Il 25 novembre é la giornata mondiale che l'ONU ha dedicato contro le violenze sulle donne. Si tratta di una ricorrenza non da "celebrare", ma da far vivere in ogni realtà con sincera solidarietà verso le donne vittime di violenze e con quante lottano, aspirano a una effettiva parità di diritti sociali e di libertà.

Ognuno faccia quel che può fare. Per quel che può servire, segnalo questi due episodi, realmente accaduti in tempi e luoghi fra loro lontani, in cui furono vittime due ragazze accomunate da un tragico destino indotto da un malinteso senso dell'onore: Aswad curda e Sofia siciliana... (a.s.)

 L’onore salvato, la figlia perduta

1...              Ore 7, 00 del 7 maggio 2007. Un’incredibile successione di 7. Mi affaccio alla finestra al terzo piano. Un timido sole spande una luce citrigna sopra il villaggio e inonda la pigra terra, i tetti ramati delle case, le chiome degli alberi fioriti. Frotte d’uccelli ciarlieri s’inseguono, garruli e sicuri, sopra il mio paese-voliera. Insomma, è primavera. La bellissima primavera siciliana.

Do un’occhiata ai giornali per vedere che cosa accade altrove.

Mi attira la ferale notizia dell’avvenuta lapidazione, in una sperduta località del Kurdistan iracheno, di Aswad una ragazza di appena 17 anni.

Chi sarà stata questa disgraziata fanciulla?

Aswad! Che bel nome. Chissà cosa vorrà dire?

Il cronista non lo dice, si attiene al fatto. Oltre la cruda cronaca, avverto come un moto interiore che agita qualcosa e accorcia le distanze fra i due luoghi e travalica l’ignoto che li separa.

Aswad poteva essere una delle tante coraggiose donne kurde, pronte a mo­rire, combattendo, per la libertà e la dignità del loro popolo disperso e privato di una patria, di uno Stato?

Invece, è morta in modo barbarico e per mano dei suoi più intimi congiunti.

Aswad, questo nome lo sento vicino, familiare.

Sempre più spesso, mi capita di sentire vicinanza con le vittime di ottuse bar­barie che ancora si consumano ai quattro angoli del pianeta. Sovente, in nome di un Dio vindice, reso complice del proprio comodo machista.

Aswad era stata condannata alla lapidazione per aver trasgredito le rigide re­gole della setta religiosa di appartenenza (Yazidita, una minoranza islamica presente soprattutto nelle zone kurde) che non ammettono relazioni d’amore con individui di altre tendenze religiose, anche islamiche.

 

2...              Un episodio doloroso, purtroppo frequente in quelle aree del Medio Oriente, dove, in ossequio a certi precetti religiosi (o maschilisti?), si consu­mano delitti così abietti.

Affinché sia di monito ad altre, la truce sentenza va eseguita in pubblico, spettacolarizzata. L’orrendo “spettacolo” si svolge nella pubblica piazza, tal­volta nello spiazzo antistante l’ingresso della moschea, perché tutte vedano e riflettano prima di trasgredire le norme, anche le più assurde, della tradizione.

A tirare, per primi, le pietre sono stati i parenti “offesi” dalla vittima che -scrive il giornale - sono tenuti a partecipare alla lapidazione. Addirittura, a ti­rare la prima pietra.

Una sorta d’inaugurazione di un rito bestiale.

C’è chi inaugura un edificio, un’autostrada e chi l’assassinio della propria fi­glia, sorella o nipote. No, assolutamente no! Noi rispettiamo le altre culture, comprendiamo tante cose, ma questi orrori no. Mai!

Un rituale barbaro dove il congiunto che non tirerà le pietre dovrà giustifi­carlo per benino al clan, all’intera comunità se non vuole incappare nell’accusa di complicità o addirittura d’eresia.

Se lo desidera, anche un estraneo alla famiglia, un semplice passante può unirsi al branco dei lapidatori.

La povera Aswad è stata fatta segno degli insulti più gravi e di decine, centi­naia di sassi acuminati che le hanno macerato le carni e le ossa e tumefatto il viso. Una morte esemplare: lenta, crudele, devastante.

Sassi avvelenati da un odio cieco, scagliati da padri e fratelli che massacrano senza pietà una figlia, una sorella ragazzina colpevole d’essersi innamorata di un ragazzo “sbagliato”, nato, a sua insaputa, al di fuori della setta di Zayid.

È la forza impositiva di certe tradizioni che, sopprimendo il libero arbitrio, si pongono in contrasto evidente con la libertà individuale, con la democrazia, con i diritti dell’uomo (e della donna bisognerebbe specificare!) sanciti nella Carta delle Nazioni Unite. Con la civiltà, direi.

E qui mi fermo, perché desidero rilevare un particolare d’apparente umanità che la cronaca riporta come appendice insignificante di questo assassinio pa­rentale e collettivo.

Scrive il giornale che la povera Aswad, crollando a terra agonizzante, si scompose nell’abbigliamento e mostrava al pubblico le gambe nude.

Evidentemente, durante il martirio, la “svergognata” non si era curata di co­prirsi le intimità offrendole al pubblico ludibrio.

Insomma, un altro scandalo!

Ecco, dunque, uno zio pietoso il quale, dopo averla subissata di sassate, si avvicinò al corpo della sventurata, si tolse la giacca e le coprì le gambe nude, striate del suo sangue innocente.

Con questo ultimo atto di suprema ipocrisia, la moralità della famiglia fu salva e la coscienza a posto, agli occhi del popolo e dello sceicco di turno.

 

3…    La giacca dello zio (im) pietoso, le gambe nude di Aswad mi passarono da­vanti come la scena di un film già visto… In realtà, non era un film ma un episodio similare (raccontatomi da mio padre) realmente accaduto a Real­turco intorno agli anni ’30 del secolo scorso.

Sofia era stata lasciata dal fidanzato un mese prima delle nozze. Im­provvisamente e senza un motivo valido. Disse solo che, dovendo partire per Chicago, non voleva creare una famiglia per presto abbandonarla. Era una scusa per nascondere chissà quali altri propositi.

La ragazza fu colpita, mortificata da quell’atto che pareva un ripudio. Sola e avvilita, visse in una celletta oscura i giorni della vergogna, il suo dolore.

Invece di comprenderla, aiutarla, la famiglia le faceva pesare l’onta del diso­nore, del ripudio.

“Certu ca pi lassalla così all’impruvvisu, chissà chi vitti…”

Era questo il commento più ricorrente fra parenti e paesani. La colpa è sem­pre della donna. Mai dell’uomo, di certi uomini che si comportano da ma­scalzoni, da “padroni” delle donne.

In questi casi, c’è un altro aspetto da tener presente. Una figlia rifiutata re­sterà zitella a vita. Per la famiglia sarà un peso morto anche dal punto di vista economico.

Oltre a ciò, il capofamiglia, il patriarca dovrà subire il danno morale per tutte le maldicenze che fioriranno nel paese. Per Sofia non c’era più speranza. Il buio era calato sopra la sua esistenza. L’aspettava una vita impossibile.

Meglio troncarla. Finirla con dignità.

Il suicidio era la soluzione, la via d’uscita, o la più breve, per sfuggire a quel canagliume che si sarebbe avventato contro di lei.

Sofia cercò una luce nella notte oscura. Pensò e ripensò al tragico passo. Notti insonni, frementi di rabbia e di paura. Dall’abbaino guardava la luna, l’unica amica che la consolava. Quella notte anche la luna pareva convenire con lei, per il suicidio.

A quel tempo, il luogo adatto, più “suggerito”, per consumare un suicidio era il pozzo della Fontanazza, dove, per secoli, uomini e bestie sono venuti ad abbeverarsi. Le donne, soprattutto, a riempire le “quartare” e a sciacquare i panni. Ancora oggi, l’acqua amarognola continua a sgorgare dalla sorgente che sale dalle profondità del massiccio di roccia sottostante.

Nella fraseologia popolare c’erano alcune espressioni, dettate dall’ira o dallo sdegno o sotto forma di consiglio, di questo tenore: “Attaccati na rocca a lu coddru e va iettati ni lu puzzu di la Funtanazza”; “Cosa nnutuli, affucati ni lu puzzu…”

Questo pozzo che era fonte di vita era visto, suo malgrado, come il più sicuro luogo di morte.

Bella e disperata, Sofia decise di finirla per liberarsi di quella vergogna, per non sentire più il disprezzo, lo scherno della famiglia, del paese che erano più grevi di una condanna a vita. E così, maturò l’idea d’intraprendere la dura via.

Pensò ad altre soluzioni, ad altri luoghi. Ma in paese non c’era un luogo più adatto per morire. Non c’era scelta. Chi voleva suicidarsi doveva andare a gettarsi nel pozzo della Fontanazza.

Prima di lei, altri vi si erano gettati. Di notte. Per essere sicuri che nessuno li avrebbe soccorsi e ripescati. E difatti affogarono.

Qualcuno provò a buttarsi di giorno, ma fu prontamente salvato dalla tante persone che erano ai bordi.

Evidentemente, si trattava di una messinscena, poiché nessuno era riuscito ad annegare, di giorno, in poco più di due metri d’acqua e con tanta gente in­torno. Il cinico, uno c’è sempre nella comitiva, commentò: “Si vede che era indeciso o voleva farsi sulu u bagnu!”

Le persone davvero determinate, preferivano la notte per morire. Per essere sicuri di annegare si legavano una grossa pietra al collo.

 

4…  Sofia studiò un piano di morte. Il suo suicidio doveva essere clamo­roso, memorabile. Una vera sferzata morale per quel paese di gente bigotta, rassegnata e servile.

Doveva essere questa la sua risposta a quel porco che l’aveva abbandonata e anche alla famiglia che non l’aveva aiutata nella sventura. A quel padre cru­dele, offeso nell’onore, che ogni sera la massacrava di botte e d’insulti.

Non ne poteva più Sofia di quel vecchio testone che, tornando dalla campa­gna, l’andava a trovare nella stanzetta al primo piano per somministrarle una razione di legnate prima di quel misero piatto di minestra che le avrebbe portato la madre.

Intorno a lei il buio, il fango. Povera figlia!

Sapeva dei falsi o tentati suicidi, perciò decise di morire di notte, senza scampo, al pozzo della Fontanazza.

Come arrivarci? Femmina sola, doveva attraversare nel buio un bel pezzo di strada che dal quartiere del Canale porta al pianoro dei pozzi, in direzione di Montefamoso.

Di notte, ben coperta e vestita di nero, nessuno l’avrebbe riconosciuta.

Giunta sul posto si sarebbe gettata nelle acque fredde del pozzo. In pochi mi­nuti sarebbe annegata. Come tutti, in quel paese a poche miglia dal mare, So­fia non sapeva nuotare. Forse, non era necessario legarsi una pietra al collo.

All’alba del nuovo giorno, lo spettacolo della sua morte sarebbe stato servito, buttato in faccia a decine di pastori e di contadini che venivano ad abbeverare le bestie o a rifornirsi d’acqua per la casa.

Sperava che la trovassero a faccia in giù per non poterla riconoscere all’istante. La mancata identificazione avrebbe aumentato il clamore e fatto accorrere l’intero paese.

Immaginava la concitazione intorno al pozzo. Gli occhi sgranati degli uo­mini, i loro volti duri, rigati dalla fatica e dal tempo e dalle superstizioni. Il terrore, i silenzi e le bocche serrate delle donne. Forse anche i pianti.

Succede sempre di fronte a un corpo morto. In realtà, si piange per se stessi. Poiché nella morte dell’altro si riflette la propria.

 

5…  Passato lo sgomento, la scena si sarebbe animata alla vecchia ma­niera. Come sempre accade in questi frangenti, ci sarà qualcuno che s’improvviserà capo supremo della baraonda e comincerà a impartire ordini a des­tra e a manca. Quasi fosse un caposquadra della protezione civile.

Un tizio prenderà una scala e si calerà nel pozzo per recuperare il corpo; mos­trerà il volto per svelare il mistero di chi quella notte aveva deciso di to­gliersi la vita.

Sicuramente, avrebbero avvisato don Vincenzo, il prete della Badia, il quale sarebbe venuto per curiosità, come tanti altri, non per somministrare i sacra­menti.

Ai suicidi sono rifiutati. E dire che sono proprio i suicidi quelli che più avrebbero bisogno dei conforti religiosi. Una vera ingiustizia …una doppia punizione!

Sofia ci teneva ai sacramenti, al funerale. A parte le incognite di un aldilà molto severo, desiderava che quel popolo, solidale soltanto nei funerali, par­tecipasse alla celebrazione della sua morte. Per riflettere.

Mentre su queste cose rimuginava un nuovo timore le attraversò la mente. Come non ci aveva pensato? Nel vortice della morte, sicuramente la “falletta” (veste a tunica) si sarebbe dispiegata, stracciata e avrebbe mostrato le intimità del corpo, comprese le sue belle cosce bianche come la cera. Che vergogna!

“Anche da morta continua a comportarsi come una sgualdrina.”

Questo avrebbe pensato la gente intorno al pozzo.

Insomma, uno scandalo nello scandalo.

Temeva, soprattutto, la reazione del padre, di quel testone che l’aveva indotta al tragico passo.

Che cosa avrebbe detto, fatto? Quell’uomo era capace di tutto.

Anche in punto di morte, il pensiero del padre l’atterriva. Bisognava evitare il nuovo scandalo, a ogni costo.

Che cosa fare?

Ci pensò sopra qualche minuto. Poteva indossare i pantaloni del padre. No, non andavano bene. La taglia era troppo grande. Avvolgersi nell’ampio scialle di ciniglia ricamato che le aveva donato la nonna per il matrimonio. Anche questa soluzione non le parve idonea allo scopo. E poi perché rovinare uno scialle così bello? Poteva servire a Nina, la sorella più piccola.

Più sicuro le parve cucirsi la “falletta” fin sotto le caviglie. Come a farne un sacco che la contenesse tutta. Nemmeno i piedi avrebbero visto perché co­perti dalle calze di lana.

Solo il volto, il suo bel volto saraceno, sarebbe rima­sto scoperto.

 

6…  L’idea era buona, ma poco pratica. Come avrebbe potuto camminare, nel buio, con quella veste strettamente cucita alle caviglie?

Presto trovò il rimedio: l’avrebbe cucita a bordo del pozzo, poco prima di buttarsi. A quell’ora nessuno l’avrebbe vista.

E così fece la poverina. Si sedette sul muro di pietre bianche levigate e si cucì, con cura, gli orli della tunica. Diede anche un piccolo strattone per assi­curarsi che avrebbe retto alla prova.

Si attaccò una pietra ai fianchi, chiuse gli occhi e si gettò nel punto più pro­fondo.

Morì in pochi attimi, soffocata dal piccolo vortice formato dalla spinta che la sorgente generava dal basso.

Suicidio? Lei fu l’esecutrice, ma i mandanti furono altri. Non fu lei a ucci­dersi. I parenti più stretti, la gente, il loro spietato pregiudizio guidarono i suoi passi verso il pozzo.

In quella notte troppo bella e troppo fresca per morire.

Una morte infelice, assurda che spezzò una giovane vita, ma “salvò” l’onore del padre, dell’intero clan familiare. Ora tutti potevano andare orgogliosi della piccola, eroica Sofia immolatasi per dignità, come un guerriero spartano alle Termopoli.

Ancora oggi, qualcuno va a scrutare fra i veli cangianti dell’acqua di quel pozzo, forse sperando d’int-ravedere le sembianze, la delicata bellezza di So­fia, rimaste insepolte nelle menti dei vecchi contadini.

A volte, anche a me, che non la conobbi, appare Sofia … In sogno.

Una donna con le ali che non riuscì a volare. Agostino Spataro (foto in alto)

https://www.amazon.it/I-fiori-del-tempo-ritrovato/dp/8892325892