AMERICA LATINA, TRA MOBILITAZIONI SOCIALI, ELEZIONI E COVID-19

di Marco Consolo – A pochi giorni dalle elezioni in diversi Paesi latino-americani dell’11 aprile (Ecuador, Perù e Bolivia) la regione è colpita duramente dagli effetti sanitari e socio-economici,

con un panorama di chiara disputa politica. L’America Latina è la regione del mondo più colpita dalla pandemia di Covid-19. Solo qualche giorno fa, il totale dei contagiati era di circa 24 milioni, includendo i Caraibi. Con solo l’8,4% della popolazione mondiale, il continente registra il 27,8% dei decessi mondiali di COVID-19. Il Brasile è il Paese più colpito, con circa 12 milioni di casi confermati. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), nel continente sono 26 milioni i posti di lavoro persi durante la pandemia. La perdita di ore di lavoro nel 2020 nella regione è stata circa quattro volte maggiore a quella registrata durante la crisi finanziaria globale del 2008-2009. La perdita stimata nei due maggiori Paesi dell’America Latina e dei Caraibi è per il Brasile del 15% e per il Messico del 12,5%. Secondo le proiezioni della Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL), a causa della grave recessione economica nella regione (con una contrazione del PIL del -7,7%), il tasso di povertà estrema si attesterà al 12,5% nel 2020 e il tasso di povertà colpirà il 33,7% della popolazione. Concretamente, alla fine del 2020 il numero totale di poveri ha raggiunto i 209 milioni, ovvero 22 milioni in più rispetto all’anno precedente. Di questo totale, 78 milioni di persone sono in estrema povertà, 8 milioni in più rispetto al 2019. Fin qui alcuni dati della drammatica situazione sociale ed economica.

UN CONTINENTE IN DISPUTA

Sul versante politico, la fase attuale è segnata dalla disputa tra le oligarchie locali sostenute dalla Casabianca e le forze diverse che si battono per la trasformazione sociale e per un’integrazione sovrana e autodeterminata della “Patria Grande”. Lungi dallo stare ferma, l’America Latina è in movimento. In Bolivia la recente vittoria di Luis Arce che ha sconfitto il golpe e la dittatura imposta dopo solo un anno; in Cile le enormi mobilitazioni popolari contro il governo e per mettere fine alla costituzione della dittatura di Pinochet; in Paraguay le mobilitazioni che hanno messo in difficoltà il governo di Mario Abdo Benitez; l’uscita dell’Argentina dal cosidetto “Gruppo di Lima” creato in funzione anti-venezuelana; in Colombia, dove non si ferma la mobilitazione popolare contro le politiche neo-liberali e la violazione sfacciata degli accordi di pace da parte governativa, contro i rappresentanti dell’oligarchia e i settori più conservatori, alleati degli Stati Uniti. Le prossime elezioni in Cile, decisive per la regione, sono state rinviate al 15-16 maggio a causa della pandemia che colpisce il Paese. Il processo costituente con l’elezione di una Convenzione costituzionale (resa possibile dalla mobilitazione sociale e dalla rivolta popolare) è la prima sfida che culminerà a novembre con le elezioni presidenziali. L’unità tra i partiti, i movimenti di sinistra e progressisti ed i movimenti sociali è la strada obbligata per approfondire la mobilitazione sociale e l’alternativa anti-neoliberale di trasformazione. Inoltre, le manifestazioni pacifiche del popolo cileno hanno chiesto con forza la liberazione delle decine di prigionieri politici della rivolta. Ma non è tutto oro quello che luccica, ed il processo costituente deve affrontare diverse trappole nel cammino. Come si ricorderà, il 15 novembre del 2019 tutti i partiti presenti in parlamento (con l’eccezione del Partito Comunista e degli Umanisti), avevano firmato un accordo-trappola per pacificare le piazze, e per stabilire le “regole” del processo costituente. La prima “regola” è l’impossibilità di cambiare gli Accordi commerciali internazionali, che il Cile ha firmato con ben 26 Paesi e che rappresentano un’ipoteca sul futuro del Paese.

La seconda è la necessità di una maggioranza dei 2/3 dei costituenti per approvare i diversi articoli e porre fine all’eredità neoliberale della dittatura di Pinochet. Mentre la destra e la destra estrema si presentano con un’unica lista unitaria, l’opposizione si presenta con almeno 2 liste (una di centro-sinistra, una tra il PC ed il Frente Amplio) e circa 2000 “candidati indipendenti” che aumentano la frammentazione: un situazione che favorisce la destra, che quasi sicuramente sarà sovra-rappresentata nella Convenzione Costituente.

Dell’Ecuador abbiamo già scritto nei giorni scorsi http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2021/04/08/ecuador-al-ballottaggio/e, salvo colpi mano della destra dell’ultimo minuto, secondo i sondaggi più affidabili, il “binomio della speranza” Arauz-Rabascall (UNES lista 1) dotrebbe vincere il ballottaggio dell’11 aprile. Anche qui, le forze conservatrici ne hanno inventate di tutti i colori per non farli partecipare. Nonostante ciò, la pressione dal basso e quella internazionale fino ad oggi sono riuscite a frenare le spinte reazionarie e golpiste.

Contro il Venezuela bolivariano non si ferma l’offensiva di Washington e dell’Unione Europea per far cadere il governo Maduro, secondo il moderno copione della destabilizzazione. Alle criminali e genocide “misure coeritive unilaterali” (mal chiamate “sanzioni”), nelle ultime settimane si sono aggiunti attacchi armati alla frontiera con la Colombia con azioni combinate di militari e formazioni armate colombiane contro la popolazione e le istituzioni del Venezuela.

In Paraguay, l’egemonia dell’oligarchia paraguaiana da più di 70 anni attraverso il Partito Colorado, è entrata in una crisi profonda quando la corruzione strutturale si è squadernata durante la pandemia. Non solo, ma anche quando Abdo Benítez ha dato priorità agli affari privati rispetto alla salute pubblica. Non ci sono medicine o forniture mediche negli ospedali pubblici, che viceversa sono disponibili nelle poche catene farmaceutiche private, e la principale è legata a Horacio Cartes, il principale sostenitore di Abdo. Di fronte alla drammatica mancanza di medicine, la gente è posta di fronte al dilemma tra lasciar morire i suoi cari, o vendere i propri beni ed entrare nella miseria più brutale. Questa totale impotenza ha finito per infuriare la popolazione che è scesa in piazza per chiedere le dimissioni di Abdo Benítez e Hugo Velázquez, (presidente e vicepresidente), così come di Horacio Cartes, il vero capo del Paese. Per ora, la mobilitazione non sembra fermarsi, e il Paese potrebbe riservare soprese nel prossimo periodo.

Il Brasile, sotto la presidenza del negazionista Jair Bolsonaro, sta vivendo una tragedia umanitaria e una dura crisi economica nel contesto della pandemia globale. Pochi Paesi hanno visto una gestione governativa più disastrosa, con un abbandono totale della popolazione. I primi mesi del 2021 sono stati drammatici. Il governo lavora contro il suo popolo e la crisi nell’approvigionamento di vaccini ha mostrato un comportamento criminale e le caratteristiche della necropolitica. Il governo si è dimostrato incapace di promuovere la ripresa dell’attività economica e di evitare la deindustrializzazione del Paese. Oggi il Brasile ha il più grande deficit pubblico della sua storia, con dati omessi dal governo ed è certo che il primo trimestre si concluderà con un PIL negativo. Il degrado sanitario, sociale ed economico avviene in uno scenario politico di grande incertezza sul futuro.

Continuano le minacce costanti alla democrazia, con l’incoraggiamento da parte del governo alle Forze Armate ad assumere posizioni politiche, mentre aumenta la presenza dei militari nel governo e nelle istituzioni. Bolsonaro continua a sostenere imperterrito che sono le FFAA a decidere se ci sarà o meno democrazia. L’ennesimo rimpasto di governo, con il cambio di 6 ministri (quello della sanità è il quarto dell’era Bolsonaro) e le dimissioni dei capi delle Forze Armate come protesta per la sostituzione del Ministro della difesa, aumentano l’incertezza politica. La recente assoluzione di Lula è una speranza per un cambio che potrebbe arrivare nel 2022 in caso di unità delle forze popolari, dei movimenti sociali e partiti della sinistra, con un programma congiunto di alternativa.

In Argentina la gestione del governo nazionale di Alberto Fernandez in relazione alla pandemia sta lentamente costruendo una risposta. I vaccini stanno arrivando col contagocce e il piano di vaccinazione ancora non riesce a coprire una percentuale significativa della popolazione. Ciò ha provocato la ripresa di iniziativa della destra politica che aveva criticato il governo per aver negoziato l’acquisto dei vaccini con la Russia e la Cina. I poteri forti sono ben strutturati e operano apertamente contro il governo di Alberto Fernandez. L’oligarchia terriera, l’Associazione degli Imprenditori Argentini (AEA), i grandi media e un’opposizione spietata che non dà tregua al governo, aumentano le loro azioni cercando di destabilizzarlo. La destra insiste con le strategie di Lawfare contro Cristina Fernandez, anche se la falsità e strumentalità delle accuse sono sempre più evidenti. Sul versante economico, al momento il dollaro è abbastanza stabile, ma non si vedono prospettive per una ripresa durante quest’anno.

In Uruguay la restaurazione del governo neoliberale e conservatore di Luis Lacalle Pou sta affrontando la raccolta di firme contro la Legge di Urgente Considerazione (LUC). Il Frente Amplio, il Pit-Cnt (Centrale sindacale unica) ed il movimento popolare organizzato nella cosiddetta “Intersociale” hanno l’obiettivo di raggiungere 750.000 firme per arrivare ad un plebiscito su ben 135 articoli della LUC, il “cuore” della restaurazione neoliberale. Oggi l’Uruguay ha 100 mila poveri in più, di cui circa la metà sono bambini e bambine; circa 80 mila persone usufruiscono della scarsa indennità di disoccupazione; sono stati persi 60 mila posti di lavoro ed hanno chiuso 10 mila aziende; migliaia di persone rischiano di essere sfrattate perché non possono pagare l’affitto da quando hanno perso il lavoro. E migliaia si sfamano nelle mense dell’INDA (Istituto Nazionale dell’Alimentazione) e grazie alle “pentole popolari” auto-organizzate (296 solo a Montevideo). Il Paese è passato dall’essere un esempio mondiale contro la pandemia (in gran parte grazie alla capacità istituzionale recuperata durante i governi del Frente Amplio) ad essere quello con più casi pro-capite di Covid nel continente, e quello che ha investito meno in politiche pubbliche per mitigare la pandemia. Il Frente Amplio propone di affrontare gli impatti sociali ed economici della pandemia, visto l’aumento della povertà, della disuguaglianza, della disoccupazione e una diminuzione del reddito di lavoratori e pensionati.

In Perù, a pochi giorni dal primo turno delle elezioni dell’11 aprile, è grande l’incertezza sui risultati. Almeno cinque candidati alla presidenza sono tecnicamente in parità nella corsa per il ballottaggio. Lungi dal mostrare una semplificazione nel quadro politico, siamo quindi di fronte alle “elezioni più frammentate della storia” e le tendenze di voto continueranno a spostarsi fino all’ultimo minuto. In particolare, se si tiene conto che il 39% della popolazione decide il suo voto nell’ultima settimana. E nonostante l’86% dica che “andrà sicuramente a votare”, è ancora incerta la partecipazione dei gruppi più vulnerabili al COVID-19. C’è qundi molto spazio per le sorprese, dato che molti candidati non superano il 15%. Prova ne è il fatto che, durante gli ultimi mesi, diversi candidati hanno avuto una crescita inaspettata, ma non sono stati in grado di sostenerla nel tempo. Ma indipendentemente da chi vincerà la presidenza, in termini di in/stabilità politica tutto indica che i prossimi cinque anni saranno molto simili ai precedenti e i rischi di ingovernabilità rimarranno alti. In particolare, il discredito delle istituzioni ed il loro deterioramento negli ultimi anni (con enfasi nel mancato equilibrio di potere tra l’esecutivo e il legislativo) non è stato superato. Anche se era già a livelli record, i sondaggi proiettano un Parlamento ancora più frammentato e più di 10 partiti potrebbero superare lo sbarramento elettorale. Ciò renderà difficile stabilire alleanze durature e, visto il deterioramento del quadro istituzionale e la mancanza di credibilità dei partiti politici, persisterà anche lo scontro tra il potere esecutivo e quello legislativo.

E L’INTEGRAZIONE REGIONALE ?

In termini di integrazione regionale non subordinata agli Stati Uniti, rimane qualcosa del passato recente e dei primi 15 anni di questo secolo ? In quegli anni si era creato un fronte di Paesi latino-americani che aveva saputo contrastare efficacemente la prepotenza e la pretesa statunitense di imporre l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), un mercato subalterno a Washington, dal Canada fino alla “Terra del fuoco”. Dopo la sconfitta militare in Vietnam, sul versante politico è stata probabilmente la sconfitta più dura che ha dovuto ingoiare la Casabianca. L’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), da sempre “ministero delle colonie” degli Stati Uniti, perdeva il ruolo centrale nella definizione delle politiche continentali ed alcuni Paesi inizavano a pensare di abbandonarla definitivamente. A partire dal 2015, con la segreteria di Luis Almagro, la OEA ha aumentato l’ingerenza sfacciata nella politica interna dei vari Paesi, in aperto contrasto con gli obiettivi ufficiali della OEA: cercare il consenso, fomentare il dialogo inter-americano e la soluzione pacifica delle controversie nell’emisfero. In ordine di tempo, l’ultima intromissione di Luis Almagro, è stata quella contro lo Stato Plurinazionale della Bolivia. Almagro ha proposto, tra l’altro, di creare una commissione internazionale per indagare sulle presunte accuse di corruzione e per riformare il sistema giudiziario. Dichiarazioni che vanno ben oltre la sua missione di segretario generale dell’organismo regionale e ignorano volutamente il funzionamento del sistema interamericano. Non è un caso che siano in perfetta sintonia con le recenti dichiarazioni di Antony Blinken, Segretario di Stato degli Stati Uniti, che ignorano il recupero della democrazia e dell’istituzionalità e intervegono negli affari interni del popolo boliviano. Gli anni passati, sono stati gli anni dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba), della Comunità degli Stati latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur), del Banco del Sur, etc.

Lo stesso Mercosur viveva una nuova fase, e iniziava a cambiare pelle con l’entrata della Bolivia e del Venezuela. Oggi il Mercosur compie 30 anni. Nei primi anni del XXI° secolo, i governi di sinistra e progressisti hanno provato a cambiare la concezione neoliberale della sua origine, cercando inoltre di associare il blocco con l’integrazione latinoamericana e caraibica e la nascita della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC). Oltre a rafforzare la parte “sociale” del blocco, quei governi avevano rivalutato il ruolo dello Stato come “agente di sviluppo” attraverso le grandi aziende pubbliche, combattendo le “asimmetrie” e proponendo un completamento dell’infrastruttura regionale, Viceversa, oggi assistiamo a una svolta mercantilista e neoliberale nel blocco, che rappresenta una ritorno agli anni ’90. In particolare, con la possibile firma di un Trattato di Libero Commercio con la Unione Europea, per cui fanno pressione le lobby delle multinazionali “europee”. Lungi dal volersi isolare, le proposte delle forze più avanzate per rafforzare il Mercosur sono quelle di dare priorità innanzitutto all’inserimento internazionale nella subregione, scommettere sulla complementarità economica e promuovere negoziati commerciali come blocco e non separatamente. Nell’attuale contesto di disputa, è necessario recuperare le notevoli esperienze dei governi progressisti, nazionalisti, popolari e rivoluzionari che hanno governato la maggior parte del sub-continente nei primi 15 anni del XXI° secolo. Studiare le loro vittorie e far conoscere le loro conquiste, ma anche studiare a fondo i loro errori e le loro debolezze e fare una profonda autocritica sui fattori che hanno permesso il successo della controffensiva e in un così breve lasso di tempo. Oggi, l’offensiva dell’imperialismo verso una pervasiva “restaurazione conservatrice” si scontra con la resistenza popolare e di un arcobaleno di organizzazioni sociali che è necessario unificare. Imparare dai propri errori è l’unica maniera di non ripeterli e di poter avanzare. Questo articolo è stato pubblicato in America Latina, Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Mercosur, Paraguay, Perù, Stati UNITI, Uruguay, Venezuela da Marco Consolo . Aggiungi il permalink ai segnalibri.