LA BUSSOLA BOLIVIANA – DI MARCO CONSOLO

Trionfare nella vita non è vincere, ma rialzarsi ogni volta che si cade… (José Mujica)

di Marco Consolo Bolivia, la figlia prediletta del Libertador Simon Bolivar,

ha appena dato una lezione esemplare al mondo. Con una alta partecipazione popolare (87%), la bella e schiacciante vittoria nelle urne del Movimento al Socialismo – Strumento Politico per la Sovranità del popolo (MAS-IPSP) con il 54,5% segna una secca sconfitta dei piani statunitensi nella regione, della strategia di utilizzo della screditata Organizzazione degli Stati Americani (OEA) come ariete contro i governi che non seguono i diktat a “stelle e strisce”, del Gruppo di Lima e dei latifondi mediatici globali. Ed è quindi di importanza strategica per la Bolivia, per l’America Latina e per il mondo intero. Provo a spiegarmi. Qualche giorno fa, correva l’anniversario dell’ennesimo intervento militare statunitense. Il 19 ottobre del 1983, i marines sbarcavano nella piccola isola di Grenada, ed assassinavano il Presidente costituzionale Maurice Bishop. In quegli anni, era ancora viva la memoria (e la pratica) della lunga stagione dei colpi di Stato organizzati dalle ambasciate statunitensi in tutto il continente, con la complicità delle oligarchie “vende-patria” locali. In Nicaragua, il governo Sandinista iniziava a dover affrontare militarmente i “contras” (finanziati, addestrati ed armati dalla Casabianca) che seminavano morte e distruzione. In El Salvador, Guatemala, e Colombia le forze guerrigliere erano in piena attività. Dopo la stagione dei golpe cruenti, degli orrori delle dittature civico-militari, e del famigerato Plan Condor, il continente è passato attraverso successive democra-ture (nè, nè) con l’applicazione un po’ meno brutale, “umanizzata”, delle stesse ricette neo-liberiste. Quelle politiche anti-popolari provocarono la resistenza dal basso, una lunga fase di accumulazione politico-sociale ed infine una contro-offensiva che fece vincere diverse elezioni ed accedere la sinistra al governo in molti Paesi. La prima vittoria fu quella di Chavez in Venezuela, seguita a ruota da molti altri (Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador, Uruguay, etc). Per rispondere all’ondata “progressista”, iniziò la contro-offensiva imperialista in tutto il continente, ma questa volta con modalità diverse. A Washington fu ribattezzato “soft power”, “smart power”, ma tradotto in italiano si trattava di riconquistare egemonia e controllo nel “cortile di casa” con golpe di nuovo tipo: golpe istituzionali, parlamentari, mediatici, con la guerra giudiziaria (Lawfare) e una guerra multi-dimensionale. Iniziarono proprio in Bolivia, nel 2008, con il tentativo fallito di “balcanizzazione” e secessione delle regioni ricche della “media-luna”. Poi in Honduras, in Ecuador (senza riuscirci), in Paraguay ed in Brasile con Dilma Rousseff. L’ultimo golpe riuscito, in ordine di tempo, è stato quello in Bolivia del 2019, quando il governo Morales, nonostante la limpida vittoria elettorale, fu accusato strumentalmente di brogli e spodestato. Il golpe, organizzato a Washington, ebbe l’appoggio delle multinazionali dell’energia (a partire dall’”ecologico” Elon Musk e dalla sua Tesla) e dell’ Organizzazione degli Stati Americani (OEA) con il suo etero-diretto Segretario Luis Almagro, vero e proprio coordinator, per conto terzi, delle destre latino-americane. Oltre ad una repressione spietata, in questi mesi i golpisti hanno fatto l’impossibile per disfarsi di Evo Morales e del Movimento al Socialismo. Hanno tentato di illegalizzare il partito e i suoi principali candidati, tra cui lo stesso Evo, costretto all’esilio in Argentina e impossibilitato a presentarsi al Senato. Hanno assassinato, denunciato ed incarcerato dirigenti sociali e politici (alcuni ancora rifugiati in ambasciate), chiuso le radio comunitarie filo-MAS, minacciato ed arrestato i giornalisti, etc.

UN GOLPE INEFFICACE

Ma quel sanguinoso colpo di Stato dello scorso ottobre non è servito a mettere a tacere la volontà di cambiamento del popolo boliviano. Né sono serviti gli omicidi, la militarizzazione del Paese, la repressione e le minacce. Non è servito neanche il viaggio del Ministro degli Interni golpista, Arturo Murillo, che a fine Settembre è andato alla sede dell’OEA e al Dipartimento di Stato di Mike Pompeo, per prendere ordini e ricevere l’appoggio necessario per impedire al MAS di tornare al governo. Non è servita la grancassa dei latifondi mediatici internazionali che, senza arrossire di vergogna, hanno appoggiato sfacciatamente i golpisti con l’appoggio del bombardamento nelle “reti sociali”. Il popolo boliviano ha parlato forte e chiaro. La Bolivia ha iniziato a recuperare la democrazia, sparigliando le carte truccate della Casabianca.  Contro la geopolitica “dell’odio e della paura”, dall’opposizione quel blocco sociale campesino-operaio-popolare ha resistito al golpe, si è riorganizzato dal basso ed è riuscito a vincere il braccio di ferro politico-elettorale. E lo ha potuto fare grazie alla “densità sociale” di un’organizzazione capillare, anche nelle estese zone rurali del Paese. In quel blocco sociale hanno giocato un ruolo chiave i popoli originari, (mal chiamati “indigeni”) vera e propria spina dorsale del MAS. Hanno resistito con dignità e orgoglio, coscienza, ed organizzazione come risultato dell’accumulazione politica di anni di lotte. La lezione è stata chiara per i masisti: si può perdere il governo, ma se c’è un partito che ha radici reali nella popolazione, lo si può recuperare.

LA CAMPAGNA DELLE DESTRE A FAVORE DEL MAS

Bisogna riconoscere che i golpisti, nelle loro varie articolazioni, sbagliando strategia politica hanno aiutato molto il MAS: con una gestione economica disastrosa, scandali di corruzione ai più alti livelli, una repressione brutale ed indiscriminata che ha colpito anche settori non direttamente vincolati al MAS e, negli ultimi mesi, una drammatica incapacità di gestione della pandemia del Covid-19 che ha tragicamente colpito il Paese. Più le destre golpiste rinviavano la convocazione delle elezioni, più le loro opzioni si indebolivano grazie alla corruzione dilagante, alla loro politica suprematista, al linguaggio razzista e di odio verso i popoli nativi, i loro simboli e la loro cultura. Parliamo di un Paese in cui la minoranza bianca è ampiamente minoritaria, ma che sin dai tempi della Colonia, detiene la ricchezza e le leve del potere. In questo contesto, la società boliviana tutta (compresi i settori di ceto medio che avevano voltato le spalle al MAS) ha avuto il tempo di mettere al confronto i 14 anni di stabilità di un processo che ha cambiato il volto della Bolivia. Un progetto di Paese con al centro i bisogni della maggioranza esclusa, che ha nazionalizzato le risorse naturali, iniziato ad industrializzare il litio, ridistribuito ricchezza e portato i popoli originari ad occupare il Palacio Quemado ridando loro la dignità, dopo secoli di sottomissione ed abusi. Giorno dopo giorno, si comparava il governo dei golpisti con quelli del MAS. Per finire, la strategia del MAS ha usato poco le reti “sociali” e molto il “porta a porta”, per parlare dei problemi del presente, come crisi sanitaria, disoccupazione, riattivazione economica, etc., più in sintonia con parte del ceto medio impoverito che aveva smesso di votare per il MAS. 

TUTTE ROSE E FIORI ?

Naturalmente, come in tutti i veri processi di trasformazione, ci sono state luci ed ombre, contraddizioni ed errori, oggetto di critiche feroci da parte di alcuni settori, che oggi tacciono con un silenzio assordante, appellandosi ad una “neutralità” che fa acqua da tutte le parti. Ma al di là degli attacchi strumentali, è evidente la necessità di riflessioni profonde e auto-critiche su ciò che sono stati i governi del MAS, per non tornare a commettere gli stessi errori, recuperare il consenso eroso ed ampliare la partecipazione popolare democratica. La nuova leva di dirigenti dichiara di voler riorganizzare il MAS che, negli ultimi anni di Evo, era stato sussunto nel governo, perdendo un profilo autonomo. In queste elezioni, Luis Arce ha superato il 47% ottenuto dall’ex Presidente nelle elezioni del 2019 e ha eguagliato lo storico voto ottenuto da Morales nel 2005 (53%), quando è diventato il primo esponente dei popoli originari a vincere la presidenza e ha dato inizio al “proceso de cambio”. I voti ottenuti garantirebbero anche la maggioranza nei due rami del parlamento. Arce, per molti anni Ministro dell’ Economia dei governi di Evo, nei suoi primi discorsi da Presidente ha sottolineato il suo impegno a “…lavorare per tutti i boliviani, dando vita ad un governo di unità…. Queste elezioni stanno dando certezza al popolo boliviano. Ci sarà un rilancio delle attività economiche che beneficeranno la micro, piccola, media e grande impresa, e anche il settore pubblico e tutte le famiglie boliviane che hanno vissuto per undici mesi nell’ incertezza”. Anche il vice-Presidente eletto, David Choquehuanca, è persona nota. Dirigente sindacale della Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia (CSUTCB), aymara come Evo Morales, è stato Ministro degli Esteri dei governi di Evo dal 2006 al 2017. Fra il 2017 e il 2019 è stato Segretario Generale dell’Alba-TCP (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América- Tratado Comercial de los pueblos) un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica nato in contrapposizione alla strategia USA dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), in seguito ridisegnata. E a proposito di integrazione continentale, la Bolivia ha annunciato la ripresa dei rapporti diplomatici con Cuba e Venezuela. Potrebbe tornare nell’ALBA, provare a rivitalizzare le moribonde UNASUR e CELAC e creare un asse che includa oltre ai Paesi dell’ALBA anche Messico e Argentina, sminuendo il peso specifico della stessa OEA.

E DA DOMANI ?

La parte più difficile viene ora ed il nuovo governo ha molte sfide davanti a sé. Foto: http://www.farodiroma.it/ Quest’anno di crisi ha alimentato vecchie e profonde ferite e fratture nella società boliviana a partire dal razzismo e la lotta tra le regioni, in particolare tra la ricca “mezza-luna” all’Oriente e l’altopiano e l’occidente dei popoli nativi. Sono ferite che dovranno lentamente cicatrizzarsi. La priorità è fare fronte alla pandemia e rimettere in sesto l’economia, messa in ginocchio dai golpisti, e poter così soddisfare i bisogni di base, salute e lavoro innanzitutto. In secondo luogo, la dittatura ha violato i diritti umani in tutte le aree possibili; salute, integrità fisica, accesso al lavoro, istruzione, diritti civili e politici. Ripristinarli è un compito non facile, ma improcastinabile. Per non parlare della necessità di giustizia per gli assassinati, i feriti, e i prigionieri politici, per tentare di sanare le ferite provocate dal governo de facto. Importantissima è la lotta alla criminalità organizzata ed al narcotraffico, cresciuti al riparo dei golpisti, che corrompe e destabilizza in diverse zone del Paese. Sicuramente, uno dei temi più sensibili e difficili sarà il rapporto con le FF.AA. e la polizia, che hanno avuto un ruolo importante prima nel tradimento al governo costituzionale, e poi nella repressione post-golpe. L’accertamento delle responsabilità, depurazione e castigo sono conditio sine qua non per la pacificazione. Chi governa a La Paz dovrà poi mettersi d’accordo con i Cambas di Santa Cruz e soprattutto con il suo settore privato. Santa Cruz è il motore dell’economia boliviana del futuro, per l’energia, per l’agrobusiness, per attrarre investimenti. Luis Fernando Camacho, rappresentante dell’ultra-destra, non è riuscito a sfondare in nessun dipartimento, ma si è trincerato a Santa Cruz e sarà il probabile sostituto del governatore Costa.

AMERICA LATINA ALLA RISCOSSA ?

Il vento di riscossa che viene dalla Bolivia avrà quindi un forte impatto in tutto il continente e può condizionare positivamente i prossimi mesi di lotte sociali ed anche le importanti scadenze elettorali. Andiamo con ordine. E’ sotto gli occhi di tutti che le destre al governo, lungi dal risolvere i probemi sociali, li aggravano, in America Latina come in Europa. Le ricette avvelenate del FMI e della Banca Mondiale peggiorano le contraddizioni sociali e non sono certo in grado di garantire stabilità, pace sociale, agibilità democratica. Al contrario, puntualmente dove governano le destre, prima o poi sale alla ribalta la ribellione popolare contro le politiche anti-popolari neo-liberiste. La realtà ha la testa dura. In queste settimane, perfino il piccolo Costa Rica (Paese che non ha una grande tradizione di mobilitazioni di massa) è sceso in strada contro le misure dettate dal FMI al governo locale, costringendo il governo a fare marcia indietro su diversi punti.

IN CILE il prossimo 25 ottobre ci sarà la seconda spallata ai governi delle destre. Sarà una data storica, con un referendum che potrebbe aprire la strada al cambio della Costituzione di Pinochet, appena ritoccata dai governi di centro-sinistra, ma rimasta intatta nei fondamentali. Come si ricorderà, dal 18 ottobre 2019 il Paese ha vissuto una enorme mobilitazione sociale con una brutale repressione da parte del governo Piñera. Senza la mobilitazione di massa, sospesa solo temporaneamente per la pandemia di Covid 19, non si sarebbe mai ottenuto questa importante scadenza. Domenica scorsa, nell’anniversario dell’inizio delle proteste, una grande manifestazione ha segnato il ritorno della ribellione sociale nelle piazze di Santiago. E purtroppo anche della repressione, con un saldo tragico di una persona uccisa dalle forze di polizia, 580 arresti e un giovane manifestante buttato giù da un ponte dai Carabineros (avete letto bene) qualche giorno prima, che fortunatamente non è deceduto. Ma il popolo cileno non pare disposto a tornare indietro. La vittoria dell’opzione “Apruebo” è scontata e diversi personaggi della destra sono saliti sul carro per non rimanere isolati. Il vento boliviano non può che aiutare da una parte l’opzione per il cambio della Carta Magna, e dall’altra il voto per una “Convenzione Costituzionale”, con rappresentanti interamente eletti dal voto popolare.

IN COLOMBIA, da settimane la popolazione è scesa in piazza contro il governo Duque, a difesa delle condizioni di vita e di lavoro, contro il non rispetto dell’Accordo di pace con la guerriglia delle FARC-EP da parte del governo, contro gli omicidi di ex-guerriglieri e dirigenti sociali, e la repressione indiscriminata. In queste ore è arrivata nella capitale Bogotà la “Minga”, una mobilitazione “indigena e popolare” che, dopo aver percorso centinaia di chilometri, arriva nella capitale accolta dai movimenti sociali urbani. E il 21 ottobre c’è stato uno sciopero generale in tutto il Paese “per la vita, la democrazia, la pace, e la richiesta di misure economiche di emergenza”.

IN BRASILE, il 15 novembre si voterà per le amministrative in 5000 municipi, e la sinistra cerca di riorganizzarsi e mobilitare le piazze per riprendere in mano le città più importanti, a partire da Sao Paulo, Rio de Janeiro e Porto Alegre. Dalla vittoria di Bolsonaro, infatti è mancata una forte ed unitaria mobilitazione di piazza che potesse mettere all’angolo il governo. Bolsonaro ne ha tratto vantaggio, e nonostante la drammatica situazione sanitaria dovuta alla pessima gestione (e anche grazie ad elemosine puntuali), il mini-Trump negazionista appare ancora saldo in sella, con l’appoggio del capitale finanziario, delle FF.AA., delle potenti sette pentecostali e dei latifondisti dell’agro-business.

IN VENEZUELA, il prossimo 6 dicembre si vota per le elezioni politiche in una scadenza decisiva per battere l’opposizione e recuperare la maggioranza del parlamento. Nonostante i gravi danni economici e sociali causati dal bloqueo statunitense e della UE, il Venezuela bolivariano resiste grazie alla coscienza, alla mobilitazione popolare costante, all’unione civico-militare che ne garantisce la difesa ed alla solidarietà internazionale. IN ECUADOR, dopo una durissima battaglia legale, e anche grazie alla mobilitazione nelle piazze, l’organizzazione politica che fa capo all’ex-Presidente progressista Rafael Correa potrà correre per le elezioni presidenziali del prossimo anno. Anche qui, la “guerra giudiziaria” ha prodotto l’esilio di Correa (con più di 20 processi farsa a suo carico) e messo in carcere, con accuse inconsistenti, diversi dirigenti della Revoluciòn Ciudadana, a partire dal Vice-Presidente Jorge Glas. Come si ricorderà, prima della pandemia, vi erano state imponenti mobilitazioni popolari, sospese anche per il virus. A Quito, nelle settimane scorse, sono stati gli studenti a riguadagnare le piazza, dando una scossa al Paese intero. E a febbraio 2021 ci saranno elezioni presidenziali e politiche. E l’onda lunga potrebbe coinvolgere anche il Perù, come incentivo per l’unità a sinistra, per disputare le presidenziali nell’aprile dell’anno venturo. Difficile prevedere se la vittoria del MAS avrà qualche incidenza sulle incombenti elezioni statunitensi, dove però molti democratici già attaccano Trump per i suoi fallimenti nei tentativi di “regime change”, rovesciando i governi scomodi.

L’AMERICA LATINA RIPRENDE IL CAMMINO DELLA CONTRO-OFFENSIVA POPOLARE

Non c’è dubbio, però, che lo scenario latinoamericano è complicato per tutti. Per i settori progressisti, visto che a differenza degli anni passati in cui erano maggioritari nei governi del continente, oggi la loro presenza è di gran lunga più debole. Ma anche le forze conservatrici hanno un futuro complicato. I loro think-tank strategici hanno un progetto globale (basta vedere le manifestazioni contro la “dittatura sanitaria” e “per la libertà” in diversi Paesi) e cercano di impedire l’avvento dei governi progressisti o la stabilità dei processi di trasformazione da loro guidati. Ma non sono in grado di offrire nulla di nuovo alle loro società, in un momento in cui lo stesso FMI e la Banca mondiale si spingono a consigliare tasse sui più ricchi per ridurre la povertà. Il progetto delle classi dominanti e delle forze conservatrici non riesce più a incantare i popoli per dar loro speranza. La narrazione neo-liberista è in crisi e l’egemonia delle classi dominanti si concretizza grazie al restringimento degli spazi democratici, all’odio, alla paura manipolata ad hoc dai grandi media e tramite le “reti sociali”. Viceversa, le diverse forze dei movimenti, delle sinistre plurali (nazionaliste, progressiste, rivoluzionarie), in base alla loro esperienza di opposizione e di governo, hanno ancora un capitale politico che permette loro di essere credibili e poter aspirare a guidare i diversi Paesi, nonostante gli errori commessi. Una scommessa per i sostenitori del “socialismo del 21° secolo”. Quando tutto sembra più difficile, un vecchio proverbio aymara ci ricorda che “Qhiph nayr uñtasaw sarnaqaña”: “Viviamo guardando il passato per vivere il presente e proiettare il futuro”. L’America Latina riprende il cammino della contro-offensiva popolare.

FONTE: http://marcoconsolo.altervista.org/la-bussola-boliviana