(SA) - Serradifalco che nasce ufficialmente il 6 dicembre del 1640 ad opera di Francesco Graffeo insignito anche del titolo di Barone di Serradifalco. A quella data infatti il Graffeo ottenne lo “jus populandi” , ma il vero sviluppo del paese inizia nel 1652 quando la baronia passa alla famiglia Lo Faso

e precisamente a Leonardo 1° barone di Serradifalco che da inizio alla dinastia dei Lo Faso. A loro, ai Lo Faso si debbono le prime vere opere di espansione attorno alla piazza San Francesco ed all’omonima chiesa costruita nel 1653 e tra le altre opere, il palazzo ducale sito in Via Duca, palazzo di cui oggi si conserva solo qualche rudere, mentre il resto è tutto scomparso o è stato profondamente modificato, tanto da non avere niente a che fare con l’originale dimora nobiliare. La chiesta San Francesco, invece che si conserva ancora molto bene con la sua bella facciata, perse la propria centralità passata alla nuova chiesa madre costruita all’incrocio di via Duca, Via G. Lombardo, Via Angelo Sesta e quella che attualmente è la piazza Aldo Moro. Chiesa madre la cui costruzione ebbe inizio nel 1740 e venne inaugurata nel 1845. Abbiamo fatto questo breve richiamo ai natali di Serradifalco, perché se è vero che Serradifalco è stato ed è un paese agricolo, è vero anche che merito a pieno titolo l’appellativo di “paese delle miniere”. Il nome di Serradifalco si intreccia intimamente, infatti con nomi quali Apaforte, Acqua Viva, Stincone, Bosco, Rabbione, Gallodoro, Gibellina, Nadurello, Dragaito, Marici ed altri ancora, nomi di miniere dove si sono alternate diverse generazioni di Serradifalchesi in tutte le loro figure professionali: capimastro, picconieri, meccanici, arditori, manovali, carusi. Altri nomi di miniere si potrebbero aggiungere, nomi di “buchi” che spesso si fermarono solo a livello di ricerca e non ebbero alcuno sviluppo o furono inglobati nelle miniere già esistenti. Presenza di picconieri e manovali serradifalchesi si riscontra anche nelle miniere di Tabia Tallarita, Trabonella, Gessolungo ed altre. Di certo sappiamo che se Serradifalco a metà del XVII secolo la scoperta e l’utilizzo dello zolfo, viene collocata nell’arco di tempo che va dal 1000 al 1700, come scrive il Fazello nel 1500, che parla anche delle miniere esistenti in Sicilia citando tra le altre la miniera Stincone. Dello stesso parere è l’Abate Francesco Ferrara che evidenzia come il bacino del Salso sia punteggiato di varie miniere. Alcuni testi riferiscono anche che l’uso dello zolfo estratto dagli affioramenti risale al 200 A.C. quando i romani lo usavano in medicina, ma anche a scopo bellico. Da notare che lo zolfo subì un importante rilancio quando paesi vinicoli coma le Francia ed altri, cominciarono ad utilizzare lo zolfo nella coltivazione della vigna, per combattere l’oidio e la peronospera . Ulteriore rilancio l’industria dello zolfo l’ebbe nel 1850 quando si diffuse l’uso dell’acido solforico. Ma torniamo alla nostra storia. Da Serradifalco ogni mattina a piedi partendo da punti diversi del comune, a centinaia i nostri minatori scendevano da zone come San Francesco attraverso la Via Duca, l’Immacolata attraverso la via Crispi o attraverso la Salita Abate, la Via Lauricella, il Largo San Giuseppe, immettendosi nella Via Palmeri, o da altre vie come la zona della “testa di l’acqua” Il Corso Garibaldi, la Via Roma, la Via Calcare o altre strade ancora che scendevano dal Calvario, che poi avevano il punto di congiunzione nella Via Delle Miniere che terminava davanti la chiesetta di Marici che ancora oggi ricorda la tappa obbligata dei minatori, che non sapendo cosa riiservasse loro la giornata, salutavano devotamente la Madonna prima di inoltrarsi lungo la scoscesa discesa chiamata “mai ti livu”, (non finisce mai), specialmente quando al ritorno la si percorreva in salita. Allora quella era l’unica strada che permetteva di raggiungere le miniere, partendo dalla miniera Marici, passando a metà strada circa dalla miniera Apaforte, per scendere fino a valle per raggiungere la miniera Stincone, la miniera Bosco e la Miniera Rabbione. Questa parte del progetto vuole evidenziare questo aspetto collegato alle miniere, che ha evidenziato la vita del popolo di Serradifalco, legato fin dalla nascita del comune alla miniera. Una vocazione che non si fermò a Serradifalco, ma si irradiò in diversi paesi del Nord Europa quando i nostri mina tori, nell’immediato dopo la seconda guerra mondiale, raggiunsero le miniere di carbone del Belgio della Francia, della Germania o le miniere di ferro della Francia. Fu quello il tempo in cui l’Italia, firmò diversi accordi che prevedevano l’impiego della nostra manodopera, specialmente del Sud nelle miniere di quegli stati che erano a corro di manodopera. Anche il Nord Italia si sviluppò a spese del Sud, arruolando a diecine di migliaia operai per le proprie fabbriche che diversamente non sarebbero decollate. Un mestiere, quello del minatore, che costò parecchie vite umane. La prima vittima tra i minatori di Serradifalco risale al 19 giugno del 1887 deceduto per incidente sul lavoro presso la miniera Stincone, mentre l’ultima vita sacrificata, la n. 196, è dell’11 giugno 1985 presso la miniera di sale potassico Racalmuto. Parecchi furono i disastri minerari dove perirono numerosi operai. Ricordiamo qui la tragedia di Cozzo Disi (Campofanco-Casteltermini) del 4 luglio del 1916 quando morirono 89 persone e quella di Gessolungo (Caltanissetta) del 12 novembre del 1881, quando a morire furono 65 persone di cui 19 bambini sotto i dieci anni. A ricordo di persone di alcune delle quali non fu possibile nemmeno conoscere il nome specialmente tra i bambini, a Caltanissetta presso la miniera Gessolungo esiste il così detto cimitero dei carusi. L’uso dei carusi era molto praticato nelle miniere, quando i bambini venivano ceduti ai picconieri che li utilizzavano per portare fuori dalla miniera il minerale estratto. Si calcola che nel 1882 nel solo distretto minerario di Caltanissetta vi impegnati 6.732 bambini e Serradifalco non era immune da questa terribile usanza. Come si vede i morti di Serradifalco, hanno una strana coincidenza: sia la prima che l’ultima vittima si trovano nel mese di giungo a distanza di quasi un secolo. I 196 nomi, oggi sono riscontrabili all’interno della chiesetta di Marici, dove sono stati affissi alle mura dei quadri che incorniciano il voluminoso elenco. Alcuni tentativi per ricordare il legame che Serradifalco ha avuto sempre con la miniera sono stati fatti. Oggi si può visitare in Via Cavalieri di Vittorio Veneto la villetta del minatore, dove oltre ad una lapide in rame, è possibile ammirare un monumento che vuole richiamare simbolicamente la vita in miniera. L’opera è stata realizzata dall’architetto Oscar Carnicelli, pittore e scultore di Caltanissetta. I minatori hanno avuto un grande ruolo nell’economia del comune, sia quando esistevano le miniere, sia quando essere vennero chiuse ad opera di una legge regionale. Un ruolo che si diversifica in diverse forme. Quelli che lavorarono fino all’ultimo, mantenevano florida l’economia locale. A sostenere l’economia anche i tanti pensionati per malattia professionale, la bronchite cronica che attacca i polmoni, o i tanti troppi infortunati che sono rimasti marcati a vita dalle infermità che li hanno costretti a lasciare la miniera ed a condurre una vita da pensionati. Non solo morti ed invalidi residenti a Serradifalco, questo comune ha dovuto piangere, ma anche tanti minatori che hanno lasciato lo zolfo per raggiungere, come precedentemente ricordato, altre nazioni dove hanno prestato la loro opera. A loro compete la riconoscenza per le tante rimesse mandate, che hanno cambiato il volto dei nostri paesi. Giovani in cerca di condizioni migliori di vita, che si sacrificano a scendere nelle vecchie e malsicure miniere di carbone, dove sacrificarono la loro gioventù. Quanti giovani, alcuni dei quali sono rientrati in giovane età dopo avere soddisfatto il contratto che prevedeva i cinque anni di lavoro in sotterraneo dove avevano preso la silicosi che li aveva per sempre menomati. Giovani che sono rientrati o che sono rimasti all’estero, dove avevano costruito il oro futuro e quello dei propri figli. Questa è la parte di popolazione che vorremmo Serradifalco non dimenticasse mai, queste sono le migliaia di persone che vogliamo ricordare lasciando segnali indelebili cominciando a dare vita ad un museo a cielo aperto, fatto di immagini di quella miniera a cui tanto dobbiamo. E’ per questo, che vorremmo partire intanto dalla Via Lauricella e dal Largo San Giuseppe, luoghi che si animavano di buon mattino per il passaggio di ombre silenziose, che magari gettavano lo sguardo distratto sul Lago Cuba, ben visibile da tutte le parti fino a raggiungere Marici dove si univano al resto della colonna che in silenzio scendeva verso la miniera ad affrontare una nuova dura giornata di lavoro. Un museo a cielo aperto, in attesa di poterne avere uno al chiuso, fatto di immagini, di castelletti, di carusi curvi sotto il peso dello zolfo caricato sulle spalle, di picconieri, di asini carici delle classiche “balate” di zolfo. Di quelle immagini vogliamo arricchire le strade che percorrevano i nostri minatori, dando loro il giusto posto che meritano nella storia di questo nostro Paese, che fin dalla sua nascita legò la propria esistenza ed il proprio sofferto benessere alla miniera. Una categoria di persone, che seppe condurre battaglie che cambiarono la storia dell’intera Sicilia, scioperi dei quali si conserva memoria negli archivi della Prefettura ed in quelli dell’Ufficio Miniere. La storia di una parte di popolo dell’intera Sicilia, che cambiò il volto ai nostri comuni e che ora rischia di essere dimenticato perché poco se ne parla. Un museo a cielo aperto, che preceda quello in luogo appropria che prima o poi si riuscirà a fare, in modo da lasciare alle future generazioni una tangibile testimonianza di un travagliato periodo della storia di queste terre, di cui i propri antenati sono stati i protagonisti principali. (Salvatore Augello 22 giugno 2020)