Ma che libro tenero. Una storia che unisce verità e bellezza. L'hotel è vecchio ma confortevole. Abito in questi giorni al secondo piano di via Roma. A pochi metri da dove la mafia ha assalito stamattina un ufficio postale, secondo le forze dell'ordine, per finanziare nuove operazioni. La parola nonstop si riferisce alla violenza, ai corpi insanguinati e ai lupara, gli antichi fucili siciliani. Tuttavia, nel nuovo millennio la mafia ha adottato strategie più sottili, vicine agli affari del capitalismo. La sua arma più sofisticata è lo stretto legame con il potere. L'origine del termine mafia è incerta. Alcuni pensano derivi dall'antica espressione toscana maffia, che significa miseria. Altri dicono che sia un acronimo vendicativo. La storia che mi piace di più è quella che indica che derivi dalla parola araba mu'afáh, che letteralmente significa protezione dei deboli, ma anche bellezza, abilità e sicurezza. Infatti, nelle sue origini funzionava come una sorta di feudalesimo popolare, senza una base territoriale, secondo cui gli uomini più forti e rispettati davano protezione ai più deboli. Nel medioevo servì a contenere gli eccessi della monarchia. Ma questo è stato prima di passare finalmente ad attività illecite. Palermo si sveglia al suono delle sirene, del caffè lungo e delle urla. Da nessuna parte sul pianeta le persone urlano come qui. Mi unisco a un contingente di bambini in visita all'International Puppet Museum. In questa vecchia casa riciclata per il turismo, Policcinella si riscatta davanti ai miei occhi. Lontano dall'altra parte della città, nella prigione fortezza di Ucciardone, il pm Caselli prepara la sua causa contro il senatore a vita Giulio Andreotti, l'uomo più potente d'Italia da mezzo secolo. Tutto ha una fine, tutto finisce. Mentre cammino tra i volti delle bambole di legno, immagino che mentre rivede da solo le prime pagine dei suoi scritti, il pm Caselli abbia paura. Forse vi ricordate in quel momento i giudici antimafia Giovani Falcone e Paolo Borsellino assassinati nel 1992 a pochi chilometri da lì. Quando arriverà il momento, non esiterà ed esporrà l'accusa di associazione mafiosa senza che la voce gli trema. Fuori, la giornata esplode nella Vuccería, un mercato di strada strettamente legato ai mercati sparsi per il mondo arabo. Cento anni i Mori hanno dominato queste strade. Anche la Sicilia faceva parte di un Califfato. E sono passati. Come i Fenici, i Cartaginesi, i Greci e i Romani, i Francesi e gli Spagnoli. Passarono anche gli americani, lasciando la loro scia furiosa nella seconda grande guerra. Niente li ricorda sui balconi dove il sole rende giustizia ai panni stesi. Più indietro, i volti sorridenti, i fiori che persistono in autunno sembrano bandiere urbane. Le gambe snelle e sicure mi tolgono il fiato mentre cammino verso la chiesa di Santa María de la Cadena. Goethe era qui? Hai visto il mare azzurro dal Monte Pellegrino, "il promontorio più bello del mondo"? Soldati, mercenari, invasori di tutte le lingue hanno camminato per queste misere strade. Proprio come me, che ora la perseguito. Alzò lo sguardo. Tracce dell'Islam si trovano nelle cupole della chiesa di San Giovanni degli Eremiti. Mi fermo ad una curiosità. I siciliani affermano che furono le monache della chiesa della Martorana ad inventare i dolci di marzapane. Che diranno le suore applicate dei conventi di Toledo che si arrogano quell'arte della gola? I dolci possono produrre uno scisma religioso? Non c'è riposo a Palermo, né Cosa nostra contro il tempo che sta sfuggendo di mano. Sento l'assenza del corpo che desidero durante il mio monito ai suoi contorni. Il mio asilo nido? Farò l'amore sull'isola dei miei nonni? È un gioco Marino, una reiterazione dolce e dolorosa come il mare di Sicilia.

LA MORTE

Mio nonno è quello morto. Va con il suo gesto serio, da casa sua all'angolo della chiesa fino al bar dell'altro isolato. Perché il vino va. Perché la sua stanchezza ne va. Nessuno è d'accordo. Indossa un cappello di feltro, una maglietta bianca con il manico arruffato, pantaloni neri. Semina angosciato, lo vedo solo vagare. Ha orgoglio e un coltello. A volte è brutale. Cosa si può chiedere di più da un uomo che è nato nell'entroterra dell'isola. Che tu appartenga a questo territorio o meno. Sopravvivi alla zappa o pensi al modo migliore per sfuggire alla miseria. Cianciana esiste? Quel nome non contiene un significato luminoso. Dalle colline il vento trascina il dolore nelle case. Anche gli uomini d'onore sono tristi. Il vecchio è giovane quando lo immagino. Pensa a partire. La terra nega i frutti del lavoro e nella pista da bowling hanno infettato il suo sangue con la parola America. Non sembra così complicato. Raccogliete le poche cose su un carro, caricate la donna, il bambino e iniziate il viaggio verso Agrigento. Quindi, prendi posto su una barca e inizia la discesa verso il sud del mondo. Cadendo in un luogo dove è possibile depositare la speranza. I Normanni, gli Arabi, gli Spagnoli, perfino gli Inglesi, lo fecero nella direzione opposta. Naturalmente non erano guidati dalla fame ma dall'avidità. Dal ponte osserverai i templi greci lungo la costa. Da bambino li aveva visitati: il Tempio di Giove Olimpio, il Tempio della Concordia, le colonne di quello che era il Tempio di Ercole... Prima di partere per Cianciana, decido di andare in pellegrinaggio a Porto Empedocle, a circa 35 chilometri da Agrigento. C'è la casa natale di Luigi Pirandello. La casa museo è chiusa, e i turisti portano l'illusione del pappagallo nel bar, io sono una persona vicina a un autore. Pochi metri a sentiero porta al mare. Ci sono alberi con fiori rossi. Dico che poco importa, parlavo tanto che tornai a Pirandello nel buio dei teatri. Alla stazione improvvisata di Agrigento, lo spettro mi osserva. Non riesce a capire cosa sto di fronte al vuoto dei suoi occhi. Non mi aspetto in questo secolo. È una specie di odio e di amore duraturo, semina fastidioso. Come spiegargli che vieni a riconciliarmi con la storia che mi precede. Con il destino che ha portato qualcosa di lungo. Sud del Sud. Il mio contratto di locazione. non lo vedo più Compro il biglietto. Era arrivato ad Agrigento in treno, da Palermo. L'idea di viaggiare in autobus adesso mi entusiasma. Il viaggio dalla costa mediterranea a quella cittadina dell'entroterra è un'avventura quotidiana per appena una dozzina di siciliani. Colline e pietre si susseguono in una sequenza ostile che rivela un paesaggio di stenti. La strada è a tratti cornice, più di due ore di curve pericolose. Ma più pericoloso è dimenticare. Scendendo i pendii, greggi di pecore, ragazzi che agitano le mani in saluti mattutini al passaggio dell'autobus. Vado con la faccia premuta contro la finestra. Insieme sete e sonno, due sensazioni che mi separano dal mondo segreto dei morti. L'autobus mi lascia nella piazza del paese. Cianciana ha poco più di duemila abitanti, poi scopro che registra altrettanti emigranti sparsi per il mondo. Mi sento come un marziano d'argento in piedi in questo angolo di tempo e spazio. Mi avvicino a un uomo magro che sembra non aspettarsi nulla, per chiedergli del quartier generale della comunità. Fa parte del mio infinito piano per individuare il primo di tutti i miei morti. Mi interroga in dialetto e io riesco a mostrargli il mio cognome di prima: Setticasi, gli dico. La parola apre le porte che lui percepiva come terribili barriere. L'uomo sorride e lancia il nome in aria nel mezzogiorno d'autunno. Gridare il cognome a chiunque, e mi spaventa. Presto compaiono altri uomini con la faccia di mio padre. Filippo, Stefano, Pietro. Ci sono abbracci, paure, sorprese. Ci soffermiamo e poi, come gesto vitale, cerchiamo il buio di un bancone per imbiancare affetti ed esercitare la memoria. Nell'oscurità della pista da bowling sembra che io sia l'unico che può vedere il morto. È appoggiato al bancone e ci guarda. Siamo poi partiti per il rito della cucina. A casa di Pietro Setticasi ci sono le tagliatelle, i baci, i racconti, il vino rosso, i formaggi siciliani. La moglie di Pietro ha occhi indimenticabili. Si chiama Ginna Corleone e sorride mentre serve la pasta. È felice. Stefano, a 81 anni, mangia come un soldato. Giuseppe ha la mia età e ha mani potenti. Ogni tanto accarezza il ventre della donna che custodisce il suo seme. Il suo nome è lo stesso di quell'uomo che inseguo nei miei sogni. È una famiglia di costruttori e gode della tavola, che interrompe il lavoro. Il pomeriggio è morbido. Percorriamo Cianciana lentamente. Fermare la vista in ogni casa. È un compito piacevole: le persone ci salutano, aprono le porte, offrono dolci, caffè e marsala. Saliamo in cima al paese, dove una croce riceve le preghiere durante la Settimana Santa. È un monte Calvario di modeste proporzioni. Il paesaggio è in movimento. Nubi basse accarezzano le montagne. Qualsiasi bambino potrebbe far piovere con una pietra precisa. Scendiamo. La chiesa dove si sposò il nonno rimane lì. È piccolo e poco illuminato. Su una delle panchine sullo sfondo lo rivedo. È in discussione con Dio. Lo saluto con un cenno del capo. Il gesto non mi risponde. esco sconvolto. Con i parenti, abbiamo cominciato a salutarci in silenzio. Fuori, il cielo diventa grigio. «Presto pioverà», dice Giuseppe. Taormina Tu pronunci la città e succede qualcosa. Il fulmine esce dalle tue labbra annunciando la tempesta di sentimenti che cadrà sui corpi. È un'introduzione alla notte d'amore in questo hotel sperduto nel posto più bello dell'isola. Come se il futuro dipendesse da quella parola. Linguaggio dei gatti, canto dell'anima:

Taormina.

È appeso alla montagna - dici tu - e i tuoi occhi sono entusiasti. Le case appaiono tra le nuvole. C'è anche la Grecia qui. Ci si arriva in treno da Messina, in macchina da Siracusa, in nave dal Nord Africa, in bar da Londra o dall'Argentina. Non in aereo. Con l'anima si arriva a Taormina. «È la più grande opera d'arte e di natura che abbia mai visto», esclamò Goethe nel suo Giro d'Italia. E vi ricordo che non abbiamo letto Goethe. Forse non lo faremo mai. Beviamo ora per le famose frasi di scrittori famosi che portano le guide turistiche a buon mercato. Dico che sono false. Scherzi dell'editore ubriaco. Ma con Taormina ogni esagerazione è vera. Città che vive sul cornicione, tra l'Etna e il mare, case sostenute dal vento. "Come se fosse rotolato giù dall'alto." Questa frase è di Guy de Maupassant, insisti vittorioso ora con gli occhi persi nel Mediterraneo. Torniamo a sorseggiare vino rosso vicino alla finestra. Siamo persi tra il fuoco e l'acqua. Tra il soffitto e il letto. Entrambi persi. Come i marinai greci che dimenticarono di venerare Poseidone e furono puniti con il naufragio. Solo uno sopravvisse: Teocle, e incantato dall'isola visse per tornare. All'alba, passeggeremo per il teatro greco per suonare con la sua meravigliosa acustica. Risale al 3° secolo avanti Cristo e fu completamente ricostruita dai romani. Un teatro simile l'ho visto solo a Epidauro, il più importante centro di guarigione dell'antichità, nel Peloponneso. Al centro della scena reciterò, sotto una maschera con le orbite vuote, frammenti di Edipo da farvi applaudire dall'ultima fila di gradinate. Poi troveremo un tavolo al sole in corso Umberto, per un caffè nero e chiacchierare sui giornali. Poi, per placare la sete lasciata dalla caffeina nella fontana davanti alla chiesa. Sarà sempre così finché durerà. Taormina frantuma gli stranieri, li compatta, ruba loro i sensi, li recupera per l'aria e il sale del mare, mi dici molto seriamente. E ho bisogno di crederti. Aspetto il miracolo e ti bacio dolcemente la punta del naso. Saluto le bugie che scaturiscono dal tuo stomaco come vomito profumato. So che, come la città, mi lascerai. Facciamo tutto questo in un rituale lento mentre percorriamo queste strade che salgono e scendono con noncuranza con i nostri passi, senza muoverci. Il tempo si è fermato in questa stanza dove le tue parole si riversano come miele sui miei dubbi di viaggiatore. Una barca, una barca chiede il mio cuore. Una nave che resta alla deriva. Dimentica per un momento che i sogni finiscono. Taormina. Fine e inizio della strada. Tu pronunci Taormina e ti illumini.

TEMA NATALE

Nonno dammi la mano, non vedo niente in questo tramonto pochi minuti prima della tua morte. Intuisco la città nei grembi del sangue. Benvenuti dove non c'è posto per i dolci sogni dell'infanzia. Vocazione per i porti. Che diavolo ci faccio in queste terre piatte e desolate? Nel suo nome risuonano cappelli pieni di vocali, sciarpe legate intorno alla vita e punteruoli corti e affilati. Chitarre che richiamano l'essenza di Granada. Una fisarmonica a piano per i funerali. Scrivo nella città che non è mai stata fondata. Nel paese degli anfratti tagliati fino in fondo. Una città che scrivo in giro per uno sguardo. Fattoria nel secolo delle rivoluzioni e ora orgogliosa omissione dal passato di lance e pistole. Un'ombra ancorata come una nave sul fiume tumultuoso che striscia lentamente verso la sua dolce foce. Sito finale in cui è rimasta la luna. Qui le mie labbra si sono sciolte. Solo un punto cardinale nella memoria del mondo. Un luogo dove il tango avrebbe potuto benissimo nascere eppure è nata la bandiera. Nonno dammi la mano. Un valzer con violini sul ponte e il Mediterraneo come tovaglia protesa verso l'azzurro Atlantico. Destino comune dei perseguitati, briciole pubiche, bambini inopportuni e brilla sul tetto dell'orizzonte come un presagio. Giriamo a sud, una lacrima che rotola e cade in un luogo inspiegabile. Grani del rosario. Una promessa intorno al 1900. Niente da perdere in questo gioco, salvo la carne della pancia e le ossa di famiglia che abbiamo portato in un sacchetto di iuta. Delle piccole tibie, una scapola sproporzionata di uno zio contadino, la latta di una dozzina di falangi che si scontrano con il crepitio del mare. Addio Città. Mezzogiorno affamati e coito rabbioso per il giorno perso nella sua bellezza. Donne straordinarie con accenti da gatto. Dialetti morsi di rabbia davanti allo spagnolo cristallino che attraversa il vento come una raffica. Nave delle nuvole che insegue un molo impossibile e viaggia inevitabilmente all'interno dello sperma. Eri determinato a trovarmi a questo improbabile bivio, anche se lo neghi. Città di Guevara. Porto dei pirati. Babele Oscura. Vitello del mondo. Quattro di Coppe nell'ultima mano. Stazione dell'Oblio. Sono nato qui, ignaro dell'odio e delle premonizioni. Amori morti, saccheggiati e perduti ti verranno in grembo. Verrà la polizia e i brevi baci sotto la pioviggine fredda. Forse sono nato qui, prolungamento di un'ombra che in un'altra città è inglobata tra la folla innumerevole. Londra, Santiago, Montevideo, Atene e Managua. Riesco a malapena a girare su una mappa senza ferirmi la punta delle dita. Porto che scrivo e disegno nei tuoi occhi stupiti. Non riesco ad abituarmi a questo sole che scalda a malapena il mio arrivo. Sono nato. Settanta chilogrammi disposti a camminare ai margini della specie. Affronto le voci che rilasciano le peggiori maledizioni. Alberto Olmedo, sei in paradiso e non smetti di cadere come un uccello ferito, non lasciarmi senza champagne nella città del comandante Feced e degli assassini. Aldo Poy abbi pietà delle poesie create per interesse e perdona il mio perdono, le ore perse in una filiale della banca Litorcoop, le sconfitte in Plaza López, le diserzioni alle feste della vita. Paco Urondo dimentica le mie mani perse in una redazione. Accetta i miei anni da insegnante, le cattive bevande, le felici infedeltà, la mia convinzione di fuggire dalla gioia, le minacce di morte, l'integrità che la bevanda risveglia in me, le storie notturne ai miei figli. Nonno dammi la mano. Intercedi per la mia confusione geografica. Vanzo ti dipinge con la tua tuta logora, pochi minuti prima che tu venga ucciso per aver difeso contadini e anarchici sfrattati. Prima di poter installare il nome di una donna sulle labbra. Non rischio ad abituarmi a questo sole che scalda a malapena il mio arrivo. Sono nato. Settanta chilogrammi disposti a camminare ai margini della specie. Affronto voci che rilasciano le peggiori maledizioni. Alberto Olmedo, sei in paradiso e non smetti di cadere come un uccello ferito, non lasciarmi senza champagne nella città del comandante Feced e degli assassini. Aldo Poy abbi pietà delle poesie create per interest e pardon il mio perdono, pregate perse in una filiale della banca Litorcoop, nascondetelo in Plaza López, le diserzioni alle feste della vita. Paco Urondo dimentica le mie mani perse in una redazione. Accetta i miei anni da insegnante, le cattive bevande, le felici infedeltà, la mia convinzione di fuggire dalla gioia, le minacce di morte, l'integrità che la bevanda risveglia in me, le storie notturne ai miei figli. Nonno dammi la mano. Ho interceduto per la mia confusione geografica. Vanzo ti dipinge con la tua tuta logora, pochi minuti prima che tu ven ucciso per aver diffeso contadini e anarchici sfrattati. Prima di poter mantenere il nome di una donna labbra. (traduzione a cura di Salvatore Augello – segue testo originale)

TESTO ORIGINALE IN LINGUA SPAGNOLA

Estás crónicas pertenecen al libro No hay tiempo que perder editorial Aguilar. Reynaldo Sietecase El viaje / El muerto y Carta Natal hacen referencia a la llegada de mis abuelos a Rosario. Unos de Sicilia y otros de Calabria. Palermo y Taormina son registros de un viaje. Abrazos

EL VIAJE

Como quien sigue el rastro de un pez, busco a los padres de mis abuelos y a sus hijos. Los busco hoy cuando ya nadie se burla de sus sacos raídos, sus bigotes espesos y sus oscuros apellidos. Revuelvo sus señas particulares, sus angustias. Veo en las fotos amarillas historias de partidas y regresos. Veo en sueños los barcos, los sombreros negros, el revólver de mi abuelo Luis, las manos de mi abuela sobre la masa fresca. Sé que huyen y beben. Sé que huyen y cantan. Vagan con nombres transformados y amores perdidos. Encuentro lo que busco hasta cuando no lo encuentro y sus pasos se pierden por los pueblos del sur santafesino que ayudaron a fundar. Procuro el placer que se consigue con la presencia de una ausencia. En algunos mapas de Sicilia no figura Cianciana. La comuna no es pequeña pero fue eclipsada por Agrigento, la ciudad que dio nombre a la provincia. Allí sobre el sur de la isla, Giuseppe Setticasi se despierta cada madrugada pensando en viajar. Giuseppe inventa maravillas bajo el sol del Mediterráneo y anima a sus paisanos con dulces narraciones. “Campesinos, hay otro mundo donde las jornadas son suaves y la tierra es para quien le hunde las manos cada amanecer. Más lejos que Roma, hacia el sur desconocido. Hay que huir de la miseria. Yo se los aseguro, existe otro lugar donde pensar los hijos.” Giuseppe tiene miedo pero a los 20 años el miedo es un amigo. “Coraje, corazón, soy de Sicilia.” Tierra de viajeros. Hombres de ningún lugar caminando sobre una isla que navega por la mar. Árabes, griegos y romanos han bebido la alegría que solo otorga lo fugaz. “Coraje corazón, soy de Sicilia”, repite como una canción desafinada, como una oración que Dios repudiará más tarde. Nadie en el puerto acudió a despedirlo y hacinado en tercera clase junto a un millar de compatriotas, Giuseppe il contadino piensa en América. Después vendrán los días interminables en alta mar. Las noches de insomnio, el hambre y la soledad. El barco es un fragmento de Italia a la deriva. Una Babel flotante. Hay una fiesta de la lengua en el cruce de dialectos. Es mayo de 1896 y Giuseppe viaja en busca de su sombra. Después, en tierra, perderá hasta el apellido. El rumor de los siete casos que apuraron su partida. Por el mismo declive sobre el caparazón Atlántico, en distinta nave, viaja la otra punta de mi sangre. El hombre bajo no se mueve de cubierta. El viento del mar le azota la cara y lo obliga a apretar la gorra negra con una mano, mientras que con el otro brazo se afirma a la baranda de madera. El siglo agoniza y sus ojos azules se aferran al océano. La vida es una travesía de cuarenta días. Cuarenta días no le alcanzaron a El Oscuro para quebrar la decisión del Nazareno en el desierto, ¿por qué Gaetano Deni tendría que aflojar justo ahora que el mar lo empuja hacia el futuro? La nave cae como un guijarro por la ladera de la montaña. La mujer llora en silencio abrazada a su cintura. Chiara no extraña las angostas callejas de Santo Stefano di Rogliano, el pequeño pueblo de Calabria donde nació y se enamoró hasta perder la cabeza. Llora a su hijo que murió en el barco. Se puso malo de pronto y se fue apagando entre el llanto y la fiebre. Un oficial le arrancó el cuerpito de las manos y después tuvieron que arrojarlo al mar. “Voy a morir de tristeza”, piensa Chiara y la idea la tranquiliza. “Argentina es solo un nombre, por favor volvamos”, ruega cada noche antes de dormir, y el hombre de cicatriz en la frente la abraza. “Mi pena es del tamaño del mar”, murmura en dialecto y el sueño la devuelve a los campos de Cosenza. Pero Gaetano no regresará. Sabe que este es el último viaje. Otros hijos vendrán y con ellos volverá la alegría. Él ya pisó la pampa hace tres años y ahora está decidido a dejar Italia para siempre. Lo hará sin estridencias como quien deja a una mujer que todavía ama. No es la promesa escrita en los carteles del Comité de Emigración la que lo impulsa: Fare l'América. Mentira compañeros. Este país va a comerles el corazón, grita su conciencia anarquista. Pero no puede evitarlo, es como una sed que lo empuja hacia adelante. “Arrivederci, Santo Stefano”. Todo se diluye contra el azul del mar, los montes, la casa paterna de la Via Contrada Capoalfieri, el bar, los olivares. Son fantasmas amables, dibujos en la arena. La nave cae como el vino tinto sobre la porcelana del plato sopero. “Per piacere, ritorniamo”, ruega Chiara. El cabo mayor Gaetano Deni se toca la cicatriz de la frente y la besa en los labios. Con igual dolor, como si se tratara de otro hijo sepultado en el océano, pronto comenzará a perder el idioma. Bienvenidos al sur del sur, donde paraíso e infierno se parecen. Aquí serán engañados y repudiados. Sufrirán maltrato e infamias. Caerán y volverán a levantarse. Una, dos, tres, muchas veces. Los Deni sembrarán la provincia, pelearán por la tierra como si hubiesen nacido en ella y no en Calabria. Ganarán el pan con sangre. El abuelo Luis será juez de paz. Dejará como herencia un reloj, dos vacas y un revólver También la belleza en la piel de mi madre. Los Sietecase conocerán todas las variantes del hambre. De todos modos no darán tregua. Comerán sobras y galletas. Irán a la escuela. José Sietecase se enamorará en forma sucesiva. Mi abuela Delia hablará con Dios y optará al final por no apuñalarlo. Mi padre nacerá de esa mezcla de clemencia y vendetta. El destino se encargará de reunir a las dos familias en un baile de carnaval, una noche de luna, en un club de Rosario. Un siglo antes de que mis yemas se dispongan a fijar sus nombres sobre el papel, los padres de mis abuelos y sus hijos pisaban la tierra que habría de cubrirlos.

PALERMO

Estoy por fin en la isla más grande del Mediterráneo. Llegué al origen oscuro de mi sangre. El tren a Palermo baja desde Roma con la contundencia de una piedra arrojada en un momento de odio. Me empujan las promesas de Elio Vittorini, el rumor del vino rosso, las voces de la infancia. No hay puentes con Europa, no los habrá. Eso espero. Qué maravilla: solo la puerta del mar se interpone. El tren monta en un barco con ruido de metales. No hay operación semejante en ningún otro lugar del mundo. El mastodonte navega los tres kilómetros que separan a la isla del continente. Es madrugada. Salgo del vagón y trepo a la cubierta del ferry. Un pasajero de grandes bigotes me mira comprensivo, con un brazo señala las luces de Messina. Quedo suspendido allí, colgado de esa imagen, en medio de la nada. Otro desconocido me alcanza un café, con el vaso de plástico en la mano me quedo unos minutos apoyado en la baranda. ¿Es una bienvenida? El tipo se va sin mirarme. Ni siquiera me da tiempo para agradecerle el gesto. Suelto el recuerdo, la mesa tendida desde la orilla misma del domingo, desplegada como este amanecer que se expande a los interrogantes. Vuelvo a mi niñez. Elaboro un conjuro casero para contrarrestar el hambre de la madrugada: “Pastas, peces, naranjas, queso”, repito en voz baja y vuelvo al camarote. Llegamos a puerto. Messina, varias veces destruida por los terremotos, permanece erguida sobre sí misma. Messina, punto de referencia para los sicilianos. Para los viajeros, lugar de paso. Enseguida, el tren vuelve a su loca y terrestre carrera en busca de Milazo, Cefalú y las ciudades del norte del triángulo mágico. Bajo la luz tenue del alba pasan el mar, las nubes bajas, los botes azules de los pescadores. La vida es una película por la pequeña ventana. Un niño en bicicleta, una mujer que carga un canasto con naranjas bajo el brazo, un hombre en camiseta detiene su mano sobre la cabeza de un perro negro. De repente, llegamos a la capital. Palermo es una fruta madura bajo el sol. Palermu como la nombran en dialecto los ancianos. Toda la ciudad es un mercado en su ritmo alocado. Negocios de ropa, puestos de comida: peces espada, pulpos, frutos de la alegría con destino de reunión familiar se suceden en la calle. El hotel ―una calificación generosa― se llama Lampedusa en honor al escritor y aristócrata siciliano, Giuseppe Tomasi de Lampedusa, autor de Il Gattopardo. “Que todo cambie para que todo siga igual”. Realismo político en grado cero. Así nos va, pienso. A nosotros y a ellos. Pero qué libro entrañable. Una historia que reúne verdad y belleza. El hotel es viejo pero confortable. Vivo estos días en el segundo piso sobre Via Roma. A pocos metros de donde la mafia asaltó esta mañana una oficina de correos, según dice la policía, para poder financiar nuevos operativos. La palabra remite sin escalas a violencia, cuerpos ensangrentados y luparas, las antiguas escopetas sicilianas. Sin embargo, en el nuevo milenio la mafia ha adoptado estrategias más sutiles, próximas a los negocios del capitalismo. Su arma más sofisticada es la estrecha vinculación con el poder. El origen del término mafia es incierto. Algunos piensan que proviene de la antigua expresión toscana maffia, que significa miseria. Otros dicen que se trata de un acrónimo reivindicativo. La historia que más me gusta es la que indica que deriva de la palabra árabe mu’afáh que significa literalmente protección de los débiles, pero también belleza, destreza y seguridad. De hecho, en sus orígenes funcionaba como una suerte feudalismo popular, sin base territorial, según el cual los hombres más fuertes y respetados daban protección a los más débiles. En la Edad Media sirvió para contener los excesos de la monarquía. Pero eso fue antes de volcarse definitivamente a las actividades ilícitas. Palermo se despereza con el ulular de las sirenas, el café lungo y los gritos. En ningún lugar del planeta la gente grita como aquí. Me sumo a un contingente de niños que visita el Museo Internacional de la Marioneta. En esta vieja casona reciclada para el turismo, Policcinela se redime ante mis ojos. Lejos, en el otro extremo de la ciudad, en la prisión fortaleza de Ucciardone, el fiscal Caselli prepara su alegato contra el senador vitalicio Giulio Andreotti, el hombre más poderoso de Italia durante medio siglo. Todo tiene un final, todo termina. Mientras recorro los rostros de los muñecos de madera, imagino que mientras revisa en soledad las primeras páginas de su escrito, el fiscal Caselli tiene miedo. Tal vez recuerda en ese momento a los jueces antimafia Giovani Falcone y Paolo Borsellino asesinados en 1992 a pocos kilómetros de allí. Cuando llegue el momento no dudará y expondrá la acusación por asociación mafiosa sin que le tiemble la voz. Afuera el día explota en la Vuccería, un mercado callejero pariente cercano de los mercadillos esparcidos por el mundo árabe. Cien años dominaron los moros estas calles. Sicilia fue también parte de un Califato. Y pasaron. Como pasaron fenicios, cartagineses, griegos y romanos, franceses y españoles. Hasta pasaron los americanos dejando su estela furiosa en la segunda gran guerra. Nada los recuerda en los balcones donde el sol hace justicia con la ropa colgada. Más atrás, las caras sonrientes, las flores que persisten en el otoño parecen banderas urbanas. Unas piernas finas y seguras me cortan el aliento mientras camino rumbo a la iglesia Santa María de la Cadena. ¿Goethe estuvo aquí? ¿Observó al mar azul desde el monte Pellegrino, “el promontorio más bello del mundo”? Soldados, mercenarios, invasores de todos los idiomas caminaron estas calles miserables. Igual que yo, que ahora la persigo a ella. Levanto la vista. Se encuentran vestigios del Islam en las cúpulas de la iglesia San Giovanni degli Eremiti. Me detengo en una curiosidad. Los sicilianos aseguran que fueron las monjas de la iglesia de Martorana las que inventaron los dulces de mazapán. ¿Qué dirán las aplicadas hermanas de los conventos de Toledo que se arrogan ese arte de la glotonería? ¿Los dulces pueden producir un cisma religioso? No hay descanso en Palermo, ni la Cosa Nostra puede contra el tiempo que se escapa de las manos. Siento la ausencia del cuerpo que deseo a medida que me acerco a su contorno. ¿Me mirará? ¿Haré el amor en la isla de mis abuelos? Es un juego marino, una reiteración amable y dolorosa como el mar en Sicilia.

EL MUERTO

Mi abuelo es el muerto. Va con su gesto serio, desde su casa en la esquina de la iglesia baja hasta el bar de la otra cuadra. Por el vino va. Por su cansancio va. Nadie lo nota. Usa sombrero de fieltro, una camisa blanca en el arremangado brazo, pantalones negros. Parece afligido, solo yo lo veo deambular. Tiene orgullo y un cuchillo. A veces, es brutal. Qué más puede pedirse a un hombre que nació en el interior de la isla. A este territorio se pertenece o no. Se sobrevive sobre la azada o se piensa la mejor forma de escapar de la miseria. ¿Cianciana existe? Ese nombre no encierra un significado luminoso. Desde las lomadas el viento arrastra la pena hacia el interior de las casas. Hasta los Hombres de Honor son tristes. El viejo es joven cuando lo imagino. Piensa en irse. La tierra niega los frutos del trabajo y en el boliche le infectaron la sangre con la palabra América. No parece tan complicado. Juntar las pocas cosas sobre un carro, subir la mujer, el niño y emprender el viaje hasta Agrigento. Después, conseguir lugar en algún barco y emprender el declive hacia el sur del mundo. Dejarse caer hasta un sitio donde sea posible depositar la esperanza. Los normandos, los árabes, los españoles, incluso los ingleses, lo hicieron en sentido inverso. Claro que no los empujaba el hambre sino la codicia. Desde la cubierta se quedará observando los templos griegos de la costa. De niño los había visitado: el Templo de Júpiter Olímpico, el Templo de la Concordia, las columnas de lo que fue el Templo de Hércules… Antes de partir a Cianciana, me decido por peregrinar a Porto Empedocle a unos 35 kilómetros de Agrigento. Allí está la casa natal de Luigi Pirandello. La casona museo está cerrada, los turistas acercan su decepción hasta las rejas, son personajes en busca de un autor. A pocos metros, un camino lleva hasta el mar. Hay árboles con flores rojas. Me digo que no importa, hablé con Pirandello muchas veces en la oscuridad de los teatros. En la improvisada estación de Agrigento, el espectro me observa. No puede comprender qué hago ante el vacío de sus ojos. No me esperaba en este siglo. Es un tipo de odios y amores duraderos, parece molesto. Cómo explicarle que vengo a reconciliarme con la historia que me precede. Con el destino que nos arrojó tan lejos. Al sur del sur. Desisto. Igual ya no lo veo. Compro el pasaje. Había llegado a Agrigento en tren, desde Palermo. Me entusiasma la idea de viajar en bus, ahora. El recorrido desde la costa del Mediterráneo hasta ese pueblo del interior es una aventura cotidiana para apenas una decena de sicilianos. Lomadas y piedras se suceden en una hostil secuencia que revela un paisaje de penurias. El camino es por momentos de cornisa, más de dos horas de curvas peligrosas. Pero más peligroso es el olvido. Bajando las pendientes, rebaños de ovejas, muchachos que agitan la mano en saludo matinal al paso del micro. Voy con la cara pegada a la ventanilla. Junto sed y sueño, dos sensaciones que me separan del mundo secreto de los muertos. El ómnibus me deja en la plazoleta del pueblo. Cianciana cuenta algo más de dos mil habitantes, después me entero de que registra la misma cantidad de emigrantes dispersos por el mundo. Me siento como un marciano plateado parado en esta esquina del tiempo y el espacio. Me acerco a un hombre flaco que parece esperar nada, para preguntarle por la sede comunal. Es parte de mi plan infinito para detectar al primero de todos mis muertos. Me interroga en dialecto y atino a exhibirle mi apellido de antes: Setticasi, le digo. La palabra abre las puertas que intuía como barreras temibles. El hombre sonríe y lanza el nombre al aire en el mediodía de otoño. Grita el apellido a nadie, y me asusta. Enseguida, otros hombres con el rostro de mi padre aparecen. Filippo, Stefano, Pietro. Hay abrazos, temores, sorpresa. Nos demoramos y luego, como un gesto vital, buscamos la penumbra de un mostrador para blanquear afectos y ejercer la memoria. En la penumbra del boliche parece que soy el único que puede ver al muerto. Está apoyado en la barra y nos mira. Partimos luego al ritual de la cocina. En casa de Pietro Setticasi hay tallarines, besos, historias, vino tinto, queso de Sicilia. La esposa de Pietro tiene ojos inolvidables. Se llama Ginna Corleone y sonríe mientras sirve la pasta. Está feliz. Stefano, con sus 81 años, come como un soldado. Giuseppe tiene mi edad y manos poderosas. Cada tanto acaricia el vientre de la mujer que guarda su semilla. Él se llama igual que ese hombre que persigo en sueños. Es una familia de constructores y disfruta la mesa, que interrumpe el trabajo. La tarde es blanda. Recorremos Cianciana lentamente. Deteniendo la vista en cada casa. Es una tarea agradable: la gente nos saluda, abre sus puertas, ofrece dulces, café y marsala. Subimos hasta lo alto del pueblo, donde una cruz recibe los rezos en la Semana Santa. Es un Monte Calvario de modestas proporciones. El paisaje conmueve. Las nubes bajas acarician las montañas. Un niño cualquiera podría hacer llover de una certera pedrada. Descendemos. La iglesia donde el abuelo se casó permanece allí. Es pequeña y está poco iluminada. En uno de los bancos del fondo vuelvo a verlo. Está metido en una discusión con Dios. Lo saludo con un movimiento de cabeza. No me responde el gesto. Salgo contrariado. Con los parientes, empezamos a despedirnos en silencio. Afuera, el cielo se vuelve gris. ―Pronto lloverá ―dice Giuseppe.

TAORMINA

Pronuncias la ciudad y algo pasa. El relámpago sale de tus labios anunciando la tormenta de sentimientos que caerá sobre los cuerpos. Es una introducción a la noche de amor en este hotel perdido en el lugar más bello de la isla. Como si de esa palabra dependiera el futuro. Idioma de gatos, canción del alma: Taormina. Colgada en la montaña está ―dices― y se entusiasman tus ojos. Las casas se asoman entre nubes. También es Grecia aquí. Se llega en tren desde Messina, en auto desde Siracusa, en barco desde el norte de África, en bar desde Londres o la Argentina. En avión no. Con el alma se llega a Taormina. “Es la mayor obra de arte y de la naturaleza que haya visto nunca”, exclamó Goethe en su Viaje por Italia. Y te recuerdo que no hemos leído a Goethe. Tal vez, jamás lo hagamos. Bebemos ahora por las frases famosas de escritores famosos que traen las guías de turismo baratas. Digo que son falsas. Bromas de editores borrachos. Pero con Taormina cualquier exageración es verdad. Ciudad que vive en la cornisa, entre el Etna y el mar, casas sostenidas por el viento. “Como si hubiera caído rodando desde la cumbre”. Esta frase es de Guy de Maupassant, insistes victoriosa ahora con la vista perdida en el Mediterráneo. Volvemos a beber sorbos de vino tinto junto a la ventana. Estamos perdidos entre el fuego y el agua. Entre el techo y la cama. Perdidos los dos. Como los marinos griegos que olvidaron venerar a Poseidón y fueron castigados con naufragio. Sólo uno sobrevivió: Teocles, y encantado por la isla, vivió para volver. Al alba, iremos a vagar por el teatro griego para jugar con su acústica maravillosa. Es del siglo III antes de Cristo y fue reconstruido totalmente por los romanos. Sólo he visto un teatro similar en Epidauro, el centro de sanación más importante de la antigüedad, en el Peloponeso. En el centro de la escena recitaré, bajo una máscara con las cuencas vacías, fragmentos de Edipo para que aplaudas desde la última hilera de gradas. Después buscaremos una mesa al sol en Corso Umberto, para el café negro y la charla sobre los diarios. Luego, a saciar la sed que deja la cafeína en la fuente frente a la iglesia. Será siempre así mientras dure. Taormina hace añicos a los extranjeros, los compacta, les roba los sentidos, los recupera para el aire y la sal del mar, me dices muy seria. Y yo necesito creerte. Espero el milagro y te beso suavemente la punta de la nariz. Saludo las mentiras que brotan de tu estómago como un vómito perfumado. Sé que, como la ciudad, me dejarás. Todo eso hacemos en un rito lento mientras recorremos estas calles que suben y caen al descuido de los pasos, sin movernos. El tiempo se detiene en este cuarto donde tus palabras se derraman como miel sobre mis dudas de viajero. Un barco, un barco pide mi corazón. Un barco que permanezca a la deriva. Olvidar por un momento que los sueños terminan. Taormina. Final y principio del camino. Pronuncias Taormina y te enciendes.

CARTA NATAL

Abuelo dame la mano, nada veo en este atardecer minutos antes de tu muerte. Intuyo la ciudad en las vueltas de la sangre. Bienvenidos adonde no hay lugar para los tiernos sueños de la infancia. Vocación por los puertos. ¿Qué diablos hago en estas tierras planas y sombrías? Suenan sombreros en su nombre lleno de vocales, pañuelos atados a la cintura y punzones cortos y afilados. Guitarras que recuerdan la esencia de Granada. Un acordeón a piano para los funerales. Escribo en la ciudad que nunca fue fundada. En el país de las barrancas cortadas a pique. Una ciudad que escribo en torno a una mirada. Caserío en el siglo de la revoluciones y ahora una orgullosa omisión del pasado de lanzas y pistolas. Una sombra anclada como un barco sobre el río tumultuoso que se arrastra lentamente hacia su desembocadura dulce. Sitio final donde sobra la luna. Aquí me han soltado los labios. Solo un punto cardinal en la memoria del mundo. Un lugar donde bien pudo haber nacido el tango y sin embargo, nació la bandera. Abuelo dame la mano. Un vals con violines en cubierta y el Mediterráneo como un mantel extendido hacia el Atlántico azul. Destino común del perseguido, migajas de pubis, niños inoportunos y resplandores sobre el techo del horizonte como un presagio. Viramos hacia el sur, una lágrima que rueda y cae en un sitio inexplicable. Rosario. Una promesa hacia el 1900. Nada para perder en este juego, salvo la carne del vientre y los huesos familiares que trajimos en una bolsa de arpillera. Unas tibias chiquitas, un omóplato desmesurado de un tío campesino, el tin-tin de una decena de falanges que se chocan con el traqueteo marino. Ciudad de los adioses. Mediodías con hambre y coitos rabiosos por el día perdido en su hermosura. Mujeres tremendas con acento gatuno. Dialectos mordidos con rabia ante el español cristalino que surca el viento como una ráfaga. Nave de nubes que persigue un muelle imposible y viaja inevitable por dentro de la esperma. Estabas decidido a fundarme en este cruce inverosímil del camino, aunque lo niegues. Ciudad Guevara. Puerto Pirata. Oscura Babel. Pantorrilla del mundo. Cuatro de copas en la última mano. Estación del olvido. Me nazco aquí, ajeno a odios y premoniciones. Vendrán muertos, saqueos y amores perdidos en tu falda. Vendrá la policía y los besos cortos bajo la llovizna fría. Igual me nazco aquí, prolongación de una sombra que en otra ciudad se incorpora entre la multitud innumerable. Londres, Santiago, Montevideo, Atenas y Managua. Apenas puedo recorrer un mapa sin dañarme las yemas. Puerto que escribo y dibujo en tus ojos asombrados. No puedo acostumbrarme a este sol que apenas entibia mi llegada. Nazco. Setenta kilogramos dispuestos a caminar por los bordes de la especie. Enfrento las voces que sueltan las peores maldiciones. Alberto Olmedo que estás en los cielos y no dejas de caer como un pájaro herido, no me abandones sin champán en la ciudad del comandante Feced y los asesinos. Aldo Poy ten piedad de los poemas creados por interés y perdona mis perdones, las horas pérdidas en una sucursal del banco Litorcoop, las derrotas en los picados de la Plaza López, las deserciones a las fiestas de la vida. Paco Urondo olvida mis manos extraviadas en una redacción. Acepten mis años de alfabetizador, los malos tragos, las felices infidelidades, mi convicción para huir de la alegría, las amenazas de muerte, la entereza que me despierta la bebida, los cuentos nocturnos a mis hijos. Abuelo dame la mano. Intercede por mi confusión geográfica. Vanzo te pinta con el traje raído, minutos antes de que te acribillen por defender a campesinos desalojados y anarquistas. Antes de poder instalar un nombre de mujer en los labios. Rita, La Salvaje, la reina de la noche en el cabaret del puerto, se desnuda y se agiganta para los dos, ahora que tenemos la misma edad. Se mueve con un caramelo de miel entre los labios. La vida es un strip-tease, un abrazo, una partida de ajedrez con don Lisandro de la Torre. Una casa en la patria de un barrio que callo. Fito Páez que estás en los pianos, no me impidas naufragar en estas calles donde el tiempo se demora como el amor en los cines que cerraron. Abuelo dame la mano. Tenías un revólver, un traje a rayas, un oscuro escritorio de madera. Las cosas que me faltan.