Di Mariangela Cacioppo (foto accanto) - Copertina de “L’Unità” , martedì 16 gennaio 1968: “Terremoto in Sicilia: 500 morti? Interi paesi non esistono più. È stata una strage, distrutti Montevago, Gibellina, Menfi, Poggioreale, Salaparuta e Santa Ninfa- devastati Salemi e Partanna- ….spazzati via dal sisma, distrutti, crollati come castelli di carta…Nessuno sa quanti vivi siano sepolti sotto le rovine ….Mille almeno i feriti, le strade sono interrotte, i telefoni non funzionano, enormi nuvole di bianca polvere aleggiano sulla zona del Trapanese a segnare i luoghi sconvolti e devastati….si sentono grida disumane che salgono dagli ammassi di travi e calcinacci.” Così un giornale dell’epoca annunciava la catastrofe: il violento evento sismico definito come il “Terremoto della Valle del Belice” di magnitudo 6 che tra la notte del 14 e il 15 gennaio 1968 colpì una vasta area della Sicilia Occidentale. Le conseguenze furono devastanti; la dolorosa conta delle vittime racconta di 352 morti e 576 feriti, i senzatetto furono circa 70.0000. Furono impegnati nei soccorsi più di mille vigili del fuoco, la Croce Rossa e l’esercito. Il pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona dichiarò di avere visto uno spettacolo da bomba atomica. Il terremoto mise in luce subito le carenze di un Paese che non era preparato per l’emergenza ma neanche per gestire la ricostruzione, ma mise anche a nudo lo stato di arretratezza e di povertà in cui vivevano le comunità siciliane che si trovavano, in quegli anni, in una situazione di totale abbandono da parte del governo come spesso aveva sottolineato Danilo Dolci, il “Gandhi di Sicilia”, il quale si mobilitò per combattere un sistema politico clientelare mafioso che bloccava il progresso e il benessere delle persone: agricoltura povera, industrializzazione inesistente, tenore di vita misero, fortissima emigrazione verso il nord-Italia e verso il nord-Europa. La prima risposta dello Stato fu quella di incoraggiare le partenze. Ai terremotati furono offerti biglietti ferroviari gratis e passaporti rilasciati a vista. Chi restava nelle baracche viveva in condizioni degradanti. Leonardo Sciascia, in un reportage per L’Ora, paragonò le baraccopoli ai «più efferati e abietti campi di concentramento». Un episodio riferito da Dolci alla Commissione parlamentare antimafia nel 1963, descrive in modo esemplare un tessuto sociale caratterizzato da arretratezza economica, controllo mafioso, comportamento oscuro per non dire conveniente di molti rappresentanti dello Stato. Il terremoto divenne metafora e stereotipo di improvvisazione logistica dello Stato, di ritardi nei soccorsi e di cattiva gestione degli aiuti alle popolazioni terremotate rimaste per ben due anni senza aiuti, costrette a vivere fuori casa fino a quando Danilo Dolci, insieme ai suoi collaboratori decise di denunciare le condizioni del territorio con una trasmissione radiofonica: il 25 marzo 1970 iniziarono le trasmissioni “non autorizzate” della Radio Libera Partinico, detta anche “radio dei poveri cristi”: la prima emittente privata consapevolmente “illegale”, lancia un appello disperato: “S.O.S…S.O.S…Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza. Qui si sta morendo…Siciliani, Italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto di enorme gravità, assurdo, si lascia spegnere un’intera popolazione…la gente vive ancora nelle baracche, neppure un edificio è stato ricostruito, si marcisce di chiacchiere e di ingiustizie, la Sicilia muore”. Ventisei ore di libertà dopo di che un centinaio di carabinieri in pochi minuti scassavano porte e cancelli, impadronendosi delle trasmittenti nei locali di Palazzo Scalia, a Partinico. Un grido di accusa di Danilo Dolci, il quale si propose sia per la raccolta delle testimonianze, sia per sviluppare l’agorà della contro-informazione, ma alla base di tutto una semplice premessa : “Il mondo non può svilupparsi in vera pace finché una parte degli uomini è costretta alla disperazione”. Per quanto riguarda il capitolo della ricostruzione, questo fu un dramma dal quale tuttora si fatica a tirarsi fuori. L'ultimo censimento della Ragioneria generale dello Stato è del 1995: nel Belice erano stati spesi, fino a quella data, 12 mila miliardi di lire. Nell'immediatezza furono stanziati 348 miliardi di lire, in parte spesi nei primi otto anni solo per opere di urbanizzazione, in parte persi tra le maglie della burocrazia, il conflitto tra gli enti, gli ispettorati creati ad hoc. "La burocrazia uccide più del terremoto", diceva Danilo Dolci. Interi paesi come Gibellina, Poggioreale e Salaparuta vennero ricostruiti in altri posti. Antiche culture vennero cancellate, il tessuto sociale fu radicalmente mutato, la vita civile di migliaia di persone venne sconvolta. Poco resta nella valle del Belice, insomma, dei grandiosi progetti di modernizzazione e sviluppo agitati da politici e pianificatori nel 1968 e all’inizio creduti possibili da molti superstiti. Laddove le comunità del Belice possono raccontare storie di dolore, resistenza, o riconciliazione, le autorità possono difficilmente sfuggire alla narrazione di un fallimento…di una rinascita negata! Chiuderei con un insegnamento di Danilo Dolci il quale diceva: “Premere non-violentemente, scioperando attivamente e passivamente, non collaborando a quanto si stima dannoso, protestando e operando pubblicamente in forme diverse che possono venir suggerite dalle circostanze, dalla propria coscienza e dalla necessità: valendosi delle leggi buone quando esistono e contribuendo a realizzarne di nuove quando sono insufficienti, ma premere con forza serena finché non vincono il buon senso e il senso di responsabilità” .