di Agostino Spataro (foto accanto) -  Perché tanto odio in politica? Si tratta di odio o di qualcosa d’altro? Non è facile dare risposte a un fenomeno relativamente nuovo che, per altro, non è stato adeguatamente indagato dal punto di vista sociologico e della psicologia delle masse. Anche perché le ragioni, le origini dell’odio sono molteplici e non riconducibili alla stessa sorgente. Si ricorre all’odio, al rancore per drammatizzare il confronto politico e avvelenare la coscienza civile del Paese. Anche se – sappiamo – che l’odio, la violenza non hanno nulla da spartire con una politica democratica, con la civiltà di un popolo. Di fronte a questo scenario inedito, che non trova riscontri nella tradizione repubblicana, il pubblico, smarrito e sgomento, reagisce come può: pochi ne sono attratti, molti, sdegnati, preferiscono ritrarsi in una cocente solitudine, favorendo oggettivamente l’ingresso nella vita pubblica di furbi e furbastri, servi e profittatori di tutte le risme. Fra odio e politica il rapporto è inversamente proporzionale: più si riduce il ruolo della politica democratica più crescono “odio”, invidie e tendenze a criminalizzare l’avversario, fino all’annientamento politico. In verità, l’odio è una delle tante forme di espressione dell’antipolitica ovvero di una strategia, apparecchiata ai piani alti del potere, per condizionare, ridimensionare il ruolo primario della politica in loro favore. E così vediamo delinearsi, giorno dopo giorno, un panorama triste, decadente, inquietante che puntualmente si manifesta ogni qual volta un regime muore e il nuovo stenta a nascere. Esattamente, ciò che sta accadendo in Italia in questo lunghissimo “interregno” ossia in questa ventennale transizione che non sappiamo a quali lidi potrebbe approdare. Troppo comodo liquidare un malessere sociale così grande con atteggiamenti istintivi, emotivi. Bisogna cercare, scavare più a fondo, fino alle radici del disagio, delle ingiustizie che la gente subisce sempre più con una sensazione d’impotenza. Non tutta la gente, ovviamente. Poiché vi sono settori importanti dei ceti medio-alti ai quali l’attuale andazzo va bene, anzi benissimo. Va bene, per esempio, a quei 712 mila individui che negli ultimi 4 anni – secondo il rapporto Eurispes 2009 – hanno dichiarato un capitale di oltre 1 milione di euro (erano 359 mila nel 2006), con una spettacolare crescita del 98%. Eurispes non dice, e non può dire, quante altre decine di migliaia d’individui sono diventati milionari magari senza denunciarlo al fisco e/o esportando illegalmente i capitali all’estero che oggi stanno rientrando sotto protezione degli scudi fiscali… Seconda repubblica: dall’inclusione all’emarginazione, all’esclusione Ma torniamo al tema del cosiddetto “odio” e alle vere ragioni che lo determinano. Fra le quali – a mio parere – ve ne sono alcune che vanno considerate e con urgenza. La più importante è data dall’attuale politica di progressiva emarginazione, esclusione d’intere fasce sociali dal contesto economico e politico della nazione. In questa lunga transizione, si è capovolta la logica della politica italiana: dall’inclusione di masse di emarginati nella cosiddetta “prima” repubblica all’esclusione, all’emarginazione praticata nella “seconda” che, a ben guardare, è la figlia degenere della prima. Certo, gli emarginati, i poveri c’erano anche prima, ma partecipavano alla vita politica e sociale, speravano e lottavano per il cambiamento, soprattutto attraverso l’organizzazione nei grandi sindacati e nei due principali, e contrapposti, partiti di massa: il Pci e la Dc, ciascuno a suo modo ovviamente. Rispetto alle terribili condizioni del dopoguerra, il cambiamento c’è stato, anche in loro favore. Perché quella era la democrazia dell’inclusione, come propugnato dalla nostra Costituzione. Oggi, il meccanismo gira al contrario: esclude invece che includere. Ampie e importanti fasce sociali avvertono tutta la precarietà della loro condizione senza, per altro, poter contare su una degna rappresentanza politica, sindacale e parlamentare. Siamo, cioè, in presenza di un’emarginazione senza rappresentanza politica e quindi senza speranza di redenzione, di riscatto che può esprimersi in proteste, anche rancorose, verso chi quell’esclusione ha determinato, a tavolino. Cala la ricchezza della nazione aumentano disoccupati e i milionari. A ben pensarci, in questo ventennio di transizione (verso dove?) si è visto da un lato uno stravolgimento caotico delle regole della vita politica e della coesione sociale e dall’altro lato l’affermarsi, in economia come in politica, di un rampantismo e di un arrivismo sfrontato e senza limiti (la “deregulation”) che hanno prodotto una rottura profonda del sistema delle solidarietà sociale e nazionale. Non sono state varate le riforme necessarie per l’ammodernamento del Paese, ma solo provvedimenti particolaristici (quando non ad personam) tesi a modificare la redistribuzione della ricchezza nazionale a favore dei ceti apicali della società, a tutto svantaggio dei ceti medio-bassi. Insomma, la cosiddetta “seconda“ repubblica non ha creato un nuovo mercato, libero e veramente concorrenziale, né una nuova, efficiente amministrazione, ma solo le condizioni più adatte al dilagare dell’affarismo e della corruzione. In questo clima confuso hanno scorazzato, sovente impuniti, avventurieri della finanza e settori importanti della criminalità organizzata. Oggi tali gruppi di potere esercitano una pesante influenza diretta e/o indiretta sulla politica e sulle istituzioni con l’obiettivo dell’arricchimento, anche illecito. Invece di puntare sull’incremento della produzione di beni e servizi, premono, interferiscono con la politica per realizzare ambigue operazioni di cartello e massicce evasioni fiscali, contributivi e d’altro genere. Una prova? Basta guardare i dati degli ultimi anni in cui al calo della ricchezza nazionale (Pil) è corrisposto l’accentramento vertiginoso della ricchezza in talune ristrette fasce sociali. La disperazione sociale non genera amore. Questo è il fatto centrale, reale che ha modificato gli assetti di potere economici e politici e gli equilibri sociali, in Italia. Si allargano, vistosamente, le distanze fra redditi alti (in gran parte sommersi) e redditi medi e bassi quasi tutti sotto controllo del fisco. In questi giorni di festa, i commercianti, che in gran parte hanno sostenuto elettoralmente queste politiche, si lagnano che la gente non spende la tredicesima nei loro negozi, ma la usa per far fronte alle più urgenti esigenze di famiglia: dai mutui alle esose bollette dei servizi. Anche sul fronte dei consumi la forbice si allarga giacché mentre si restringe la domanda della clientela a reddito medio-basso si amplia quella, per altro più esigente e costosa, proveniente dai ceti più ricchi. Tradotto: la crisi la stanno pagando i lavoratori e i disoccupati e non i nuovi ricchi, così come la distribuzione di più largo consumo e non quella del lusso. Tutto ciò perché è in atto, anche a causa della speculazione sull’euro, un depotenziamento progressivo della capacità d’acquisto di salari, stipendi e pensioni. Per non dire della disperazione in cui si dibattano i disoccupati o gli occupati precari e, soprattutto, i giovani inoccupati che non intravvedono alcuna possibilità di un lavoro degno e qualificato. Da un lato profitti senza limiti, consumi smodati, offensivi e dall’altro lato importanti fette di società disperate perché non arrivano alla fine mese. Tutto ciò non può, certo, generare amore… (in: Agoravox del 24/12/2009)