Una riflessione sulla ripresa dell’emigrazione dall’Italia e sul profilo progressivamente più qualificato dei flussi. Si equivalgono – circa 500 mila – i laureati italiani residenti all’estero e gli stranieri laureati residenti in Italia, che non riesce però a valorizzarne le competenze. L’Italia resta indietro rispetto alla media Ue per la percentuale della popolazione laureata (23,9% contro il 37,9%) e per gli investimenti in ricerca e sviluppo (1,29% contro il 2,03%) I dati illustrati da Benedetto Coccia e Franco Pittau, curatori della ricerca e affiancati dagli interventi di studiosi e dei presidenti Antonio Iodice (San Pio V) e Ugo Melchionda (Idos). Le conclusioni affidate a Marco Fedi, parlamentare eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide, che sollecita un’attenta riflessione su internazionalizzazione e integrazione e l’avvio di una discussione sui dati che porti ad indirizzi politici aderenti ai cambiamenti ROMA – Una riflessione sul nuovo status dell’Italia, tornato ad essere in questi ultimi anni Paese di emigrazione per la consistenza numerica dei connazionali espatriati, e sul profilo progressivamente più qualificato di questi flussi nel volume “Le migrazioni qualificate in Italia. Ricerche, statistiche, prospettive” curato dall’Istituto di Studi politici S. Pio V ed edito dal Centro studi e ricerche Idos presentato ieri all’Auditorium di via Rieti a Roma. Il testo delinea un quadro preciso dell’emigrazione italiana verso l’estero, evidenziandone un deciso aumento con l’avanzare della crisi economica: dal 2011 in poi il numero di connazionali che sono espatriati è cresciuto mediamente del 22% l’anno e le cancellazioni dalle anagrafi italiane hanno superato nel 2015 le 100 mila unità, sfondamento che ha solo un precedente nel 2004 e che ci riporta molto indietro nel tempo, a flussi migratori risalenti ai primi anni Settanta. L’analisi rileva poi come all’incremento dei numeri corrisponda una diminuzione dell’età media di chi lascia la Penisola (nel 2014 oltre la metà di coloro che emigrano ha un età compresa tra i 18 e i 39 anni, il 20% fra 0 e 17 anni) e una sempre maggiore qualificazione in termini di titoli di studio (la quota di coloro che possiedono un diploma di laurea è aumentata dal 12% del 2002 al 30% del 2014, il numero di laureati e diplomati ruota intorno alle 25 mila unità nel 2015), elemento che non fa che aggravare la condizione di un Paese come il nostro che per numero di laureati è lontano dalla media europea (la percentuale di laureati sull’intera popolazione italiana è del 23,9% , di contro ad una media Ue del 37,9%). Il numero dei laureati italiani residenti all’estero – quantificati nel 2015 in circa 400 mila – è però compensato dal livello di formazione degli stranieri residenti nel nostro Paese – poco più di 500 mila hanno una laurea, – un dato che tuttavia non genera l’equilibrio sperato perchè solo l’11% degli occupati stranieri possiede tale titolo di studi, di contro al 21% degli occupati italiani. L’analisi evidenzia così come, in assenza di interventi, l’incapacità di valorizzare le qualifiche più elevate da parte del mercato dal lavoro italiano determini una dispersione del capitale umano degli stranieri presenti nel nostro Paese e non consentirà un’inversione di tendenza al flusso di laureati in uscita dall’Italia. “L’analisi rientra nel campo di interesse dell’Istituto che ha approfondito in questi anni le ricadute sul piano socio-economico della crisi, tra cui emerge appunto l’emigrazione e la cosiddetta fuga dei cervelli – afferma il presidente dell’Istituto San Pio V, Antonio Iodice, rilevando “amaramente” come i dati dimostrino quanto il “merito non sia premiante in Italia e quanto poco si investa in ricerca e sviluppo, sia da parte del committente pubblico che di quello privato”. Si tratta infatti dell’1,29% del Pil (la media europea è del 2.03%), di cui solo lo 0,72% riguarda le imprese private (contro una media Ue dell’1,3%). Per Iodice questi dati testimoniano “un deficit rivelatore della miopia del capitalismo italiano, che non riconosce l’importanza della ricerca e quando destina risorse a tale scopo lo fa spesso per sponsorizzazione o, peggio, considerandolo una forma di elemosina”. E questo “anche se è risultato evidente come le imprese che hanno resistito al fragore della crisi sono state quelle che hanno operato questo tipo di investimenti”. La “scommessa” dell’Istituto è suscitare pertanto una discussione sull’argomento, attraverso un’ampia diffusione dl volume che raccoglie anche i risultati di analisi italiane e straniere sul tema. L’auspicio è che i nodi più importanti – la perdita che comporta l’investimento in formazione di un laureato (per ogni laurea breve si stima un costo di 150 mila euro) o un dottore di ricerca (oltre 200 mila euro) che lascia il Paese e la mancata valorizzazione delle competenze degli stranieri in Italia – possano essere prima conosciuti e poi affrontati dalla politica non unicamente in chiave “economicistica”, ma anche per non disperdere il patrimonio di entusiasmo e creatività dei giovani italiani e per garantire una soluzione sul piano “umano, della civiltà e del diritto” alle tante problematiche oggi presenti. Ad illustrare il contenuto del volume i curatori Benedetto Coccia e Franco Pittau. Il primo ha rilevato come il tentativo di andare oltre alle semplificazioni giornalistiche sia necessario ad impostare politiche decisive per il futuro del Paese, ricordando come si debba parlare oggi di “giovani generazioni che sono già globalizzate per quanto riguarda gli studi”. “31 mila giovani italiani hanno deciso di trascorrere un periodo di studio all’estero nel 2015, con il programma Erasmus principalmente, ma anche per svolgere esperienze di tirocinio. In Italia abbiamo invece 100 mila studenti stranieri – afferma Coccia, rilevando come sia essenziale la “circolazione dei cervelli” e che l’Italia divenga maggiormente attrattiva per i talenti. “Altro pregiudizio da sfatare è quello legato all’immigrazione: coloro che giungono in Italia hanno un livello di istruzione pari o superiore a quello della media italiana – avverte. Si sofferma su alcuni dati Franco Pittau, come quelli relativi agli studenti internazionali, 5 milioni nel mondo, oltre 400 mila in Gran Bretagna (1 studente su 6 è straniero), media che scende per l’Italia a 1 ogni 23; alla insufficiente valorizzazione dei laureati in Italia e al fatto che solo un quarto dei manager presenti nel nostro Paese ha tale livello di formazione, mentre la media europea è del 50%; all’elevato tasso di inattivi e al costo per le famiglie anche dei cosiddetti Neet (giovani che non studiano né lavorano); al dato preoccupante emerso in una recente ricerca e riguardante la volontà dei giovani italiani di lasciare il Paese (6 su 10). “Occorre intervenire sulla carenza di posti di lavoro, sul fenomeno dell’occupazione non confacente con il titolo di studio posseduto, sul lavoro nero e sulla mancata valorizzazione del merito – afferma Pittau, sollecitando un maggiore investimento in ricerca e sviluppo e rilevando come il fenomeno delle migrazione qualificate non sia “un ostacolo, ma un sostegno allo sviluppo del Paese”. Di seguito l’intervento di Olena Ponomareva, dottore di ricerca all’Università Sapienza di Roma, che si è soffermata in particolare sulle ragioni che impediscono la compensazione delle competenze dei laureati che lasciano il Paese da parte degli stranieri residenti in Italia, parlando di “una stratificazione anche su base etnica del mercato del lavoro italiano”, che ostacola la mobilità sociale e occupazionale dei secondi. Per Ponomareva tale dinamica è anche dovuta all’assenza di un modello italiano di integrazione, anche se generalmente inteso differente da quello assistenzialistico e multiculturale, sperimentato in altri Paesi, e ad una percezione dell’identità sociale degli stranieri “piuttosto negativa”. Secondo la studiosa il modello italiano dovrebbe ricalcare quello della “regulated openness”, con un sistema di regolamentazione più stingente ma legato ad una più approfondita conoscenza della realtà e delle dinamiche del mercato del lavoro. Allo stesso modo sollecita interventi per favorire l’internazionalizzazione delle università italiane, suggerendo anche un investimento sulla promozione della lingua italiana all’estero e l’istituzione di un’agenzia nazionale per la gestione delle mobilità di studenti e docenti, come il British Council o il Daad tedesco. Mauro Albani dell’Istat ritorna sui dati che certificano per gli stranieri residenti in Italia un livello di istruzione pari o superiore a quello degli italiani e ne mostra la correlazione con il luogo di origine (le collettività più istruite sono quelle romene, ucraine e polacche). Si sofferma poi sui numeri dell’emigrazione italiana – raccolti nel contributo al volume di Domenico Gabrielli – ricordando come, anche se il saldo migratorio resta positivo, l’Italia non sia più fra i principali Paesi di immigrazioni dell’Ue: se consideriamo il numero dei flussi dei connazionali dal 2013 siamo diventati un “Paese di emigrazione”, perché il numero di italiani che lasciano l’Italia per emigrare permanentemente è superiore a quello dei cittadini stranieri degli altri Paesi europei che giungono in Italia, compresi quelli dei Paesi a “forte pressione migratoria” dell’Est europeo. Albani si sofferma inoltre sull’esodo in Germania e Gran Bretagna, le due mete preferite dai connazionali: la Germania è tra i Paesi europei quello con il più alto tasso di immigrazione (circa 354 mila gli immigrati nel 2013, 47 mila gli italiani, cresciuti nel 2014 a 55 mila), in esso negli ultimi 5 anni si stima siano giunti 200 mila connazionali; segue la Gran Bretagna, che è meta preferita dei laureati e anche di coloro il cui trasferimento è spesso solo temporaneo. Su migrazioni qualificate e ricerca scientifica in Italia si sofferma invece Carla Collicelli, advisor scientifico del Censis, che evidenzia il problema del “capitale inagito”, ossia dell’incapacità di utilizzare le risorse presenti nel nostro Paese, proponendo occupazioni non adeguate al livello di formazione acquisito e contratti volatili. Pur con tutte le difficoltà il numero di pubblicazioni scientifiche è rilevante, ma sono gli investimenti in ricerca il tasto dolente, anche se a giudizio di Collicelli in questi ultimi anni “qualcosa si sta muovendo in termini positivi”. Richiamati a tal proposito alcuni provvedimenti su risorse, tutela dei brevetti e dei marchi e ricerca adottati in particolare da Miur e Mise, o settori particolarmente innovativi come quello della ricerca farmacologica e biomedica che rappresentano un “intelligente modello da valorizzare per il mix tra pubblico e privato”. Il presidente del Centro studi e ricerche idos, Ugo Melchionda, sottolinea come il mondo dell’emigrazione sia profondamente cambiato e come tale trasformazione a suo avviso non sia percepita dal Parlamento, che dovrebbe invece articolare in base al quadro fornito le politiche migratorie. “Perdiamo con i laureati risorse preziose e non sappiamo valorizzare quelli che restano – afferma Melchionda, definendo la segmentazione del mercato del lavoro sopra richiamata “una discriminazione silenziosa” a danno dell’integrazione ma anche della tenuta della società intera, perché si illudono giovani che poi, una volta formati, non hanno prospettive di realizzazione in Italia. Per il presidente Idos questi sono i due temi che decideranno il futuro del nostro Paese: la “competizione per i talenti, che oggi ci vede perdenti, rischiando di condannarci alla marginalità” e una governance delle migrazioni che garantisca l’integrazione e la tenuta sociale dl Paese e non “un’integrazione posticcia, o arrangiata, come quella attuale”. Risponde alle sollecitazioni Marco Fedi, parlamentare eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide, che si impegna a continuare il lavoro di approfondimento sui temi del volume anche in sede parlamentare, evidenziando come da tempo si chieda al Governo di aprire una “fase di discussione autentica” con l’istituzione di un Osservatorio sulle migrazioni, così da elaborare indirizzi politici aderenti ai cambiamenti rilevati. “Io vengo dall’Australia, un Paese – ha ricordato Fedi – che ha attratto e attrae ancora oggi molta immigrazione e che ha fatto delle politiche del multiculturalismo anche la sua fortuna”. Il parlamentare ritiene infatti che tale scelta politica, anche se attualmente messa molto in discussione, abbia funzionato “dando risultati e garanzie molto importanti, per laureati e non, perchè ha creato un ambiente che consente la tutela dei diritti fondamentali”. Fedi ha richiamato tra le questioni aperte, quelle della normativa sulla cittadinanza italiana, cittadinanza “che alcuni credono sia punto di arrivo del processo di integrazione, mentre per me è parte del percorso e se non ci muoviamo sul fronte dell’integrazione – ha aggiunto – sarà difficile mettere in campo politiche di attrazione rivolte ai talenti, così come da voi auspicato”. Alla base manca dunque un modello di integrazione, un “contesto generale” senza il quale i singoli provvedimenti non possono risultare efficaci, che garantisca standard minimi di accoglienza per coloro che giungono in Italia ma anche, d’altra parte, che “coloro che decidono di emigrare lo facciano per libera scelta”. Si tratta di una problematica complessa su cui “non incide solo la carenza di risorse, ma spesso – ricorda Fedi – anche un’assenza di coordinamento, che disperde le poche risorse disponibili”. Un coordinamento che è invece necessario sia per l’internazionalizzazione della ricerca scientifica e del sistema Paese – Fedi ricorda in particolare alcune iniziative suggerite per stabilire una rete tra ricercatori italiani o quella sulla costituzione di un Comitato interministeriale di promozione della ricerca italiana all’estero – e per le politiche di integrazione – in questo caso potrebbe essere percorribile l’istituzione di un consiglio nazionale per l’integrazione ed il multiculturalismo. (Viviana Pansa – Inform)