La riunificazione della Sicilia all’Italia segnò il momento della ripresa della lotta politica attorno ai tradizionali partiti politici ma, anche, il debutto di nuove formazioni politiche. Liberali eredi di una tradizione con profonde e radicate radici; cattolici, alcuni provenienti dall’esperienza del partito popolare e, altri, formatisi nelle file dell’Azione cattolica; socialisti, comunisti, azionisti, scesero in campo per contendersi, senza andare troppo per il sottile, la leadership siciliana. Se infatti i vecchi liberali, di avaria estrazione, godevano fra le classi alte di un’indubbia prevalenza, i cattolici della Democrazia cristiana potevano servirsi della Chiesa che, attraverso le parrocchie, esercitavano una fortissima influenza sulla società siciliana e, in particolare, sulle classi medie; i social comunisti, invece, coglievano consensi nel debole ceto operaio, tra fasce di intellettuali sensibili al cambiamento e, soprattutto, nelle masse di proletariato urbano e nei contadini sindacalizzati. Questi tradizionali insediamenti sociali tuttavia muteranno con il radicalizzarsi della lotta politica e con l’approssimarsi delle consultazioni elettorali a cominciare da quella per l’Assemblea regionale siciliana. E’ ciò anche perché i social comunisti guidavano le lotte popolari e strumentalizzavano il disagio sociale creando aspettative radicali fra le classi meno abbienti e, nel contempo, forti timori nelle classi medie. Non è un caso il fatto che molti ex separatisti ed ex liberali, anche di estrazione massonica, si siano, con decisione e grazie alla mediazione di vescovi intelligenti quali monsignor Peruzzo, orientati verso il partito cattolico che, appariva garantire stabilità e, soprattutto, scongiurare salti nel buio. Nomi prestigiosi della nomenclatura liberale riempirono il lamentato vuoto di esperienza e di autorevole leadership di cui in molte aree soffriva il partito democristiano. Risultato di questa complessa operazione di ricollocazione partitica, che si concluse nell’arco di pochi anni, fu la perdita della maggioranza della quale, fino a prima dell’avvento del fascismo, avevano goduto i vecchi liberali. Già i risultati delle amministrative, svoltesi prima dell’elezione dei rappresentanti alla Costituente, avevano consacrato, con circa il 30% dei suffragi, come partito di maggioranza la Democrazia cristiana seguita, a brevissima distanza dai social comunisti, mentre i liberali raccoglievano appena il 7% dei consensi. La presenza massiccia di questi esterni alla tradizione cattolica nel partito democristiano fu all’origine delle contraddizioni di cui la formazione degasperiana ebbe a portare segni nel corso degli anni a venire. In quel coacervo di tendenze, la componente più propriamente cattolica, cedette, almeno in parte, quella carica di ideali che avevano costituito l’ossatura della sua storia passata al realismo dei nuovi arrivati, e venne quasi travolta, dalla necessità di fare quadrato, anche sacrificando le motivazioni più forti, a difesa della democrazia dal cosiddetto assalto social-comunista. Questa condizione “specialissima” consentì che personaggi di dubbie frequentazioni si introducessero nelle file del partito divenendone, in taluni casi, perfino punti di riferimento sul territorio. Che la paura della vittoria delle sinistre, con gli scenari apocalittici che venivano alla stessa connessi, non fosse del tutto peregrina, lo dimostrarono le elezioni del ’47, dove la componente social-comunista, colse un vistoso avanzamento strappando la primazia al partito di De Gasperi. Proprio questa vittoria convinse quelli che ancora, per antichi fastidi nei confronti del mondo cattolico, avevano dubbi a fare il salto sul carro di quello che appariva l’unico praticabile antimurale alla avanzata delle sinistre. Fuori dal partito rimasero dunque gli irriducibili anticlericali e talune velleitarie espressioni della vecchia conservazione che pensavano di risolvere il problema ricorrendo a strumenti di lotta politica inaccettabili in una democrazia. Proprio a questi, al di là delle tante illazioni che sono state alimentate, si deve attribuire il fatto più eclatante della storia siciliana del dopoguerra. Mi riferisco alla strage di Portella della Ginestra, del 1° maggio 1947, perpetrata pochi giorni dopo l’elezione del primo governo regionale, presieduto dal democristiano Giuseppe Alessi alla guida di un monocolore che poteva godere dell’appoggio delle destre. La strage di portella della Ginestre, di cui fu responsabile il bandito Salvatore Giuliano (che era sto nominato dai separatisti colonnello dell’Evis) costituì il punto più alto della reazione contro il movimento contadino siciliano e può essere considerato il primo dei tanti episodi oscuri che hanno costellato la storia della Sicilia e dell’Italia del dopoguerra, sia per l’interesse ad inquinare le prove da parte dei veri mandanti sia per le speculazioni che su episodi simili si sono montate impedendo quelle collaborazioni necessarie alla ricerca della verità. (by Pasquale Hamel- fine)