JUNIO VALERIO BORGHESE I MISTERI DEL GOLPE DEL PRINCIPE NERO Probabilmente in queste ore gli uomini del Principe Junio Valerio Borghese si stavano preparando per gli ultimi dettagli tecnici da attuare nel “colpo di mano” alle istituzioni italiane.

Cinque gli obbiettivi primari; destituire Giuseppe Saragat (all’epoca  inquilino del Quirinale) impossessarsi del Ministero dell’Interno, del Dicastero della Difesa, degli studi RAI e assassinare il Capo della Polizia Angelo Vicari. Il tutto ben orchestrato mesi prima, con incontri e preparativi in varie città dello Stivale e da concretizzare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Un episodio accaduto quarantacinque anni fa ma che - ancora oggi – rimane avvolto da un grande mistero. L’unica cosa certa è la motivazione; un anticomunismo viscerale e un forte desiderio di bloccare la preoccupante ascesa parlamentare e sociale delle sinistre post sessantottine. Alcuni ambienti di estrema destra (e non solo) non gradivano affatto il socialista Saragat sul colle più alto di Roma né tantomeno i governi Moro e Rumor un po’ troppo decentrati verso un’area politica non propriamente filo-occidentale. Il contesto internazionale come al solito, per certe delicate questioni inerenti la Prima Repubblica, è assai complicato. In piena Guerra fredda le cosiddette periferie dell’Impero di Washington seguono le direttive impartite dai padroni d’oltreoceano. Tutta la cinta mediterranea, da Lisbona ad Atene, a sud della Francia è ben salda, tranne l’instabile nazione del tricolore che, come una fanciulla difficilmente domabile, dava non pochi pensieri all’establishment statunitense. Il Portogallo è nelle mani del gruppo forte capitanato dai dittatori Salazar e Caetano, la penisola iberica è di Francisco Franco mentre i Colonnelli ellenici a guida Papadopoulos non danno alcun segno di debolezza. Alla bassa fascia europea ultra conservatrice nella strategica area marittima manca però un tassello essenziale; il nostro Paese, troppo spesso ritenuto incostante, ballerino e degno di particolare attenzione.

Ed è cosi che, alla fine degli anni sessanta, in chiara e concreta chiave antisovietica un gruppo di uomini ben assortito, scelti tra la società civile, la sfera militare e soprattutto gli ambienti neofascisti decide di dar vita ad un progetto ambizioso e ad un’utopica idea di conquista dei poteri centrali tramite quelli periferici. Si tratta del Golpe Borghese che prende il nome dall’omonimo ex Comandante del leggendario sommergibile Scirè, della X flottiglia Mas e considerato - per i suoi seguaci - l’eroe di Salo’, della Regia Marina nonché il fondatore del Fronte Nazionale. Junio Valerio proviene da una potente famiglia che, oltre a donare un Papa alla Sacra Romana Chiesa ed essere stata imparentata con i Bonaparte ha anche servito – per decenni - sua Maestà il Re. L’operazione “Tora Tora” (così venne ribattezzata in codice), secondo storico tentativo d’assalto ai governi suffragati dal popolo dopo il “Piano Solo” di sei anni prima, vede la sua teorica ideazione nel 1969, presso una villa di un ricco imprenditore Genovese. Sono anni critici a livello politico. All’avallo ligure segue sia quello milanese con Amos Spiazzi (futuro capo degli NDS – Nuclei difesa dello Stato) sia quello capitolino tramite il medico Adriano Monti, l’imprenditore Remo Orlandini, il militare Mario Rosa e il gruppo di Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie; profondo sostenitore del “pensiero” Borghese. La giunta Nixon appare subito interessata e per mezzo del capostazione CIA a Roma Angleton il tacito assenso si trasforma - in brevissimo tempo - in placido consenso. Il filo conduttore tra Borghese e il Partito Repubblicano USA è niente di meno che Otto Skorzeny, l’ex paracadutista del Gran Sasso, in quegli anni di stanza in Spagna; uomo che nell’era post bellica è divenuto il collante tra i servizi segreti del basso continente e il controspionaggio americano. A lui sembra aggiungersi l’Ambasciatore USA a Roma Mr. Graham Martin, alcuni membri della Loggia Massonica P2 e un paio di personaggi che siedono ai vertici del SID (Servizio informazione Difesa), tra i quali il discusso Vito Miceli. Tutto sembra pronto e l’ora X sempre più vicina. Milano, Genova e la capitale, assente però il meridione. Ci pensa Tommaso Buscetta a svelare anni dopo i retroscena. Anche Cosa nostra, secondo le dichiarazioni dell’illustre pentito, viene coinvolta attivamente nel piano golpista. Accettazione in cambio di benestare territoriale e salvacondotti processuali per gli affiliati alle cosche di Luciano Liggio e picciotti. La sera del 7 dicembre Tora Tora si avvia verso l’esecuzione. Il Maggiore Luciano Berti guida un corteo di centinaia di macchine e uomini del Corpo Forestale dello Stato dalla provincia di Rieti verso Roma; a Licio Gelli il compito del sequestro Saragat; per i nostalgici ex repubblichini è il turno di armarsi all’interno del Viminale con 200 M.A.B (moschetto automatico Beretta) e gli uffici della Difesa sotto il controllo del Generale Casero e del Colonnello Lo Vecchio. Le pedine si incastrano alla perfezione, tutto sembra procedere al meglio, l’ardua idea si tramuta (sul campo) in vero e proprio colpo di stato e per il Principe nero si avvicina la tanto agognata salita al potere. Qualcosa però non sembra andare per il verso giusto e di li a poco arriva – inspiegabilmente - il contrordine. Verso la mezzanotte si intima il dietrofront. Fermi tutti! Al ministero i Mitragliatori vengono riposti, per Gelli stop al Quirinale e, all’altezza di Via Teulada, ormai quasi a destinazione, Luciano Berti viene fermato da un tizio sconosciuto che sul ciglio della strada gli impartisce quanto stabilito. Anche il Maggiore, sopraggiunto da tale notizia, prende la via del ritorno. Il mistero si infittisce. Chi è stato a dare l’ordine? Chi era a capo di tutto? Cosa non ha funzionato? Nel 1974, Giulio Andreotti fornisce alla Procura di Roma ulteriori dettagli emersi dalla discutibile informativa firmata dagli agenti SID Gianadelio Maletti e Antonio Labruna. Ad inizio processo, il 30 maggio ’77, oltre sessanta personaggi presumibilmente legati al golpe vengono messi in stato di detenzione e arresti preventivi. Alcuni riescono a rifugiarsi in Spagna e Svizzera, tra questi Valerio Borghese colui che, sin dall’inizio, era considerato la mente dell’intera operazione. Comincia un lungo processo che si concluderà tra l’84 e l’85 con le due successiva sentenze di complessiva assoluzione; in Appello e Cassazione. I “supremi” giudici dichiarano inesistenti le accuse di cospirazione politica ai danni dello Stato. Peccato però che nel 1995, il magistrato Guido Salvini solleverà forti dubbi sulle registrazioni depositate dalla coppia Maletti-Labruna e appoggiate dal Senatore Andreotti. Quanto ascoltato e trascritto nel 1974 dai due 007 non corrisponde a ciò che è emerso nei primi anni Novanta. Ci furono omissioni, cancellazioni e manipolazioni rispetto alla versione originale. Qualcosa non torna. Vengono tolti nominativi importanti e conversazioni che all’epoca non furono portati al cospetto degli inquirenti. Giovanni Torrisi ad esempio, numero 1 del SIOS poi divenuto Capo di Stato Maggiore della Marina e della Difesa, uno dei militari più influenti della nostra storia repubblicana e l’alterego Francesco Mereu unitamente ad altri esponenti di spicco non citati nei precedenti mandati. Il divo Giulio si limitò ad affermare che il coinvolgimento di certe personalità non doveva e non poteva essere dato in pasto alla gogna mediatica per il bene di una nazione sovrana e per una ragion di Stato ancora tutta da capire. In questa strana vicenda c’è poi la versione di Amos Spiazzi, l’alto ufficiale d’artiglieria che sostenne con fermezza la teoria dell’Esigenza Triangolo. Il Golpe “Borghese” dell’Immacolata ’70 fu sospeso – secondo Spiazzi – perché non vi furono i presupposti per un totale coinvolgimento di gran parte delle forze dell’ordine che - tutt’altro - eseguirono nella stessa notte l’attuazione dell’Esigenza Triangolo; una controffensiva mascherata da esercitazione nei confronti del gruppo che si era già mosso per le vie della capitale. Il comandante X Mas venne a sapere solo troppo tardi che non avrebbe mai avuto il sostegno di altri corpi, i quali - paradossalmente - si erano preparati alla difesa dei luoghi strategici. Un vero rebus che, come detto, non ha avuto ancora una spiegazione logica a partire dall’imbarazzante e a dir poco ambiguo atteggiamento che ha avuto la CIA, Washington, Nixon e il famigerato Kissinger. Nel quadro generale c’è da valutare chi ha ottenuto benefici dall’intera vicenda. Un Paese in piena crisi sociale, contrapposto tra la consacrazione di Via delle Botteghe Oscure e una destra extra parlamentare piuttosto agguerrita. Tra i due litiganti (che andavano assolutamente demonizzati agli occhi dell’opinione pubblica) c’è stato un terzo elemento, il quale - inevitabilmente - ha beneficiato più di ogni altro del polverone sollevato dall’affare Golpe; è il grande centro, la moderata Democrazia Cristiana dell’indiscusso stratega Giulio Andreotti che, tra un terribile rapimento Brigatista e un deplorevole tentativo - se pur fasullo - di colpo di stato fascista, si è aggiudicato maggiori poteri istituzionali e, cosa importante, il plauso virtuale dell’inconsapevole e ingenuo ampio bacino elettorale dell’epoca. E il Comandante in latitanza? il Borghese della Regia Marina? Impossibile sapere la sua versione dei fatti poiché, pochi anni dopo dall’evento in questione, fu ritrovato privo di vita nella cittadina di Cadice, in terra Andalusa. Anche questo (e non solo) resta uno dei tanti  enigmi della nostra cara nazione. (Mirko Crocoli)