Una folla di volti piangenti, affranti, con passo mesto, attraversava le vie del Paese, a seguito del feretro coperto dalla bandiera rossa, cantando l’inno che aveva accompagnato l’esistenza del “Compagno Vittorio”, l’uomo dalla cravatta rossa, che aveva combattuto al fronte come Partigiano, che aveva cercato di divulgare le idee del comunismo, che come Cristo, forse per il suo volto ascetico, veniva chiamato da tutti in paese “u Signiruzzu”. Alla famiglia nelle sue ultime volontà, ai compagni che avevano condiviso le sue idee, lotte, aspirazioni, conquiste, aveva sempre chiesto di essere accompagnato, nel suo ultimo cammino, con le note de “l’Internazionale”.

Solo pochi paesani non seguirono il “compagno”, ma rispettosamente e quale estremo saluto, si levarono la “coppola” in segno di ossequio, di rispetto per l’uomo e le sue idee. Il “Partito”, presente al completo, nelle sue massime espressioni regionali, provinciali, locali, si rendeva conto di aver perso il proprio “leader”, l’uomo dell’occupazione delle terre, che con la sua abnegazione aveva tenuto aperta la sezione del Partito Comunista frequentata da tutti: braccianti, coltivatori diretti, ma anche insegnanti, dottori che chiedevano ed ottenevano informazioni inerenti l’attività agricola.

Tutti salutavano l’uomo che era stato al servizio del Partito ed utile alla cittadinanza e che, pur sapendo a mala pena scrivere e far di conto, compilava per tutti le domande del contributo; degli assegni familiari; dell’invalidità. Effettivamente leader lo era sempre stato: quando si parlava di comunisti, l’associazione d’idee era immediata: Vittorio Geraci.

Si, aveva carisma ed era un uomo giusto, aperto al dialogo, pronto al confronto. Tutti lo conoscevano: i bambini accorrevano a lui che aveva sempre una caramella per loro; con tutti scherzava, raccontava della sua vita, della sua mamma, che per dar da mangiare ai figli neonati, masticava loro il cibo e glielo porgeva in bocca; di quando bambino era andato a lavorare da un “padrone” ed alla richiesta di sapere cosa fosse la bevanda nera che chiamava caffè e diffondeva quella fragranza paradisiaca, costui gliene aveva fatto assaggiare un sorso che sapeva solo d’amaro, quasi a volergli dire: non è roba per te“, seguitando a bere indisturbato. Il bambino aveva però capito, dal compiacimento con il quale il padrone centellinata la bevanda che, se anche nella sua tazza fosse stata aggiunto un pizzico di quella polverina bianca che il padrone aveva versato furtivamente nella sua – zucchero lo chiamavano – sarebbe diventata proprio buona.

Giurò così che prima o poi anche lui l’avrebbe bevuta con lo zucchero e fatto sì che a nessun bimbo fosse consentito di essere denigrato e maltrattato perché povero. Da ragazzo così, al richiamo della dottrina comunista, dell’uguaglianza, della libertà, della riscossa, andò sui monti a fare il Partigiano.

“Comandante Palermo” lo chiamavano, perché siciliano e le sue gesta, le sue lotte risuonavano da monte a monte; tutti gli davano ospitalità, viveri da portare ai suoi compagni di lotta; a tutti aveva qualcosa da insegnare ed alla fine dei suoi racconti, soleva dire: “parabola significa”. Era altèro il compagno Vittorio; fiero con la sua cravatta rossa; sobrio e dignitoso nel suo completo grigio-scuro; autorevole con la sua capigliatura bianca.

Correva per ogni dove, verso chiunque lo chiamasse, cercando sempre però, di arrivare in orario a casa, da “Sarina”, la donna della sua vita, che affettuosamente e con adorazione chiamava “cuscina”.

 

Aveva una “lambretta” a tre ruote ed all’alba si recava in campagna a raccogliere le arance, anch’esse rosse, e poi le olive insieme a tutta la sua famiglia; la sera, poi ritornato a casa e smessi i panni di fatica, prendeva il megafono e, fermandosi ad ogni angolo di strada, bandizzava le riunioni che si sarebbero svolte all’Alleanza Contadini”; la scadenza delle domande dei contributi per il grano; per i vitelli. E parlava dei patti agrari, degli enfiteusi, degli affitti. E poi il dispiacere di dover rimuovere una insegna gloriosa, per sostituirla con un’altra dal nome peraltro difficile: Concoltivatori.

Ma era un uomo dalle mille risorse ed anche quella volta superò ogni remora. E sempre presente e protagonista era nelle campagne elettorali. Presentava sempre una lista che annoverava contadini, braccianti, artigiani e veniva sempre eletto in consiglio comunale come rappresentante dell’opposizione.


L’Etna in attività eruttiva.

 

Eccolo sul balcone a comiziare; a parlare delle malefatte del Sindaco; dei consiglieri; dei guasti della mafia; delle strade di campagna dissestate; dell’acqua che mancava nelle case e nelle campagne. In un paese arroccato, democristiano di ferro, in cui i rappresentanti politici locali studiavano di notte come “fregare il popolo di giorno”, in cui costoro riuscivano a far cambiare idea con le buone o le cattive, con il pacco di pasta o l’assistenza economica anche ai finti bisognosi, anche ai pochi “voti sicuri”, di persone di fede, Vittorio riusciva ad essere eletto ed a guidare il popolo comunista.

Negli anni successivi, a seguito dell’ingresso nel partito del “compagno Santino”, eccoli comportarsi come Don Camillo e Peppone: l’uno bonariamente accusava l’altro di “salire” al Comune per la numerosa parentela; l’altro di “tirargli i voti” con il “ripasso” degli elettori. Erano però felici quando anch’io mi avvicinai al Partito; sentivano di aver raggiunto un traguardo; potevano finalmente dire che tra le file dei comunisti non c’erano solo analfabeti, c’erano anche i laureati; c’era la compagna Fina che cominciò insieme a loro a percorrere le strade del Paese, a bandizzare, a fare comizi; proseliti; a candidarsi ed essere eletta nelle fila del partito.

Era come se potessimo ripartirci i compiti: a lui l’agricoltura, a Santino gli artigiani ed a me le donne, i giovani, gli studenti, anche se negli anni successivi mi resi conto che a votarmi erano proprio le persone più insospettabili. E vennero poi gli anni in cui anche Cerda si svegliò; le nostre lotte diedero i loro frutti; cinque consiglieri vennero eletti e fu festa: si camminava in paese con l’orgoglio di esserci, di contare, di poter a buon diritto dire la nostra.

Illusione! Alla successiva tornata elettorale molti cedettero alle lusinghe degli avversari ed eccoci ancora in tre:.. .Vittorio, Santino ed io. Ricordo che quando si girava per le case in occasione delle campagne elettorali, Vittorio non si limitava a lasciare il fax-simile: si sedeva, chiedeva un po’ d’acqua, si informava sullo stato di salute, se era arrivato il contributo.

 

Raccontava la sua vita di partigiano; delle sue cinque figlie – “tutte comuniste, eh!, tutte hanno preso dal padre”, diceva con orgoglio; del nipotino al quale aveva insegnato a salutare con il pugno chiuso – votato al comunismo, quindi!. Fuori affettuosamente lo rimproveravamo perché non aveva chiesto e spiegato le modalità del voto, e lui immancabilmente rispondeva: non ce n’è bisogno, la gente sa come votare; abbiamo seminato e quindi raccoglieremo; abbiamo lavorato per cinque anni e questa volta ce la faremo! Ed immancabilmente arrivava la delusione: 2-3 consiglieri assegnati alla nostra lista; gli altri 17-18 a quelli di sempre....

I nostri venivano chiamati i voti dello “zoccolo duro”, degli irriducibili.


Etna: lapilli e fuoco nella notte.

E noi 10 eravamo. Dopo alcuni giorni di rabbia, di scoraggiamento, quasi di rancore per chi non votandoci non ci aveva fornito i mezzi per aiutarlo, tornavamo a lottare, a capire il “ricatto” subito dalla gente; a sperare che prima o poi si sarebbero scrollati dal giogo.

Il compagno Vittorio mi incoraggiava ad andare avanti, d’altronde adesso a lottare eravamo più di uno e la prepotenza prima o poi sarebbe stata sconfìtta.

E i giorni scorrevano; lui era un po’ stanco, ma sempre disponibile, pronto a venire incontro alle richieste di Marietta, Rosa, Pidda che sull’uscio di casa, al suo comparire là in fondo alla strada, con il giornale del partito che si affacciava dalla tasca esterna della sua giacca, ascoltava le richieste e notiziava loro sulle pratiche affidategli.

 

Passando, si soffermava e per tutti aveva una parola, un saluto. Si sedeva accanto al cerchio di persone che “annittavanu nò crivo u furmienti”, o sbucciavano le mandorle e raccontava, parlava, parlava, del compagno Lenin; di Berlinguer; della Russia; del Piemonte; e poi prendeva dalla tasca interna della sua giacca il portafoglio e tirava fuori quello che per lui era la cosa più preziosa: le sue tessere di partito: c’erano tutte; anche quando non c’era di che mangiare, i soldi per la tessera di partito dovevano esserci; dovevano trovarsi pure i soldi per pagare la sezione; per pagare la ditta Macaluso che trasportava con l’autobus i pochi volontari che si recavano a Palermo a sentire il Comizio di chiusura della campagna elettorale, magari denigrati da coloro che avrebbero poi usufruito di quelle lotte ed utilizzato le conquiste ottenute.
L’Etna e i suoi crateri.

 

E venne poi la delusione per la scissione del Partito; era come se ci avessero tolto la nostra identità, la nostra storia, le nostre radici. Alcuni compagni aderirono ad un partito più moderato (era più facile) e noi, “gli irriducibili” restammo nel partito che si chiamò Rifondazione”.

Quanto abbiamo pianto! Abbiamo vissuto quello strappo, quella lacerazione quasi come un tradimento; per gli altri era diventato anacronistico essere intransigenti; in noi rimaneva invece l’orgoglio di “essere rossi”.

A volte, scoraggiata, dicevo al compagno Vittorio: “lasciamo i compaesani alla loro sorte, tanto non ci vogliono, preferiscono dare il voto a chi maltratta, li denigra, li oltraggia.

 

Credono di non doverci niente. E lui, di fronte alla mia amarezza, rispondeva fiducioso: capiranno! Ed in effetti in questo consisteva la sua grandezza: nella forza irriducibile dei suoi ideali e nella sua capacità di trasmetterli.

Riflettendoci, in effetti un messaggio eravamo riusciti a trasmetterlo: tutto quello per cui noi lottavamo, spettava loro di diritto e pertanto “a noi“ non dovevano essere obbligati, tanto li avremmo aiutati in ogni caso, è nella nostra dottrina, nel nostro DNA. Capiranno dicevi; hanno capito solo quando ti hanno perso, compagno Vittorio, ne sono sicura; ma la perdita non è stata solo loro: è stata di tutti: è stata della sezione, è stata del popolo comunista, è stata di un’intera Comunità che è ormai alla deriva, senza guida, senza ideali, senza identità, senza cultura, senza più la sua gente che è andata quasi tutta via in cerca di lavoro: è tornata l’emigrazione.

 


Veduta dell’Etna dal satellite.

Il Paese adesso somiglia ad un deserto, langue, è senza vita. Quattro vecchietti siedono attorno ad un tavolino giocando a tressette o a briscola; due stanno appoggiati ai ferri che delimitano lo stradale e non c’è più a farli spazientire o sorridere il compagno Vittorio che scherzosamente infilava la carta delle caramelle nelle loro tasche per poi, ridendo, avviarsi insieme verso la sezione.

Cerda è ormai un terreno arido, alla rincorsa del soddisfacimento di beni immediati, materiali, spesso futili. Ci sarebbe ancora oggi bisogno di te, Vittorio, dei tuoi ideali, della tua fermezza, fuori e dentro il Partito. Ci sarebbe bisogno di “veri compagni” e chissà se tu, che credevi fermamente in Dio, non ci guardi da lassù per darci una mano ed indicarci il cammino.


L’Etna di notte.