*UN NATALE PIENO DI SPERANZA

Era il primo giorno di novembre del 1876. Freddo e nebbia delle Dolomiti. La famiglia non aveva mai vissuto un bel Natale. Niente Babbo Natale, né cioccolatini per i bimbi, che non avevano mai conosciuto quei dolci, forse appena qualche caramella o dei biscotti fatti in casa.

* Ma quello del 1876 sarebbe stato sicuramente un Natale diverso, molto diverso. Dopo molte riflessioni, la decisione era stata presa: partire per il Brasile. Passati i giorni di afflizione, quando la nostalgia invade il cuore, c’era ora la speranza di un futuro migliore per i figli. In Italia le prospettive erano di fame e difficoltà, senza terra, senza niente, solo debiti. Niente da mangiare, niente lavoro, niente speranza. Così, preparati i pochi oggetti di cucina e i pochi vestiti da lavoro, il giorno della partenza era finalmente arrivato. Davanti alla chiesa di San Michele Arcangelo, nella piazza di Alano di Piave, un bacio alla mamma e un altro al papà, rimasti a piangere. La mamma aveva consegnato un rosario e un libro di preghiere di Sant’Antonio da Padova, poi ecco il treno per Genova, un ultimo sguardo al fiume Piave: «Forse un giorno ti rivedremo». Al porto di Genova, quattro giorni di attesa, poi via sul vapore “Salier”. Un’avventura nell’ignoto. «Come sarà questa America? Come sarà il nostro nuovo paese?». Preghiere. A ogni porto, salivano nuove famiglie, e il piroscafo si riempiva, finché non c’era più posto. Poi l’approdo, al porto di Rio de Janeiro, 25 novembre 1876. Subito la ricerca di un po’ d’acqua fresca, di un po’ di latte per i bambini, di un po’ di cibo per tutti, niente di speciale, solo molta fame. Adulti e bambini erano morti e i loro corpi erano stati lanciati in mare. Sul vapore, sottocoperta, insieme alle bestie, con i pasti serviti soprattutto alla prima classe e anche il sole razionato, erano state tante le difficoltà, tra fame e malattie. Adulti e bambini erano morti e i loro corpi erano stati lanciati in mare. All’arrivo, dopo qualche giorno a terra, le autorità portuali avevano fatto i raggruppamenti delle famiglie. Di nuovo partenza, su un altro vapore, destinato al Rio Grande do Sul. Lì c’erano il nuovo paese e la nuova casa. Quello che si poteva vedere durante il viaggio era molta foresta, nessuna casa, nessuna piantagione, nessuna famiglia. Dopo due giorni e mezzo di mare, ecco il porto di Porto Alegre. Tutti nella casa degli immigrati, in attesa delle decisioni del governo e delle autorità sanitarie. Poi ancora un piccolo vaporetto che portava le famiglie alla terra promessa. Quello che si poteva vedere durante il viaggio era molta foresta, nessuna casa, nessuna piantagione, nessuna famiglia. Giunti a una piccola stazione di commercio, accanto al fiume, tutti erano scesi, ma non c’era posto per dormire, per mangiare, non c’era un bagno. Assieme ai bagagli, affamati e sopraffatti dalla fatica, i nuovi arrivati avevano dormito sotto le stelle. Caçador, Santa Catarina. Foresta di pino brasiliano (Araucaria angustifolia). (Archivio Famiglia Barzotto. Foto: Silvio A. De Boni) Al mattino, alle prime luci del sole, ecco la sveglia dei tropeiros, le guide locali che con i muli accompagnavano le famiglie al Campo dos Bugres. Qui, un “baracon” di legno grezzo, in mezzo alla foresta, accoglieva le famiglie destinate alle colonie. Oggetti e bambini più piccoli venivano posti su muli, in delle ceste. Così fu per Antonia, di cinque anni, e per Domenico, di dodici mesi. Andrea, di dodici anni, andava a piedi assieme agli adulti, avanti per una stradina accanto alla foresta vergine. Gli uomini portavano i machete per tagliare i rami, procedendo sui sassi, attraversando fiumi, sotto il sole e la pioggia, con il pericolo degli animali: serpenti, zanzare, scimmie, giaguari, tigri, finché, ecco spuntare il “baracon dei bugri a Caxias”. Era il 20 dicembre del 1876. Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão… Qui molte famiglie, sopratutto donne e bambini, aspettavano il giorno di partenza per il lotto di terreno promesso. Gli uomini erano andati avanti prima, assieme alle autorità, per vedere i terreni. Dopo la decisione sul posto, si iniziava presto a tagliare il mato, abbattere la foresta, cercare di costruire una baracca primitiva di legno per proteggere la famiglia. I primi mesi in colonia erano stati molto difficili. Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão, il frutto dei pini presenti in abbondanza, e quello fu la salvezza di molti Italiani, assieme alla caccia e alla pesca. Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre. Per i bambini, però, non c’era latte. Non resistevano alle malattie, alle puntare degli insetti, alla variazione climatica, alla stanchezza dei viaggi. Domenico, il bimbo di tredici mesi, era morto a gennaio nel 1877. La tristezza aveva invaso la famiglia. Di notte l’assaliva un pensiero: «Che cosa abbiamo fatto?». Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Tre mesi più tardi, quello stesso anno, era morta anche Antonia, di cinque anni. Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre. A giugno, però, era nato Giovanni, primo figlio in terra brasiliana. Nel 1879 era arrivata Maria, mentre nel 1890 Andrea, il primogenito, si era sposato con Angela Zatti, italiana di Sospirolo. Nel 1901 era stata la volta di Maria, sposatasi con Domenico Silvestrin, e nel 1904 di Giovanni, unitosi ad Amalia Cassol, di San Gregorio. Giovanni e Amalia si trasferirono a Nova Prata, poi a Lagoa Vermelha e infine a Erechim, dove nacquero i loro dodici figli, i quali – imparato a camminare e a parlare – si diffusero per il Brasile, in cerca di nuove terre più fertili, più grandi, colonizzando nuovi stati come Santa Catarina, Paraná, Mato Grosso do Sul, Mato Grasso, Rondonia, Roraima, Pará, Amazonas. Oggi, soltanto nel ramo famigliare di Giovani e Amalia, c’e un totale di oltre mille discendenti, che ancora si moltiplicano. Tutti brasiliani sì, ma con radici profonde in Italia. (Isair Dallazen, nipote di Giovanni e Amalia)

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