SPECIALE 50° USEF

GIUSEPPE PICCILLO GIA' MEMBRO DELLA SEGRETERIA USEF - Ho iniziato a scrivere questo “ Amarcord” nei giorni in cui la virale turbolenza di un’infimo microbo, costringeva l’umana specie mondiale a fare i conti con le proprie fragilità.

Ad un tratto si sono viste crollare le ferree certezze di onnipotenza e supponenza, con cui mascheravamo e rimuovevamo il senso di inquietudine e di inadeguatezza che ci viene dalla percezione della nostra mortalità. Riprendo quanto allora scritto nei giorni in cui, ancora, la “fragorosità” della nostra presunta vitalità, fatta di frenetiche incursioni nei suoni rimbombanti di una realtà assorbente e distraente, si arresta; sono i giorni in ci si precipita addosso un silenzio spesso, ingombrante, inquietante. Un silenzio che ci costringe ad ascoltarci, a sentire i rimbalzi delle nostre emozioni, il cui linguaggio semplice, libero, autentico, avevamo scordato. Emozioni che, forse, avevamo fatto finta di non riconoscere, di non dare loro patria nel nostro incedere impetuoso ed arrogante nella quotidianità dei giorni che ci è concesso di vivere. Ed in questi giorni, in cui le armature con cui ci illudevamo di corazzarci crollano sotto i colpi del pernicioso piccolo insetto, ecco che l’invincibile armata scopre la paura dei marinai sorpresi da una spaventevole tempesta che infuria il mare e fa paurosamente barcollare il loro barcone. Ed è in questi giorni di forzata solitudine che scopriamo i colori ed i suoni delle relazioni affettive e empatiche e cominciamo a rimpiangere quanto abbiamo mancato di vivere e proviamo dispiacere per quando abbiamo perso l’indirizzo di quanti ci erano cari e che, forse, aspettavano un gesto di tenera compagnia che non abbiamo saputo dare. Ed è proprio in questi giorni e nel mezzo di queste atmosfere che hanno destabilizzato il ritornello dell’ostinato canto giornaliero, ecco arrivare la telefonata del mitico Totò Augello da sempre segretario dell’Usef e caro amico di sempre. Col suo incedere verbale perentorio, suadente e appassionato, vista la ricorrenza del 50° anniversario dell’Usef, mi precipita nella necessità di strappare al passato alcune foglie di vita, di ridare parola a quella “memoria silente” che è stata la mia esperienza di militanza in questa organizzazione. Tutto comincia nel lontano 1981 quando io, giovane assessore ai servizi sociali di una amministrazione social-comunista insediatasi da soli due anni a Montedoro, paese da sempre governato dalla D.C., vengo da Totò, che con il suo fare garbato e determinato mai consente dinieghi, reclutato per una manifestazione a Palermo. Quella era una conferenza di organizzazione del PCI sul tema dell’emigrazione, presieduta da Giuliano Paietta, allora direttore dell’ ufficio emigrazione, che per molti di noi era una delle prestigiose figure del Partito, perchè incarnavano l’ideale della Resistenza e; quindi, di un mondo più equo, solidale e democratico. In quella occasione ci fu un notevole consenso, anche da parte del dirigente comunista, alla narrazione di quello che la nostra amm.ne stava facendo in favore del mondo dell’emigrazione. Un, attenzione ai nostri compaesani all’estero, che alla fine consisteva molto semplicemente nel riconoscere piena cittadinanza a chi sulla propria pelle aveva i segni brutali dello sdradicamento dagli affetti e dalle pietre che li avevano cullati e fino ad allora accolti, pur nella durezza di una vita dolente. Una prospettiva questa che, nella esaltazione di una visione ideologica ci rendeva capaci di un impegno politico intenso, disinteressato e passionale, forse nell’illusoria convinzione che era possibile ribaltare la sorte di un paese fino ad allora governato da un potere conservatore, clienterale e miope nei confronti dei bisogni emergenti, specie delle nuove generazioni. Erano gli anni 80 e la società era attraversata da un vento di cambiamento che coinvolgeva gli ambienti della sinistra nelle sue articolazioni sociali, politiche, sindacali, associative, culturali. In quegli anni il mondo dell’emigrazione, che dava un contributo concreto e fattivo all’affermazione di tante amm.ni di sinistra, e le organizzazioni che lo rappresentavano come l’USEF erano attraversate dalla fiducia nel ribaltamento degli assetti di potere e dalla volontà di dare patria ed attenzione a quelli che erano stati considerati, fino ad allora, subalterni e non fondamentali. Ed è proprio in queste atmosfere che Totò Augello, caparbio uomo di antico radicamento comunista, trova un ‘indomabile e testarda volontà politica che guarda all’orizzonte dei dimenticati, per riparare alla colpevole latitanza di uno stato dimentico dei suoi cittadini altrove. E sono proprio associazioni come l’USEF che, in quegli anni, cominciano a diffondere in modo capillare la consapevolezza che i confini di ciascun paese siciliano non coincidono con quelli delle carte topografiche, ma si estendono a tutte quelle stazioni e a tutti quei porti che avevano visto scaricare milioni di valigie di cartone, cariche di speranza, legate allo spago della povertà, sostenute da mani callose di uomini e donne raggomitolati nel dolore del distacco. E Totò mi trascina in una nuova militanza, mi insegna a vedere ciò che c’è dentro la nostalgia del conteggiare i luoghi e i tempi del distanziamento, mi insegna a riconoscere la malinconica fatica del sentirsi straniero in quelle lingue, nei sapori di quelle terre, nei colori di quei cieli di arrivo …. cosi tanto diversi, così tanto freddi, così tanto inespressivi. Ed è questa lezione di vita che apprendo, frequentando le donne e gli uomini del direttivo reg.le dell’Usef che salivano e scendevano le scale anguste del Centro di Palermo; dove si accedeva da piazza della Vergogna, che nella sua immobile statuaria bellezza, sembrava, ogni volta che la attraversavamo, rimproverarci per non aver saputo fermare l’emorragia di tanti di quei suoi figli costretti “a la Strania”. Ed attraversando quella storica piazza, di una terra martoriata e violata dall’ingiustizia, dal malaffare e dall’indifferenza, a quella fontana si dichiaravano pronti, subito dopo nelle stanze fumose e grigie della sede dell’USE, a confrontarsi per organizzare azioni di ristoro materiale e culturale che esprimessero concretamente vicinanza al mondo emigrato. E da quel luogo siamo partiti per l’Europa…la Francia…il Belgio, l’emozione dei primi viaggi all’estero ma soprattutto l’emozione di sentirsi parte di una comunità vasta, genuinamente legata ai valori popolari di lealtà verso la famiglia, di solidarietà per gli amici, di onestà per i compagni che attraversavano la loro vita, di serietà nello svolgimento del proprio lavoro, di attaccamento alle tradizioni ed alla patria di origine. Camminavi per le strade delle zone popolari dove abitavano i figli dei treni della speranza e del riscatto, ed inciampavi nella nostalgia delle zolle che avevano raccolto le gocce di sudore colate dalla loro fatica e nell’orgoglio soddisfatto di aver realizzato il sogno del benessere proprio e della famiglia. E negli incontri lunghissimi e pieni di cibo danzavi le melodie di parole dette per loro, con loro, da loro e di loro, che si facevano compagni di un cammino verso un mondo più giusto, più riconoscente, più solidale. E da quei tanti viaggi ne emerge con nettezza uno: quando in prossimità delle elezioni per le Europee del 1984 fui mandato per manifestazioni di propaganda elettorale in Belgio. Una brutta vigilia quella, mentre affamato prepari la valigia, tua moglie ti chiama, alla tv le immagini di Berlinguer che stoicamente resiste al malessere che lo prende e che alla fine lo costringe a concludere il comizio. Le notizie che danno non sono buone, la situazione è pesante, Berlinguer viene ricoverato d’urgenza…è molto grave…forse non ce la fa. Nella stanza scende una fitta coltre di tristezza e di angoscia, il capo del nostro partito, l’uomo integerrimo, il leader che dà il senso e l’orizzonte alla nostra indomabile militanza, il politico che ci convince con la sua instancabile e lucida azione culturale, ideale, sociale. Quando la coltre dello sbigottimento cominciò a diradarsi seguì l’immancabile telefonata a Totò per verificare l’opportunità di confermare il viaggio…la risposta fu secca: “proprio per questo bisogna andare”. E furono giornate intense segnate dall’ansia, dalla preoccupazione, dalla continua ricerca di notizie dall’Italia. E infine la notizia arrivò, ma non era quella che speravamo: “Berlinguer si è spento”. La sala delle conferenze della Leonardo da Vinci a poco a poco si colmava di brusii di dolori, di commenti preoccupati per il futuro del Partito, del dolore che lasciava chi aveva saputo incontrare i nostri ideali e dare un orizzonte alla nostra militanza, delle gocce di lacrime subito nascoste che attraversavano i visi piagati dei vecchi compagni che proprio li lo avevano incontrato. Ed ancora viaggi per eventi e congressi, viaggi in aereo, in treno e in pulman come quelli che hanno portato il gruppo teatrale “Il lungo viaggio” in Francia, in Belgio, in Svizzera, in Germania ed in Inghilterra. Un gruppo di giovani di diverse età di Montedoro che aveva dato vita ad un laboratorio che prendendo a prestito le parole, i pensieri e i messaggi dei nostri Sciascia, Pirandello, Buttitta, Petix li collava insieme in una sorta di caleidoscopio per restituire alla gente i suoni, i colori, le storie della nostra Sicilia. Cosa quest’ultima che facevamo anche coordinando le colonie attivate, con impegno grande e testardo da Augello, per offrire ai ragazzi di seconda e terza generazione di emigrati un soggiorno in Sicilia. Una vacanza che era la spensierata gioia di schiumare il limpido mare di Giarre, ma anche conoscere in gita i luoghi della nostra terra e di incontrare le storie, la musica e l’arte siciliana nei laboratori allestiti nella struttura di Santa Venerina. E quando una mattina rispondendo al telefono il tono perentorio di “Augello sono”, mi chiedeva di partecipare al viaggio di una nostra delegazione in Argentina e Cile, mi si è aperto un nuovo, per me, inesplorato orizzonte, quello di una umanità emigrata che non avevo mai personalmente incontrato e conosciuto. Erano i “Tani”, così li chiamavano un po' con disprezzo e un po' con sospetto gli autoctoni, sintetizzando il termine: napoletano, con cui erano etichettati gli italiani pervenuti in Argentina, negli anni opulenti dell’America latina. I Tani…uomini e donne lontani dal nostro mondo, che nella dura fatica per la conquista del ben-essere e ben-stare, avevano conservato intatto nella loro mente, come in una teca di vetro, l’immagine di un paese che non era più ed era sconosciuto perfino a noi che ci vivevamo. Operai, studenti, pensionati, intellettuali, uomini e donne che in mille modi e in tante forme ci narravano l’attaccamento alle loro radici culturali o ereditate dai propri genitori, ci testimoniavano il loro sentirsi parte di una comunità che seppur lontana viveva nei loro cuori e nelle loro menti, ci chiedevano di non essere dimenticati, specie nel momento di difficoltà che vivevano i paesi latino-americani. E la mia meraviglia per un paese dove tutto era grande, diventava difficoltà concettuale perché non sempre le mie categorie dello spazio e del tempo riuscivano a comprendere quei paesaggi naturali, quei fenomeni e quelle realtà sociali; per cui ad esempio la mia idea di fiume, così come vissuta nell’esperienza fattuale della nostra quotidianità, non conteneva la maestosa e sconfinata estensione del River Plate che nelle mie categorie corrispondeva al concetto di mare. E la mia meraviglia per quei paesi che avevano pagato un prezzo alto alla repressione autoritaria e sanguinolenta dei regimi fascisti, diventava stupore per come l’anelito alla democrazia rivestisse i panni dell’ancoraggio alla cultura, alle tradizioni e al “sentire e parlare” italiano. I “tani” che avevano solcato i mari, non sempre in condizioni facili e comode, e i loro discendenti che di quei cieli, di quei monti e di quei mari ne avevano subito il fascino del racconto, tutti quei Tani sognavano ancora l’Italia. Tutte queste esperienze sono diventate negli anni mio vissuto in-carnato e che, anche quando la mia partecipazione alle attività dell’USEF si è ridotta a causa del mio nuovo lavoro, hanno in qualche modo caratterizzato il mio agire professionale ed orientato la sperimentazione di specifici progetti. Infatti, grazie allo stimolo ed alla collaborazione dell’immarcescibile Augello con alcune scuole delle realtà estere in cui operavano le strutture dell’USEF, abbiamo dato vita allo scambio di valigie didattiche. Sulla base di un accordo preventivo degli insegnanti, naturalmente mediato e coordinato da nostri emigrati, ciascuna scuola compiva delle ricerche su specifiche tematiche (alimentazione, natura, abbigliamento, tradizioni, ecc.) in relazione al proprio ambiente, producendo schede, studi, redazioni, video, opuscoli, ecc. Successivamente queste produzioni venivano messe in una valigia insieme a manufatti artigianali o artistici, reperti naturali o a prodotti alimentari, ecc. e spediti in apposito contenitore. La spedizione e l’arrivo delle valigie determinava nelle scolaresche curiosità, motivazione a nuovi apprendimenti, empatia per i compagni delle altre realtà. Ricordo che già lo stupore cominciava dall’osservazione del contenitore e da li partivano nuove ricerche; ad es. l’arrivo dal Belgio di una valigia di cartone legata con lo spago, ci ha fatto studiare l’emigrazione; l’arrivo dal Cile di una scatola di scarpe ci ha fatto parlare delle condizioni socio-economiche dell’America Latina. E i responsabili dell’Usef in Europa ci hanno aiutato a prendere contatto con scuole locali e a collaborare agli scambi di alunni realizzati all’interno del programma europeo Comenius. Ricordo l’entusiasmo dei piccoli quando di ritorno dal Belgio hanno raccontato a me e ai loro genitori la giornata che ognuno di loro aveva vissuto in casa di un loro compagnetto Belga, figlio di genitori di origine italiana, senza gli insegnanti che li accompagnavano in quel viaggio. Ed ancora, ancora, ancora i petali della memoria danzano allegri, colorati e leggeri nel fosco cielo dell’Oggi per confortare, e riportare a vita ciò che sembrava sepolto, per raccontarci di quello che eravamo e che siamo diventati. Ma il tempo e lo spazio sono tiranni e non sempre ci permettono di leggere tutte le pagine di quel cammino che siamo stati, con le nostre fatiche, le nostre allegrie, i nostri ideali, le nostre emozioni. E allora cari ricordi, fedeli compagni dei miei polverosi percorsi di vita, rincantucciatevi nell’angolo soleggiato della memoria silente e fatelo subito perché su me incombe la telefonata di “Augello sono” che mi rimprovera per non avere ancora consegnato questo scritto. Peppe Piccillo Montedoro 6/12/2020