Intervista di Giuseppe Maurizio Piscopo Nonò Salamone è nato a Sutera in provincia di Caltanissetta. E’ un cantastorie colto e raffinato che ha lavorato tanto nella sua vita, a Milano a Torino in Germania, a Dillingen.

Ha frequentato molti poeti, scrittori e registi da Mario Soldati a Ugo Gregoretti. Questa intervista è una sua testimonianza di vita.

Come e quando nasce la tua passione per la musica?

Mia madre mi raccontava che appena nato, non piangevo ma cantavo, invece io ricordo che vicino a casa mia, c’era un calzolaio molto anziano, quando mi vedeva, mi faceva sedere a cavallo al suo ginocchio e mi diceva, “ora cantami una canzone Nonò”, ed’ io senza farmi pregare iniziavo così: Bandela lossa a la littossa, bandela lossa tilombelà”.

Sei stato un emigrante: a Milano, in Germania, a Torino, che cosa ricordi di queste esperienze?

Penso, che l’emigrazione sia stata la mia Università, quando sono arrivato a Milano, non sapevo nemmeno come si attraversava una strada! Prima di lasciare il mio paese, solo qualche volta, ero stato a Mussomeli, Campofranco, Casteltermini e altri paesini del vicinato, con tanta umiltà riuscii a conquistare il mio spazio musicale in diversi locali importanti come il “Principe”, “L’Arizona” e la “Stella d’oro” e cantare con orchestre come: Torreggiani, Papetti e Fiammenchi autore allora della famosissima canzone “Berta Filava”. Mi venne a trovare mio fratello dalla Germania e mi convinse di seguirlo verso Dilingen. A Milano vivevo da solo, avevo quasi diciotto anni, e la mia vita era molto sacrificata, perché a quei tempi, noi meridionali eravamo accolti peggio degli extracomunitari di oggi! Si viveva nelle cantine, dieci quindici persone per stanzone, senza servizi igienici, certo da questo punto di vista, la situazione era drammatica. Sicuramente in Germania era tutta un’altra cosa, c’era mio fratello con la famiglia, e tanti altri amici siciliani e molti del mio paese. Sebbene agli inizi, non conoscessi la lingua, presto trovai un lavoro in un cantiere edile e quasi subito iniziai a suonare e soprattutto a cantare con un complesso musicale formato di miei compaesani, sebbene il nostro repertorio fosse fatto di canzoni italiane il complesso, si chiamava “The Red Devilis”. Facevamo tutte le manifestazioni organizzate dal consolato e dai Centri Italiani, In quella zona della Saarland eravamo i numeri uno. Col passare del tempo cominciavo a temere che le mie radici potessero fare una presa irreversibile in Germania, vedevo tutti quelli che finivano per sposarsi con una ragazza del posto, veniva a crearsi un legame con quella terra che diventava impossibile tornare indietro; naturalmente i figli gli nascevano tedeschi, con tutto il rispetto, questa cosa mi spaventava e mi faceva impazzire! Decisi di tornarmene in Italia, a Torino, dove ho vissuto gran parte della mia vita. In questa città, abitando proprio nel centro, tra via Palazzo di città e Via Po, proprio accanto alla Rai, al Teatro Reggio, al Comune, al Palazzo Reale, certo avevo tante occasioni, di incontrare gente interessante, del mondo dell’arte e dello spettacolo; proprio in Via Montebello si facevano le selezioni per il concorso nazionale di voci nuove della Rai-TV “La piccola ribalta” vi partecipai e vinsi, e da lì ebbe inizio il mio percorso musicale e teatrale a Torino. Con spettacoli nei teatri torinesi, nelle manifestazioni più importanti, e tanta Rai sia Radio che televisione.

Per un ragazzo come racconti tu, partito da un piccolo paese, quando sei arrivato a Milano, sprovveduto, che non conosceva nessuno, come hai vissuto la tua integrazione in una grande metropoli? E com’è stato possibile incontrare questi grandi Maestri della Musica?

Avevo appena diciassette anni, Milano era sempre stata nei miei sogni, la immaginavo una città con palazzi e case luminose, con affreschi nelle mura, statue nelle piazze colore oro, strade con viali alberati e tanta gente lieta che sorrideva sempre! Io stavo in un piccolo paese, dove la mattina vedevo sorgere il sole e la sera lo vedevo tramontare, le giornate mi apparivano sempre tutte uguali e mi pesava questa monotonia. Un giorno conobbi una persona di un paese della provincia di Agrigento, Grotte, che si era fidanzato con una ragazza, mia vicina di casa a Sutera, Lui poteva avere circa venticinque anni e viveva proprio là, a Milano, si chiamava Antonio, raccontava tante cose, un po’ per farsi bello con il vicinato della ragazza un po’ per vantarsi anche con i futuri suoceri. I suoi racconti mi convincevano sempre di più, che la mia meta doveva essere Milano. Non ci ho pensato due volte, e gli chiesi se mi portava con lui, quando partiva! Antonio, mi disse “ma certo, andiamo a parlarne con i tuoi genitori”. Era molto abile, riuscì a convincerli, assumendosi tutta la responsabilità, che mi avrebbe tenuto assieme a lui e che non mi avrebbe mai perso di vista un attimo. Mio padre e mia madre di fronte alla mia fissazione e alla benevolenza di questo ragazzo, mi concessero, di partire. Il treno del sole era lì davanti a me, salii con le mie valige e una chitarra. Le poltrone erano in toghe di legno, un viaggio lunghissimo, ma finalmente una voce nel treno: “Stiamo arrivando a Milano”, cerco di guardare pulendo con la manica della giacca il finestrino tutto appannato, ma non si vedeva niente, solo tanta nebbia e ogni tanto si riusciva a intravedere la sagoma di alberi alti e dritti tutti bianchi di ghiaccio, c’era poco da vedere, ma dopo un’ora circa, una voce annuncia l’entrata nella Stazione Centrale di Milano. Ritorno al finestrino ansioso di vedere la desiderata Città, ma il treno si ferma proprio all’ultimo binario e dal finestrino vedevo solo un muro nero, sporco di smog, poteva essere quella Milano? Per farla breve, siamo scesi dal treno, e con un paio di pullman arrivammo a destinazione, un borgo della periferia, una serie di villette formavano il quartiere Bovisasca, vi erano due bar, una panetteria e una chiesa baracca costruita con delle tavole. Antonio mi porta in una di queste villette, ma la nostra abitazione era una cantina della casa del signor Maffucci di Via Pietro Maffi 10, tutto sommato poteva andare anche bene, ma il mio amico, non mi aveva detto nemmeno, che in quella cantina vivevano anche altre sette persone, senza servizi igienici e per lavarsi bisognava aspettare il turno, perché c’era un solo rubinetto che riversava in una vaschetta che serviva per potersi lavare anche i panni. Sono arrivato di mattina e il pomeriggio ero riuscito a trovare lavoro presso un’impresa di costruzioni. Mi hanno messo subito a lavorare in un fondamento di una casa, un lavoro per me assurdo e pesante con picco, pala, picozze e martelli; attrezzi che le mie mani, sconoscevano! Fu così che una mattina il padrone della ditta, Il signor Mario Cozzani, osservandomi dall’alto mi disse: ragazzo mio, tu a questa età dovresti andare a scuola! Si era reso conto subito che non ero fatto per quel tipo di lavoro. Mi licenziarono quasi subito e senza perdere tempo mi misi a cercare un nuovo lavoro, anche questa volta fui fortunato lo trovai subito, nelle “Fonderie Lombarde”. Di solito andavo vestito con giacca pantalone, camicia bianca e cravatta, le camice me le aveva portato mio fratello quando veniva in ferie dalla Germania; erano di un materiale che ora non so descrivere, comodissime perché non occorreva stirarle. Il primo giorno di lavoro mi assegnarono il turno di notte. Mi presentai in fabbrica vestito come il solito, portando con me, l’abbigliamento da lavoro. Mi assegnarono l’armadietto, mi cambiai e mi accompagnarono sul posto di lavoro. Un ambiente buio, con una polvere più fitta della nebbia di Milano, lavoravano tutti con le semplici mutande. Si producevano vasche da bagno, lavandini e simili; la distanza tra un operaio e l’altro era di qualche metro, il rumore dei flessibili era assordante, ho avuto l’impressione di trovarmi all’inferno attorniato da tanti diavoli. Finito il turno di lavoro, mi resi conto che ero più nero di uno spazzacamino, me ne andai un po’ deluso nello spogliatoio, per farmi la doccia e cambiarmi, ma ebbi la brutta sorpresa che mi avevano rubato i vestiti puliti con quei pochi soldi, che c’erano dentro; non avevo messo il lucchetto nell’armadietto, non ero abituato ai ladri. Scoraggiato dell’accaduto, feci la doccia, mi rivestii con quei panni sporchi e a piedi me ne ritornai alla Bovisasca! Mi sono presentato al lavoro ancora l’indomani ma fu l’ultimo giorno, perché i miei occhi erano malridotti probabile per la polvere e quella luce strana che regnava in quell’ambiente, non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Ero arrivato a Milano il Lunedì mattina avevo fatto già cinque giornate di lavoro, e cambiato due ditte!

Il sabato mattino, Remo, uno dei ragazzi che dormiva nello stesso posto dove ero io, mi chiede se avevo voglia di andare a ballare la Domenica, perché aveva appuntamento con due ragazze alla stazione centrale, alle tre di pomeriggio, mi trovò subito d’accordo, certo una bella occasione! La Domenica, metto il mio vestito con camicia bianca e papillon! E andiamo a quest’appuntamento, ci si doveva trovare, accanto ad una barca che era esposta nell’atrio superiore della stazione! Le ragazze erano già la che ci aspettavano e ci vengono incontro festanti e briose, erano veramente due splendide figliole. Da quel momento cominciai a sentirmi inadeguato, avevo paura di parlare, e alle loro domande rispondevo a sufficienza, non ero a mio agio! Con il tram arriviamo in Viale Blignyn, dove si trovava il locale “Il Principe”, una delle sale più importanti di Milano. Naturalmente pago per tutti, e andiamo a sederci in un tavolo all’interno della sala. Quel giorno suonavano il famoso maestro Ovidio Fiammenchi e la sua orchestra, la cantante era Mafalda Francesi; Il mio amico non perde tempo, afferra per mano la ragazza e si perde tra la folla del locale. Non ho avuto nemmeno il tempo di pensare che, un ragazzo arriva come una furia prende la ragazza seduta accanto a me, per una mano e se la porta via. Rimango come un fesso seduto accanto a quel tavolo rotondo, in quella sala semibuia, molto deluso, dopo cinque minuti, mi alzo e lentamente mi avvicino nei pressi dell’orchestra! Mi sono appoggiato alla ringhiera di fronte al maestro che suonava il piano. Sicuramente il mio aspetto era curioso, negli occhielli della mia giacca, avevo appuntati una serie di distintivi, uno dell’azione cattolica, un altro delle Olimpiadi della scuola, e altre cose che non ricordo. Ero nero, bruciato dal sole, i miei capelli boccolati e il mio sguardo sicuramente molto intimorito. Dopo una mezzoretta, il mio amico si rende conto del mio disagio, viene a trovarmi e per tirarmi su, mi chiede se volessi cantare una canzone, risposi che mi avrebbe fatto piacere.

Al volo chiede al maestro se era possibile farmi cantare, “nessun problema” risponde il maestro, ma bisogna aspettare il direttore, per essere autorizzati. Nell’attesa Fiammenchi si divertivano a prendermi in giro, ma dopo un quarto d’ora arriva un signore robusto e pelato con un baffetto molto sottile elegantissimo, con un sorriso beffardo e ironico, che ricevuto il messaggio all’orecchio dal maestro, mi chiama subito sul palco in mezzo all’orchestra. Così comincia la mia tortura: Il pubblico si è fermato, per godersi sadicamente lo spettacolo! Il direttore, figlio di buona madre, comincia a divertirsi e a divertire la gente che rideva a squarciagola con la bocca aperta, non esisteva una sua domanda per non umiliarmi e divertire la gente, eravamo diventati una coppia di comici mai vista prima di quella volta. Purtroppo solo io sapevo quanto pativo! Alla fine mi chiede cosa volevo cantare, e con un fil di voce risposi: “La Novia”, era una bellissima canzone di Aznavour, al mio annuncio una forte risata di tutto il pubblico, e c’era un motivo, perché la domenica prima in quel locale c’era stato un grande comico, vestito da fachiro che cantava “La Novia “in un modo ironico e divertente.

Non si può immaginare in che stato fosse il mio cuore! Inizia a suonare l’orchestra, erano straordinari, era un sogno cantare su quella musica, la canzone era drammatica, parlava di un innamorato che la sua donna stava per sposarsi con un altro, e mentre cantavo la canzone che si trasformava in una preghiera alla Madonna, un grido cantato, la musica straordinaria liberava dal mio cuore tutta la rabbia “AVE MARIA, AVE MARIA”, io piangevo come un bambino con il viso pieno di lacrime, applausi, applausi generali continui per almeno dieci minuti tutti gridavano il mio nome! Finito di cantare sono scappato via, mentre ognuno mi cercava, in quel locale è successo il finimondo! Alla fine Remo riesce a trovarmi e mi accompagna assieme a tanta gente che applaudiva sul palco dal direttore, che mi chiede scusa davanti a tutti, per come mi aveva trattato, impegnando il maestro Fiammenchi a ricevermi in Galleria del Corso, 4 almeno due volte alla settimana per preparare un mio repertorio e darmi tutti i consigli necessari per cantare nei suoi locali di Milano, che erano diversi. Da quel momento ero diventato il cantante che si esibiva con tutte le orchestre che lavoravano per lui.

I Cantastorie in Sicilia sono stati i veri “giornalisti” del popolo e qualcuno vi sta proponendo come patrimonio dell’umanità?

I Cantastorie in Sicilia, per quello che io ricordo, lasciando in pace la loro antica storia, giravano per i paesi dell’isola, accompagnati da un familiare, poiché la maggior parte erano ciechi, erano accompagnati da una figlia oppure dalla moglie, che oltre a portarli sotto braccio, spesso, avevano una gabbietta con una cocorita bene addestrata a prelevare la famosa pianeta della fortuna! Che serviva per arrotondare l’incasso abbinato alla vendita della storia scritta nel famoso foglio volante. Negli anni cinquanta, cominciò ad arrivare, una nuova generazione di cantastorie, formata da: Orazio Strano, Ciccio Busacca, Vito Santangelo, Paolo Garofaro e tanti altri! Di solito si posteggiavano nella piazza più importante del paese avevano predisposto sul tettuccio della loro macchina un mini palchetto, alle loro spalle piazzavano un cartellone dipinto con la storia che rappresentavano, finita l’esibizione, si invitava il pubblico ad acquistare la storia, che spesso era romanzata dall’artista in modo esagerato. Si trattava di notizie vere e inventate, ma questo era poco importante quello che contava era appassionare e coinvolgere gli spettatori, spesso le storie erano piene di morti giustiziati per vendetta e delitti d’onore, più morti c’erano e più la gente si lasciava prendere, e comprava la storia. Subito dopo iniziarono con la vendita dei dischi e delle musicassette; iniziarono alcuni passaggi televisivi, addirittura Ciccio Busacca fu ospitato da Mike Bongiorno in una famosa trasmissione, Dario Fo inserisce nel suo spettacolo “Ci ragiono e canto” il fior fiore dei cantastorie, da Busacca a Rosa Balistreri ; ancora Busacca lavora con De Simone, e la Balistreri con La Proclemer con lo spettacolo “La Lupa”! Ultimamente c’è un po’ di confusione, sono tanti quelli che si definiscono cantastorie, addirittura da Claudio Baglioni a De Gregori, molti artisti siciliani sono convinti di essere eredi di uno o dell’altro artista, scimmiottando: Busacca, Strano e la stessa Balistreri, ma “sbagliano”! Ogni artista deve essere se stesso, come lo sono stati i grandi del passato!

Quando si parla di te, si parla di un cantastorie colto e raffinato, molti dicono, Nonò Salamone è l’ultimo cantastorie della Sicilia, è vero?

Non lo so se è vero, e perché si pensa questo! Cerco di dare una spiegazione a queste domande: sono stato amico e ho cantato con i più grandi della musica popolare italiana; ho frequentato molti poeti, scrittori e registi della letteratura italiana del secolo scorso, da Mario Soldati a Melo Freni, Massimo Scaglione, Ugo Gregoretti, Maurizio Scaparro e tanti altri; ho fatto teatro, radio, televisione e anche un pizzico di cinema; ho cantato in diversi teatri e nelle piazze di tutto il mondo; sono stato contadino, operaio in cantieri edili, ho lavorato per diversi anni in fabbrica, ho sempre raccolto e letto libri comprati spesso nelle bancarelle. Credo in questa immensa vita piacevole e anche difficoltosa, di avere accumulato e imparato tante cose, la più importante, quella di rimanere sempre me stesso. La ragione può essere questa.

 

Come hai vissuto il ritorno da Torino nel paese Presepe di Sutera?

Quando ero ragazzino non vedevo l’ora di andarmene via da questo piccolo paese ma una volta lontano ogni tanto, sentivo il bisogno di ritornarci, anche solo per pochi giorni, era un bisogno vitale! Mi sentivo cittadino del mondo, ma il mio corpo per campare aveva bisogno di quell’aria, anche per pochi giorni, bastavano a temperarmi per il periodo che ne vivevo lontano. Col passare degli anni, mi sono reso conto, quanto poco avevo vissuto, quel paese che tanto amavo, e mi preoccupavano tante cose, la più importante, quella che una volta vecchio, ci poteva essere il rischio, di morire di nostalgia e non vedere più la mia montagna, ma soprattutto rischiare che dopo morto potevo rimanerne sempre lontano. Grazie a Dio, sono rimpatriato a tempo, per respirare, vivere e godere l’aria del mio paese.

 

Da dove nascono le tue canzoni?

Dall’attualità, dalla vita di tutti i giorni! Il mio repertorio è vasto e anche vario, i temi sono tanti, a volte arrivano inaspettatamente come per esempio una vigilia di Natale, nel tardo pomeriggio, in una grande strada di Torino mentre diluviava, rientravo verso casa e vidi un barbone proprio in mezzo alla strada, tra le macchine che correvano, l’ avevo conosciuto un giorno nelle vie del centro mentre rovistava nei cassonetti dell’immondizia per cercare qualcosa da mangiare, in quell’occasione mi ero messo a parlare con lui. Lo invitai al bar a mangiare qualcosa, diventammo quasi amici e mi ha raccontato la sua vita e ne feci una ballata, con quel drammatico finale della notte di Natale. Un’altra storia: una sera mentre rientravo a casa in Via Palazzo di Città, sempre a Torino, all’angolo della strada c’era tanta gente assiepata, era successo un incidente c’era per terra un ragazzo morto era uno straniero. Ho pensato subito alla sua famiglia lontana e alla sua vita vissuta lontano dai suoi affetti mentre la gente guardava solo per la curiosità di vedere il morto! Così nacque una mia canzone dal titolo: “Vegetazione” e tante altre storie.

Teatro, TV, Cinema, e la piazza, cosa preferisci maggiormente?

Ogni forma di spettacolo è diversa dall’altra! Le ho sperimentate tutte ma preferisco più di tutto il Teatro; il pubblico viene apposta per venirti a vedere e sentire, ce l’hai davanti, seduto comodo, attento a valutare quello che tu stai facendo, nei minimi particolari; completamente all’opposto è la piazza, spesso trovi un pubblico occasionale, distratto e vario, per farti ascoltare devi tirare fuori un repertorio diverso dal solito perchè devi conquistarlo. E’ brutto cantare quando la gente non ti ascolta. Mi è capitato una volta a Ramacca, in provincia di Catania, mentre cantavo il treno del sole, storia di Marcinelle una ballata drammatica che vivo con molta intensità, divento il protagonista della storia: Due ragazzi forse ubriachi si misero a ballare proprio davanti agli occhi. Mi sono fermato e mi son messo a discutere con loro! Invece alcuni artisti, anche amici miei, che stimo, non considerano quest’aspetto, loro vanno sempre avanti, non importa se alla fine, rimangono con poche persone, poco gli importa. A me piace il pubblico, fin da quando cantavo da bambino, dentro i limiti cerco sempre di accontentarlo. Per La TV e la radio ci sono delle differenze tra le dirette e le registrazioni; poi se le dirette sono fatte in studio con o senza pubblico, cambia un po’; nel cinema se una scena non va bene, si ripete per fare quella giusta.

Perché sono stati così importanti i Cantastorie in Sicilia?

I cantastorie in forme diverse sono stati importanti in ogni parte del mondo ma, in Sicilia sono stati più di ogni altro posto la tradizione orale! Tante sono le storie arrivate a noi attraverso i cantastorie, almeno fino a un po’ di anni addietro. Oggi sta cambiando tutto, specie con l’arrivo dei computer e di Internet; ogni cosa è insaccata nei file, e conservata negli Hardisck, poi succede quello che è successo a me questo Hardisck si rompe e si perde un patrimonio di lavoro. Per me il libro rimane la cosa più adatta e più bella per conservare la memoria! E’ vero può succedere un incendio, e il libro può andare distrutto, ma sicuramente in uno scaffale di qualche altra libreria una copia di quel libro sarà rimasta.

Ti è mai capitato di piangere mentre canti come avveniva a Ciccio Busacca?

Penso, sia un mio difetto, mi commuovo sovente e riesco a cantare solo se alla commozione aggiungo la rabbia. In questo modo riesco a dare forza alle corde vocali, diversamente la mia voce verrebbe fuori debole e poco intonata.

Qual è la canzone alla quale ti senti più legato?

Credo una delle prime, “E vaiu a lassari”. L’ho scritta alla fine dell’anno scolastico al terzo avviamento agrario, agli esami scritti d’italiano sul tema, “Parlate dell’emigrazione”, io presentai questa poesia che poi musicai!

“Mamma mia mi nni vaiu

A travagliari ‘unni codda lu suli

E ta’ lassari cccu tantu duluri”!.. …

Hai conosciuto Modugno, qual è stato il tuo rapporto con lui?

Per caso! Si doveva fare uno sceneggiato televisivo, e Modugno ne doveva cantare la sigla. Alla Curci Editore, avevano sentito una mia canzone e ne erano interessati di usarla per l’occasione. Poi la cosa non andò in porto, perché Mimmo scelse un canto popolare che con la Bonaccorti modificarono leggermente, divenendone padroni. Il canto è “Nebbia alla Valle” Che poi divenne “Amara terra mia” in quei periodi ho avuto modo di incontrare la grande Modugno, in Galleria del Corso a Milano.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

E’ brutto dire non ho più grandi progetti! Mi piace fare tante cose, ma capisco che i grandi progetti li devono fare i ragazzi, io di quello che passa, prendo, ciò che m’interessa, Cercherò di dosare bene il mio tempo libero, e riuscire a sistemare il mio archivio pieno di molte cose importanti, Non mi sento vecchio e nemmeno arrivato, dico anche che sto benissimo! Scrivo sempre qualcosa, faccio qualche concerto dove mi fa piacere andare, e posso permettermi, anche di non farlo! Mi interessano tanto, i giovani; appassionarli, coinvolgerli e fargli amare la nostra musica, le nostre tradizioni e la nostra Sicilia. (Giuseppe Maurizio Piscopo)