Qualche riflessioneine  sull’ Autonomia regionale.(prima puntata)Credo, nel momento in cui il problema Sicilia, nell’accezione più vasta, si presenta agli occhi dell’opinione pubblica regionale e nazionale con le tinte drammatiche del sempre più evidente differenziale economico e sociale rispetto al resto del Paese per non parlare dell’Europa, che uno sguardo alla vicenda dell’istituzione autonomistica sia quantomeno necessario. Se infatti è vero che, parafrasando Giovanni Falcone, anche le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini, ciò che vuol dire che i veri responsabili di quanto è avvenuto sono stati coloro che hanno nel tempo abitato le istituzioni, non si può non rilevare che vi possano essere architetture istituzionali, e tale è da considerare quella che ha dato vita all’Autonomia regionale siciliana, che possono aver favorito oggettivamente taluni percorsi piuttosto che altri. In poche parole, diciamo che il problema è, anche, nel manico. D’altra parte, Che l’ Autonomia, così come disegnata dallo Statuto del ’46, si sarebbe potuta trasformare in una gabbia per la Sicilia, qualcuno l’aveva avvertito nel momento stesso in cui se ne cominciò a parlare e cioè quando il crollo del fascismo permise la riattivazione del dibattito democratico anche nella nostra Isola. Ad avvertirlo, pur nella forte motivazione che spingeva a riprendere un disegno che era pezzo forte della loro visione politica, erano stati in particolare gli eredi del popolarismo sturziano. Pur essendo Sturzo, infatti, informato a quella tradizione “regionista” che aveva avuto in Vito d’Ondes Reggio e in Emerico Amari i suoi riferimenti forti, la sua concezione dell’Autonomia era non troppo vicina al modo in cui si realizzò in Sicilia. L’idea di Sturzo si sintetizzava, infatti, nella formula “La Regione nella Nazione”, che era poi stato titolo di un suo famoso libro. Non, dunque, una Regione che aspirasse ad essere una sorta di “Stato nello Stato” ma una Regione consentisse di avvicinare le istituzioni alla gente e che, in questo senso, rispondesse meglio alle esigenze del territorio tenendo conto delle sue stesse vocazioni. Già, infatti, al congresso della Democrazia cristiana siciliana della fine di novembre del 1944 celebratosi ad Acireale, proprio quegli eredi, avevano posto lucidamente dei precisi paletti per evitare quelle derive che, purtroppo, si sono verificate. In quell’occasione, infatti, Franco Restivo, un giurista di grande spessore che avrebbe avuto nella storia del Paese un ruolo non secondario, fu chiamato a relazionare sul tema “Autonomia siciliana e ordinamento regionale dello Stato”, non ebbe remore a indicare un modello che faceva del regionalismo soprattutto un fattore di crescita di democrazia e di libertà. “Il regionalismo, affermava Restivo, è per lo Stato che vive di un’effettiva partecipazione degli individui alla cosa pubblica … Solo la vita locale può educare efficacemente alla libertà.” Il modello che Restivo proponeva puntava, infatti, sull’integrazione piuttosto che sulla contrapposizione allo Stato. Un modello che non aveva nulla a che fare con quello dello “Stato nello Stato”, che è venuto fuori dall’assetto statutario del ’46. L’autonomia, aggiungeva ancora Restivo, doveva essere soprattutto funzionale a ”ridare a quei siciliani che l’hanno smarrita, il senso della presenza dello Stato, e con il senso dello Stato la sicurezza della vita locale informata al principio dell’autogoverno e di una posizione della Sicilia, nel quadro dell’unità dello Stato, che sia adeguata ai concreti apporti all’organismo nazionale”. Nulla a che vedere, dunque, con l’insana voglia separatista fatta propria da chi immaginava, attraverso l’autodeterminazione di tutelare i tradizionali equilibri di potere, ma anche con quella di chi, nonostante non negasse il fatto che l’isola politicamente non potesse che essere parte d’Italia, ne reclamava una soluzione quasi federale che, in quel momento storico particolare denso di incognite, potesse fare da barriera qualora gli esiti politici nazionali avessero potuto rendere difficile la perpetuazione degli assetti tradizionali. Quell’idea che Restivo aveva messo sul piatto, e cioè di un’autonomia funzionale allo sviluppo ed alla crescita economica e democratica e quindi molto spinta nel segno della collaborazione con lo Stato, aveva trovato in sede di Consulta voci anche al di là del recinto cattolico, vedi i consultori socialisti Mineo e Cartia, anche questi ultimi puntavano ad un’autonomia di tipo collaborazionista. Purtroppo però, nonostante tutto non riuscì a passare. ll risultato, fortemente voluto dalla parte conservatrice, si sostanziò nella prevalenza di un’impostazione autonomista di stampo competitivo tutta protesa ad escludere lo Stato privando così l’isola di quelle solidarietà necessarie a realizzare il suo progetto di crescita. Una scelta catastrofica che, a nostro giudizio, nonostante ci si intesti caparbiamente a negarlo, è stata la causa del parziale fallimento della stessa Autonomia. Per la cronaca, bisogna ricordare che la soluzione fatta propria dai consultori e sanzionata col il regio decreto legislativo n°455, era stata ripudiata perfino dallo stesso padre del regionalismo, parlo proprio di don Luigi Sturzo, che sprezzantemente di fronte a quanto si era spagnolescamente realizzato, ne stigmatizzava col termine “pantomima” dell’organizzazione centrale, il ben misero risultato . “ (by Pasquale Hamel- PRIMA PUNTATA/SEGUE)