di Francesco Virga - «La Sicilia dicono /è una conca d’oro l’isola d’oro /ma per le tasche di quelli che governano ladri senza vergogna e noi non siamo che dei poveri disgraziati senza cielo e senza terra mandati allo sbaraglio in altri mondi pieni di vento di neve di freddo» [1] (25, 79-87). Il capolavoro di Stefano Vilardo,

Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione, scomparso dalla circolazione e dal dibattito dopo una prima parziale apparizione sulla rivista Nuovi Argomenti (n.15, 1969) e la successiva stampa – con una succosa introduzione di Leonardo Sciascia – per i tipi della Garzanti (1975), ha rivisto la luce nel 2007 grazie all’editore Sellerio [2]. Opportunamente, si direbbe, in un momento in cui la Sicilia, antica terra di emigrazione, è diventata una delle mete dei nuovi migranti e uno dei loro principali punti di approdo. Si tratta di un testo difficile da catalogare e commentare. Pur rimanendo, infatti, una grande opera di poesia, è anche un prezioso documento, ricco di elementi storici e socio-antropologici, che potrà un giorno essere utilizzato per scrivere la storia integrale dell’emigrazione siciliana nel mondo. Il carattere polisemico ed interdisciplinare dell’opera in questione è confermato dalla sua stessa lunga e complessa gestazione, di cui si darà un primo ragguaglio in questo contributo. Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta Stefano Vilardo vive e lavora, come maestro elementare, a Delia (Caltanissetta), un paese che, come tanti altri in Sicilia, viene investito dal ciclone emigratorio che ruberà all’Isola tante energie vitali. Più precisamente, tra il 1955 ed il 1965, espatriano dalla Sicilia 332.497 persone [3]. In questo periodo molti paesi dell’interno si svuotano quasi del tutto della popolazione attiva. Particolarmente colpito da questo esodo, anche perché memore della precedente diversa esperienza migratoria del padre [4], Vilardo comincia a raccogliere, con un registratore non professionale, i racconti e le testimonianze di un gruppo di compaesani emigrati in Germania attorno al 1960. Le registrazioni sono poi trascritte e trasformate in 42 storie di vita la cui forza poetica viene enucleata dalla scansione in versi intravistavi dall’autore. Qualche anno fa l’Autore ci ha messo a disposizione le originali bobine usate per registrare le testimonianze del campione analizzato, la prima trascrizione dattiloscritta delle registrazioni effettuate [5], nonché le successive trasposizioni in versi liberi del contenuto delle stesse con relative varianti. Grazie a questo materiale siamo in grado oggi di mostrare, oltre alla sostanziale fedeltà del libro intitolato Tutti dicono Germania Germania [6] alle originarie interviste, il metodo di lavoro seguito dall’Autore nel trasformarle in versi liberi. Si è potuto, inoltre, accertare la verità storica delle testimonianze rese da questi emigrati: infatti le notizie relative ai mezzi usati per arrivare in Germania, ai salari percepiti, agli alloggi fruiti, alle rimesse inviate ai familiari, ecc., corrispondono alla realtà raccontata [7]. A titolo esemplificativo di seguito metteremo a confronto una delle più emblematiche storie di vita contenuta nel libro in questione (la n.25, pagg. 88-91 dell’ed. Sellerio) con la prima trascrizione dattiloscritta in prosa dello stesso testo che si trova alle pagg. 23-26 del Ds ts. Come si vede, confrontando le Dia 1-2-3 allegate, il testo definitivo del Vilardo riproduce gran parte del dettato dell’emigrato Giovanni T. di anni 30. Quanto sopra evidenziato si può estendere a tutte le 42 storie che compongono Tutti dicono Germania, Germania. Di seguito mi limito a riportare i versi di altre testimonianze, con l’indicazione sommaria delle pagine in cui sono state trascritte le corrispondenti interviste che non si riproducono per non appesantire ulteriormente il contributo: «Sono partito per la Germania / il due ottobre del millenovecentosessantuno / che qui non potevo più campare /io e la famiglia con quattro bambini / Sono partito da clandestino / e non ho passato le montagne a piedi come tanti altri / ma d’intrallazzo con le macchine / Centomila lire tutto mi è costato / denari prestati al vento per cento / ma Dio mi ha aiutato / e ora alla posta ho qualche milione» (2, 1-11, Sellerio pag. 19; corrispondente a Ds ts, pp.3-4). «Partii per la Germania da clandestino / Per attraversare le montagne / feci dodici ore di cammino a piedi / soffersi molto ma appena arrivato / mi imbocciai in una fabbrica di prodotti chimici / Lavoravo a riempire fusti di acido / un giorno per poco non ci lasciai un occhio / chè una goccia mi schizzò in faccia […] Ci capiamo a gesti / a mano a mano gli rubiamo qualche parola / ma a me mi fanno schifo / ché ci trattano peggio dei cani / un giorno che entrai in un caffè con gli amici / che volevamo berci una bottiglia di birra / ci buttarono fuori a pedate» (14, 11-19, 39-45, Sellerio pp.47-48; corrispondente a Ds ts) «Non riuscivo a campare qui /Lavoravo in miniera a Ramilia / per un salario di fame / Il padrone il cavaliere Sala /ci faceva sempre scioperare /affinché la regione gli desse i contributi /Soldi sempre soldi /era come un pozzo senza fondo / ma a noi non lasciava che le briciole» (7, 1-9, Sellerio pag.31; corrispondente a Ds ts, pag.26) «Uno scappa di casa e va all’estero / per i bisogni della famiglia / per risolvere il problema della casa / per amore dei figli per se stesso. / Solo come un cane / si mette sopra un treno / che lo porta in terre mai viste / tra gente che non conosce / e quando arriva è la cosa più brutta del mondo / chè uno non sa parlare non capisce» (……….). «Chi non sa parlare è come un cieco» (16, 33) …………… «Nella mia baracca stiamo in sei / e lí dobbiamo dormire e cacare e pisciare / che dalla puzza si muore / Ma cosa dobbiamo fare / Tentiamo di non pensare / quale vita da bestie è la nostra / e la rabbia ci mangia vivi / I tedeschi ci maltrattano forte / per via della guerra del quaranta / Dicono che siamo traditori / Ma che colpa ne abbiamo noi / se i caporioni hanno tradito / allora loro i tedeschi sono tutti assassini / che uccisero gli ebrei come mosche» (7, 43-56, Sellerio pp.32-33; corrispondente a Ds ts, pp.27-28) «Non ne posso piú di questa vita / ma in Italia non posso ritornare / ché le miniere sono chiuse / e il contadino non lo so fare Ma se ancora il governo non bada per noi / dovremmo sbrigarcela da soli / ammazzando tutti i capintesta / Ma questo noi non lo vogliamo / ché vogliamo campare le famiglie / onestamente e vivere in pace È per questo che scappiamo all’estero / è per campare i nostri bambini» ( 7, 61-72, Sellerio pag. 33; corrispondente a Ds ts, pag. 28). Già ad una prima sommaria lettura appare evidente come il lessico e la stessa struttura dei versi vilardiani corrispondano fedelmente al parlato degli intervistati. La lingua, con la visione del mondo che vi è strettamente connessa, è proprio quella delle classi subalterne siciliane dei primi anni sessanta del secolo scorso. Vilardo ha saputo cogliere il ritmo poetico presente in nuce nelle storie raccolte dalla viva voce dei suoi compaesani, fornendo indirettamente una ulteriore prova della originaria oralità del linguaggio poetico. Egli, inoltre, ascoltando attentamente le parole dei “poveri disgraziati” del suo paese natale, «senza cielo e senza terra / mandati allo sbaraglio in altri mondi» (25, 86-87), insieme alla poesia ha colto, immediatamente, il contenuto di verità e di denuncia che assumevano quelle parole. Anche per questo riteniamo che abbia conservato il tono e gli accenti del parlato dei braccianti e dei minatori nisseni che, oltre a raccontare la loro drammatica esperienza, hanno anche saputo esprimere con forza la loro protesta contro i padroni ed i governanti del tempo che, come quelli d’oggi, «prima delle elezioni distribuiscono miele di parole» (25, 27-28) per poi mostrare il loro vero volto di «sanguisughe velenose» . Vilardo ha restituito la parola a coloro che, in quegli anni, l’avevano perduta, e ci ha lasciato un documento raro e prezioso delle esperienze vissute da una parte di quelle centinaia di migliaia di siciliani costretti ad emigrare a seguito del fallimento della riforma agraria dell’ultimo dopoguerra e della chiusura della vecchie miniere di zolfo. Nello stesso tempo, tramite un sapiente lavoro di limatura delle stesse testimonianze, è riuscito a trasformare in poesia le parole dei poveri braccianti e zolfatari del suo paese. Considerata la straordinaria somiglianza tra la tecnica usata da Vilardo e quella che sta dietro ai primi libri-inchiesta di Danilo Dolci [8], abbiamo cercato di accertare l’eventuale influenza dell’autore triestino sull’opera del siciliano. Ma non abbiamo trovato alcun libro del Gandhi siciliano nella biblioteca di Vilardo e abbiamo potuto verificare che egli condivideva l’antipatia del suo fraterno amico, Leonardo Sciascia, sull’anomalo sociologo triestino [9]. Il metodo seguito da Vilardo nella composizione del suo capolavoro, tenuto anche conto della sua lunga gestazione e delle numerose varianti che lo contrassegnano, ricorda anche quello indicato da Sciascia in più occasioni. In particolare si rimanda alla nota scritta da quest’ultimo in occasione della pubblicazione del Giorno della civetta (1962), quando dichiara di avere impiegato quasi un anno a “cavare” la prima stesura del racconto, anche per «dare misura, essenzialità e ritmo» ad esso [10].

Non ci sembra forzato, inoltre, estendere ai versi di Vilardo il giudizio espresso da Vincenzo Consolo su un classico della poesia popolare siciliana di quegli stessi anni, il famoso Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali scritto da Ignazio Buttitta [11] e splendidamente interpretato dal cantastorie Cicciu Busacca: «Mai forse come in quel momento la poesia era stata così dentro la verità (…). Mai forse così dentro la verità, la poesia, per i gesti e la voce del poeta, per il linguaggio e il sentimento, così dialettali e diretti, così corrispondenti al linguaggio e al sentimento di quelli che lo ascoltavano» [12]. Vilardo ha intuito il grande valore di testimonianza che avevano le parole degli emigrati di Delia, riprese in un momento storico in cui la Sicilia, più o meno consapevolmente, subiva trasformazioni epocali. L’emigrazione di massa di quegli anni, infatti, sancirà il fallimento della riforma agraria nel Meridione d’Italia e la fine della millenaria civiltà contadina. Un altro grande testimone e protagonista di quegli anni, Carlo Levi, introducendo nel 1966 un libro di Mario Farinella, lucidamente scriveva: «Siamo passati in questi anni attraverso una sconfitta, una delle tante sconfitte storiche, non mai totali, non mai definitive, non mai prive di un profondo, celato elemento di vittoria del mondo contadino. (…). Dove è oggi il mondo contadino? Nelle fabbriche e nelle miniere di Milano e Torino, della Germania, della Svizzera, del Belgio, senza terra o sottoterra, negli astratti purgatori dove anche la lingua è altra. (…). E nei paesi contadini desolati arrivano le lettere dell’esilio, e nelle terre tornate incolte, il solo lavoro è la rimessa degli emigrati [13]. Ma anche Levi si illudeva nel prevedere, dopo le perdute “quattro guerre contadine” della storia d’Italia, di cui aveva parlato nel suo Cristo si è fermato ad Eboli, una “quinta guerra contadina” che si sarebbe dovuto vincere [14]. La verità è che nessuno in quegli anni riusciva a comprendere quello che realmente stava accadendo. Soltanto il solitario ed incompreso Pier Paolo Pasolini [15], aveva intuito che lo «sviluppo senza progresso», che aveva investito l’Italia come un ciclone, avrebbe prodotto quella vera e propria «mutazione antropologica» del popolo italiano, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Stefano Vilardo, nel dare voce agli emigrati del suo paese, è riuscito a raccontare la tragedia che ha rappresentato per milioni di uomini l’emigrazione. Ed appare davvero singolare il fatto che si sia dovuto aspettare un libro di poesia per cominciare a conoscere la storia vera di gran parte dell’emigrazione siciliana, ignorata quasi del tutto, fino a quel momento, dagli studiosi accademici del tempo. Su questo punto si soffermerà Leonardo Sciascia nella nota introduttiva al libro dell’amico, facendo esplicito riferimento ad Antonio Gramsci. Questi, nei suoi Quaderni del carcere, si era scagliato, con tagliente sarcasmo, contro quella letteratura «completamente inutile ed oziosa» che ha ignorato il fenomeno dell’emigrazione italiana all’estero, nelle sue reali dimensioni, nello stesso momento in cui, nei primi decenni del 900, una delle più grosse ondate di emigrazione dall’Italia si riversava sulle Americhe. Sciascia riprende testualmente le parole di Gramsci, facendole proprie. Infatti la sua introduzione si apre così: « “Prima della Rivoluzione francese – annotava Gramsci – prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c’era un’emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva,elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia e dopo l’avvento del capitalismo si è iniziata l’emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plus-valore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha così sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l’ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” Sempre così negativamente operando, la classe dirigente italiana si è data, dopo l’Unità, a un recupero di tipo sciovinistico delle glorie italiane in terra straniera, cioè di quegli elementi che nel campo delle invenzioni, delle scoperte, dell’arte militare avevano contribuito alla grandezza e ricchezza di altri Stati: e resta esemplare la questione sull’italianità di Colombo, che ha dato luogo a tutta una letteratura che Gramsci definisce “completamente inutile e oziosa”» [16]. In questo testo il ragionamento di Sciascia è tutto costruito sugli appunti del sardo rinchiuso in galera dal fascismo [17]. I due terzi dell’Introduzione si aprono con Gramsci e si chiudono con Gramsci. Riportiamo di seguito quest’altra citazione:

«La classe dirigente italiana, e la cultura che la rappresentava, era talmente occupata a cercare le orme del Genio – negli anni del fascismo G. Volpe inaugurava una pubblicazione in più volumi su L’opera del Genio italiano all’estero – dall’anno mille alla Rivoluzione francese, che non si accorgeva delle centinaia di migliaia di italiani che, bestialmente stivate, continuavano a lasciare le itale sponde. Non voleva accorgersene, cioè, non voleva curarsene. Erano italiani senza genio (Genio): sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente. In altro luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la sua cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono all’estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando sono in Italia?» [18]. Sciascia non indica neppure la pagina della fonte citata, probabilmente presa dalla prima edizione tematica dei Quaderni [19]. Non mi pare comunque che possano esserci dubbi sul fatto che il testo gramsciano era stato da tempo assimilato da Nanà, come ancora oggi Vilardo chiama l’indimenticabile compagno di banco. Lo scrittore di Racalmuto conclude la sua Introduzione, sostenendo che il libro di Vilardo, insieme alle lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo, sono delle eccezioni nel panorama della letteratura italiana contemporanea, dove non esiste, a suo dire, «un solo libro che rappresenti la condizione degli emigranti per come è stata, per come è» [20]. (op.cit: 11).

Per la verità, comunque, va detto che, proprio negli stessi anni in cui Vilardo concepiva la sua Inchiesta Germania, il poeta Ignazio Buttitta e i cantastorie Cicciu Busacca e Otello Profazio incidevano il disco Il treno del sole [21]; il documentarista Gianfranco Mingozzi [22], con l’aiuto di Leonardo Sciascia, denunciava con forza il potere mafioso che opprimeva l’Isola, dopo che il regista Pietro Germi nel 1950 aveva fatto conoscere a tutti la piaga dell’emigrazione siciliana clandestina nel film Il cammino della speranza [23]. Non si possono non citare, inoltre, le inchieste freelance, si definirebbero oggi, condotte da Franco Alasia, Danilo Montaldi e Goffredo Fofi sull’immigrazione meridionale a Milano e Torino [24]. Un cenno particolare merita il libro di Antonio Castelli, Entromondo. Lettere dei deportati della terra (Vallecchi editore, Firenze 1967), giustamente segnalato da Sciascia a conclusione della sua introduzione al libro dell’amico Vilardo. Castelli, infatti, utilizzando un gruppo di lettere di emigrati di Castelbuono (PA), suo paese natale, fa un’operazione simile a quella di Vilardo [25]. Rilevante appare inoltre la ricerca realizzata nel 1962 dal giovane Francesco Renda, intitolata L’emigrazione in Sicilia, pubblicata nel 1963 nelle edizioni “Sicilia al Lavoro” di Palermo. Su quest’ultimo studio è doveroso soffermarsi brevemente. Il Renda allora aveva alle spalle più di un decennio di militanza e dirigenza nelle file della CGIL e del PCI siciliano. In questa sua opera prima, con grande lucidità e chiarezza, pur trovandosi nell’occhio del ciclone, riesce a fare il punto sulla caotica situazione dell’emigrazione siciliana di quegli anni, dimostrando come sia possibile, quando si vuole, fare storia del presente. Egli, infatti, cifre alla mano, dimostra quello che, in modo intuitivo, avevano compreso i semianalfabeti emigrati di Delia intervistati da Vilardo. Ossia che l’Italia del “miracolo economico” è stata in gran parte frutto del lavoro degli emigrati meridionali; che «l’emigrazione è stata un bene per il Nord ed un male per il Sud», una perdita secca di capitale prezioso e un dannoso sperpero di energie [26]. Concludere con le parole del giovane Renda ci sembra particolarmente utile oggi, in un momento in cui la storia viene riscritta ad usum delphini da un revisionismo storico sempre più selvaggio ed arrogante.

Note [1] S. Vilardo, Tutti dicono Germania Germania, Sellerio Palermo, 2007: 90-91.

[2] L’edizione Sellerio è sostanzialmente identica alla prima della Garzanti. Riproduce l’introduzione di Leonardo Sciascia del 1975 ed è arricchita da una breve postfazione di Aldo Gerbino. La nuova edizione che utilizzeremo in questo lavoro, privo del sottotitolo garzantiano Poesie dell’emigrazione, sarà d’ora innanzi citata con l’indicazione numerata della storia riportata e dei versi analizzati.

[3] Dati ISTAT. Naturalmente questi dati non tengono conto dei numerosi emigrati clandestini.

[4] Nella riedizione selleriana del libro l’Autore ha apposto questa epigrafe: «A mio padre che nel lontano 1912 fece degli Stati Uniti la sua seconda patria, e a mia madre che pazientemente aspettò il suo ritorno» : 15.

[5] È opportuno ricordare che in una delle cartellette consegnataci da Vilardo, contenente la prima trascrizione delle interviste che daranno vita al futuro Tutti dicono Germania Germania, è apposta l’epigrafe autografa dell’Autore “Inchiesta La Germania”, ulteriore conferma dell’alto valore documentario immediatamente riconosciuto al suo contenuto.

[6] Il titolo definitivo del libro che l’editore Garzanti preferì a quello proposto da Vilardo, il tacitiano Germania , trae origine dal primo verso della storia n. 29 : «Tutti dicono Germania Germania/ e se ne riempiono la bocca / come fosse la manna del cielo / a me non ha portato che sfortuna» (29, 1-4, ed. Sellerio: 99).

[7] Una indiretta conferma della verità storica contenuta nel libro di Vilardo, soprattutto riguardo il carattere clandestino assunto da gran parte del fenomeno migratorio in quegli anni, si trova nel saggio di Saverio Guarna, I clandestini, apparso sul numero monografico della rivista Il Ponte, nn.11-12, nov-dic. 1974: 1601-1616 e, più recentemente, nello studio di Sandro Rinauro, Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Einaudi Torino, 2009.

[8] Ci riferiamo, in particolare, a queste opere di Danilo Dolci: Banditi a Partinico, Laterza Bari-Roma, 1955; Processo all’art.4, Einaudi Torino, 1956; Inchiesta a Palermo, Einaudi Torino, 1956; Spreco, Einaudi Torino, 1960; Conversazioni, Einaudi 1962; Chi gioca solo, Einaudi 1965.

[9] Sulla reciproca incomprensione che ha caratterizzato i rapporti tra Danilo Dolci e Leonardo Sciascia ci sarebbe tanto da dire. Qui ci limitiamo a segnalare quanto recentemente scritto da Vittorio Nisticò in Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’Ora di Palermo, 2 voll., Sellerio, Palermo 2001.

[10] Vedi la nota poscritta da Leonardo Sciascia al suo celebre Il giorno della civetta.

[11] Il capolavoro di I. Buttitta, la cui prima edizione a stampa risale al 1956, si è arricchito delle integrazioni e della straordinaria interpretazione del cantastorie Cicciu Busacca, registrata nell’incisione discografica della Cedi, glp 80504, 33 giri, Torino 1965.

[12] V. Consolo, Un poeta popolare, “Il Mattino”, 30.10.1993 ato rivalutato. Per un primo bilancio critico del dibattito sull’argomento si rimanda al nostro articolo Pasolini corsaro, pubblicato nel n. 11/ 2004 di Colapesce. Almanacco di scrittura mediterranea e al saggio Lingua e potere in Pasolini in corso di pubblicazione.

13) C. Levi prefazione a Mario Farinella Profonda Sicilia, libri siciliani Palermo 1966 6-8

14) ivi: 9

15) solo recentemente il punto di vista pasoliniano è statao rivalutato. Per un primo bilancio pubblico del dibattito sull'argomento si rimanda al nostro articolo Pasolini corsaro, pubblicato nel n. 11/2004 di Colapesce. Almanacco di scrittura mediterranea e al saggio lingua e potere kin Pasolini in corso di pubb,licazione.

[16] Leonardo Sciascia, Introduzione a Tutti dicono Germania Germania, Sellerio Palermo, 2007: 9-10.

[17] Altrove lo stesso Sciascia ha lasciato di Gramsci un ritratto indimenticabile (Cfr. L. Sciascia, Opere, vol. III, Bompiani, Milano 1993: 1028). Ma il giudizio dello scrittore siciliano sul grande sardo è stato discontinuo.

[18] Op. cit.: 10.

[19] Si ricorda che l’edizione critica dei Quaderni del carcere, curata da Valentino Gerratana, è stata pubblicata in quattro volumi dall’Editore Einaudi lo stesso anno in cui vede la luce il libro di Vilardo.

[20] op.cit.: 11. Recentemente la studiosa italo-americana Teresa Fiore ha rotto il silenzio della critica letteraria nostrana sull’argomento con il saggio Andata e ritorni. Storia di emigrazione nella letteratura tra 800 e 900 (Capuana, Messina, Pirandello, Sciascia e Camilleri), pubblicato in “NEOS Rivista di storia dell’emigrazione siciliana”, anno II, n.1, dicembre 2008. Il saggio ignora comunque il libro di Vilardo, pur non mancando l’attenzione e la simpatia dell’Autrice nei confronti dell’opera di Sciascia su cui la stessa studiosa è tornata in un acuto articolo intitolato La Sicilia come metafora dell’emigrazione negli scritti di Leonardo Sciascia pubblicato sul numero monografico della rivista “Il Giannone”, diretta da Antonio Motta, gennaio-dicembre 2009.

[21] Il disco, pubblicato nel 1964, conteneva, tra le altre, la tragica storia di Turi Scordu, uno zolfataro di Mazzarino (CL), emigrato in Belgio, morto nel disastro della miniera di carbone di Marcinelle. Va ricordato altresì che le ferrovie italiane, in quegli stessi anni, denominarono con lo stesso nome il treno che da Siracusa, Agrigento e Palermo arrivava a Torino con il suo carico di emigrati in cerca di lavoro.

[22] La storia del bellissimo documentario, premiato al Festival di Venezia nel 1965, è stata raccontata dal suo autore, Gianfranco Mingozzi, nel volume intitolato Con il cuore fermo Sicilia, Un viaggio tra cinema e TV, Audino editore Roma, 1995.

[23] La forza d’impatto che ebbe il film di Germi nell’opinione pubblica del tempo è attestata da F. Renda nel suo saggio su L’emigrazione in Sicilia, Ed. Sicilia al lavoro, Palermo 1963: 94.

[24] Cfr. Franco Alasia e Danilo Montaldi, Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli Milano, 1960 e Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli Milano, 1962. [25] Recentemente tutti gli scritti di Antonio Castelli sono state raccolti da Giuseppe Saja nel volume Opere, Salvatore Siascia Editore, Caltanissetta 2008. [26] Francesco Renda, L’emigrazione in Sicilia, cit.: 9-11. L’affermazione del Renda è confermata, oltre che dai fatti, da recenti ricerche che hanno accertato che «le regioni meridionali (…) dopo il 1962 fornirono da sole il 63% dell’emigrazione totale, contro il 9% delle regioni nordoccidentali» Cfr. Paola Corti, L’emigrazione, Editori Riuniti, Roma 1999:12.

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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).