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La Regione Siciliana ha celebrato nell’anno 2006 il 60° Anniversario dell’Autonomia Siciliana. L’inserto di questo numero è dedicato al libro pubblicato in occasione dell’importante ricorrenza nella collana Testi e studi sull’Autonomia Siciliana a cura dell’Associazione ex parlamentari dell’Assemblea Regionale Siciliana. Il libro propone il testo integrale, per molti versi ancora attuale, del Rapporto del Consiglio Straordinario di Stato convocato in Sicilia con decreto del 19.10.1860 “Su’ modi come conciliare la Unita’ Italiana cò bisogni della Sicilia”, che rappresentò il documento di base per l’elaborazione, da parte della Consulta regionale del 1945, del testo dell’attuale Statuto Siciliano. Della prefazione al testo storico, curata con la solita accuratezza e lucidità d’analisi dallo storico siciliano Francesco Renda, pubblichiamo nelle pagine seguenti ampi stralci. | |
La Regione siciliana celebra il 60° anniversario della sua nascita originata dall’approvazione e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del Decreto Legge 15 maggio 1946 n. 455 che dava efficacia allo Statuto d’autonomia nei termini esposti nel progetto di legge proposto dalla Consulta regionale siciliana. Nella storia italiana la Regione Sicilia dai Siciliani era stata proposta due volte, nel 1860 quando con plebiscito fu votata l’annessione incondizionata all’Italia, nel triennio 1943-46 quando l’Italia, uscita sconfitta dalla guerra voluta dal fascismo, sotto la guida di una nuova classe dirigente democratica e antifascista era intenta ad avviare la nuova rinascita nazionale. Nel 1966 per celebrare in modo solenne il 20° anniversario della Regione, fu disposta ad iniziativa dell’Assemblea regionale la ricerca e la pubblicazione degli atti che documentarono l’iter formativo della Regione siciliana dalle origini fino al suo riconoscimento come parte costituzionale dell’ordinamento statale italiano. Nel 2006, per celebrare il 60° anniversario, ad iniziativa dell’Associazione degli ex parlamentari regionali si procede alla pubblicazione degli atti che motivarono nel 1860 la formulazione della Regione siciliana da accogliere come parte dell’ordinamento costituzionale italiano allora definito dallo Statuto nel 1848 dal re Carlo Alberto concesso al Regno di Sardegna e nel 1860 dal re Vittorio Emanuele II esteso al Regno d’Italia. La presente Nota è redatta come prefazione illustrativa del Rapporto allora espresso dal Consiglio straordinario di Stato, istituito dal prodittatore Antonio Mordini. Ma per meglio rappresentare il perché nel 1860 il parere del Consiglio di Stato non fu accolto, mentre nel 1946 il progetto di legge sullo Statuto d’Autonomia fu integralmente assunto e riconosciuto come nuova parte dell’ordinamento costituzionale italiano, sembra necessario soffermarsi brevemente sulle diverse condizioni generali del Paese che nel 1860 portarono al rifiuto e nel 1944-45 all’accoglimento della Regione nei termini chiesti dai Siciliani. La proposta di Wiston Churchil A tal fine, prendiamo l’avvio dal provvedimento legislativo 15 maggio 1946 n. 455, atto conclusivo di un percorso istituzionale iniziato nel dicembre 1943, mentr’era in corso la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era occupata da due grandi eserciti stranieri in guerra tra loro e la Sicilia dopo lo sbarco del 10 luglio stava ancora soggetta al Governo Militare alleato, ma alla vigilia d’essere restituita all’amministrazione italiana. La restituzione era stata proposta da Wiston Churchil prima a Rooselvet e poi a Stalin, qualora il re d’Italia Vittorio Emanuele III al riparo a Brindisi dalla rabbia vendicatrce dei tedeschi, avesse dichiarato guerra alla Germania. In effetti, da re Vittorio Emanuele III dichiarata la guerra e dagli alleati l’Italia riconosciuta paese cobelligerante, dalla prima riunione dei ministri degli esteri statunitense, britannico e sovietico nell’ottobre 1943 avvenuta a Mosca fu deliberata l’immediata restituzione della Sicilia all’Italia e per rendere esecutiva la decisa restituzione, la Commissione alleata di controllo doveva riunirsi ad Algeri. La notizia non era ufficiale, ma in Sicilia se ne era avuta conoscenza in via ufficiosa e le reazioni dei politici isolani che si professavano unitari non erano affatto unanimi stante l’assoluta ignoranza di come si sarebbe effettuata la restituzione e di come l’avrebbe accolta il governo italiano allora residente a Bari. I separatisti, invece, non valutando le conseguenze del loro ardire si dichiararono avverso alla decisione alleata di restituire la Sicilia all’Italia e decisero di farvi opposizione in modo aperto. Violando perciò l’allora vigente divieto militare alleato di svolgere pubblica attività politica, il 9 dicembre 1943 Finocchiaro Aprile riunì a Palermo i capi del separatismo in seduta plenaria con la partecipazione dei rappresentanti di tutte le province siciliane. L’assemblea plenaria, la massima fino ad allora tenuta, aveva tutta l’aria di un colpo di mano teso a fermare la volontà alleata con la minaccia di una rivolta popolare. La stessa modalità del suo svolgimento sembrava preludere alla formazione unilaterale del governo siciliano provvisorio già da tempo richiesto e dalle autorità alleate mai concesso. In ogni caso dalla assemblea plenaria se ne avanzava nuovamente la richiesta e a sottoscriverla erano fra gli altri undici ex deputati del Parlamento italiano tutti di provata fede antifascista rappresentanti: Andrea Finocchiaro Aprile e Francesco Termini, la provincia di Palermo; Santi Rindone e Luigi La Rosa, la provincia di Catania; Giuseppe Faranda e Girolamo Stancanelli, la provincia di Messina; Salvatore Cigna, Giovanni Guarino Amelia e Antonio Parlapiano Velia, la provincia di Agngento; Edoardo Di Giovanni, la provincia di Siracusa; Mariano Costa la provincia di Catania. Per il Governo militare alleato di occupazione esistevano tutti i presupposti per procedere all’arresto dei capi del separatismo, ma considerazioni di opportunità politica sconsigliarono il ricorso alla forza e suggerirono la risposta sul piano della iniziativa politica. Il problema più urgente era evitare la minacciata reazione popolare alla immediata consegna della Sicilia al governo italiano. I separatisti facevano sapere che, qualora la gestione fosse affidata a un generale sabaudo, il ritomo italiano avrebbe suscitato nell’isola una violenta ribellione. La soluzione meno sgradita sarebbe stata la gestione civile, e meno sgradita ancora la gestione civile affidata a un separatista o ad una persona al separatismo non ostile. La decisione di Potetti Il come fronteggiare la minaccia separatista non era di facile scelta. Ma il colonnello Poletti non ebbe incertezze In senso politico egli era un democratico, da civile aveva seguito l’indirizzo del suo presidente F. Delano Rooselvet. Nella vita militare la condotta da seguire era autoritaria, e da capo degli affari civili del Governo militare alleato nei rapporti con i siciliani al comportamento autoritario del miliare aveva aggiunto l’arroganza del conquistatore. Perciò, come governatore degli affari civili in territorio occupato aveva raccolto più antipatie che consensi, e nella persistente negazione delle richieste separatiste non disgiunta da qualche cedimento si era trovato in completo isolamento, e quasi sempre mal giudicato. Anche la condotta tenuta nei riguardi della assemblea separatista diede luogo a malintesi, e nondimeno la scelta non poteva essere migliore. Invece di chiamare a consulto gli ufficiali alleati del governo militare alleato del quale era vice comandante, e senza darne comunicazione ufficiale convocò il consiglio dei nove prefetti siciliani che a conclusione dell’incontro deliberarono l’ordine del giorno nei termini che seguono: «I prefetti della Sicilia, riuniti sotto la presidenza del benemerito colonnello Poletti, riaffermano la loro unione al grande nome Italia. Reclamano piena autonomia amministrativa della Regione. Ritengono ancora che nella grave ora che il Paese attraversa, sia necessario riunire tutte le forze del Paese per affrettare la liberazione d’Italia, salvo ad ognuno la completa libertà di decisione sul problema istituzionale. Deliberano di fare appello alla concordia ed unione nella lotta contro il nemico tradizionale». Era la prima volta che un organo istituzionale come il Consiglio dei prefetti siciliani, convocato e presieduto dal Governatore degli affari civili del Governo militare alleato, insieme al ritorno della Sicilia all’Italia da parte del governo italiano reclamava la istituzione dell’autonomia regionale siciliana. La novità fu di tale originale portata che il ministro britannico Macmillan da Algeri si recò subito a Palermo e quindi ne riferì al ministero degli esteri di Londra esprimendo la propria sostanziale approvazione. «Ho visto il tenente colonnello Poletti il 7 gennaio nel suo ufficio di Palermo. Circa il trasferimento dei territori egli ha detto che per quanto riguarda la Sicilia si era già in ritardo, e quanto più presto l’isola fosse ritornata all’amministrazione italiana, tanto meglio sarebbe stato. Il cambio dell’amministrazione era stato annunciato e i ministri italiani stavano già cominciando ad accordarsi direttamente con i prefetti. Questo fatto era sbagliato in linea di principio e imbarazzante per tutti. Il colonnello Poletti ha rilevato l’esistenza di un profondo spirito separatista nell’isola che avrebbe potuto essere sopito con un piano che prevedesse l’istituzione di un alto commissario nominato per Pisola a capo dei nove prefetti coi quali avrebbe operato. Questo progetto era stato approvato dal regio sottosegretario all’interno [Reale]. Il candidato preferito per la carica di alto commissario era Musetto [prefetto di Palermo]. Il colonnello Poletti ha parlato con energia e sicurezza. Egli ha amministrato la Sicilia con entusiasmo e con passione, nonostante l’ombra lieve che Albany e persino Tammany Hall possano aver pesato». Altra conferma fu data a Londra dal generale Joyce, capo della Commissione Alleata di Controllo, residente a Brindisi: “Joyce riferisce che il sottosegretario all’interno Reale, che è appena tornato dalla Sicilia, gli ha mostrato copia di un documento sottoscritto dai nove prefetti delle province siciliane riaffermanti il loro desiderio di riunirsi all’Italia. Essi ritengono che la liberazione dell’Italia sia conseguibile solo con l’unità e rinunciano che si sollevi al momento la questione istituzionale. I prefetti rivendicano piena autonomia amministrativa. È da sperare che, tornata la Sicilia all’amministrazione italiana, il governo conceda una amministrazione autonoma tramite l’autorità di un alto commissario”. L’avvio dell’autonomia L’autonomia regionale siciliana prendeva quindi l’avvio con l’autorevole decisivo sostegno delle autorità militari e politiche alleate. Indietro non sarebbe stato possibile tornare e ciò nonostante i separatisti reagirono con verbale plateale violenza. La contestazione venne pure dai circoli politici siciliani e dallo stesso governo Badoglio. I motivi di contrasto furono, da parte siciliana che l’alto commissario non fosse assistito da un comitato di rappresentanti politici antifascisti e che il candidato primo alto commissario fosse Francesco Musetto; da parte del governo italiano, che l’alto commissario non era previsto dallo Statuto albertino, e che il nuovo alto commissario non fosse prescelto dal presidente del consiglio, sentito il consiglio dei ministri. Il sottosegretario all’interno Reale, da Brindisi inviato a Palermo con poteri plenipotenziari, nei suoi incontri con Poletti aveva espresso il consenso alla piattaforma approvata dal Consiglio dei prefetti siciliani, cioè dall’amministrazione civile del Governo militare alleato, di cui il Consiglio dei prefetti era organo operativo; aveva pure condiviso la proposta nomina di Francesco Musetto, sebbene personaggio non sgradito ai separatisti, e per ciò stesso fortemente osteggiato dagli unitari siciliani come criptoseparatista. A Brindisi però il consenso dato a Palermo dal ministro plenipotenziario fu considerato esorbitante ed inaccettabile. Fra le carte dell’archivio della Presidenza del Consiglio è compresa la minuta di una lettera che il maresciallo Badoglio avrebbe dovuto indirizzare al generale Joyce, capo della Commissione Alleata di Controllo. «Sento il dovere di farLe presente che l’istituzione del Commissario regionale non risponde all’ordinamento politico amministrativo italiano, basato su circoscrizioni provinciali con a capo i prefetti [...]. Ne si può dal Governo italiano ravvisare l’opportunità di creare organismi regionali intermedi tra quelli centrali e quelli periferici, essendo evidente che da ciò può derivare pregiudizio all’unità amministrativa e politica della nazione». La lettera però non fu mai inviata al destinatario, forse perché il maresciallo Badoglio non ritenne opportuno impegnare il Governo in una posizione di contrasto con la Commissione Alleata di Controllo nel momento in cui si doveva decidere la restituzione della Sicilia all’Italia. Tuttavia, l’istituzione dell’alto commissario per la Sicilia rappresentava una revisione dello Statuto albertino e una dismissione della tradizione centralistica dell’amministrazione statale sabauda. Perciò le resistenze erano notevoli e allorché Badoglio decise di mettere all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri la deliberazione di massima circa la nomina di alti commissari a Napoli, in Sardegna e in Sicilia, fu redatto un «Appunto» nel quale si affermava: «I provvedimenti di cui trattasi, essendo in contrasto col nostro ordinamento amministrativo, che ebbe per principiale scopo la eliminazione dei regionalismi, non possono non rivestire carattere di temporaneità in stretta relazione alle conseguenze del momento e alle attuali difficoltà, specie in materia di comunicazioni. Il governo, pur assegnando larghi poteri agli alti commissari, dovrà seguire con vigile attenzione la vita dell’istituto stesso, al fine di evitare che questa istituzione a carattere regionale possa favorire tendenze disgregatrici della unità politica e amministrativa dello Stato». Altro «Appunto» della Presidenza del Consiglio dei Ministri riassumeva: «Una proposta concreta di nomina di un alto commissario con una giunta di governo da formarsi con cittadini italiani ha sollevato le seguenti obiezioni: 1) si verrebbe a marcare con questa soluzione un governo quasi indipendente nell’isola, dando così animo al movimento separatista; 2) il governo centrale, pur sorvegliando l’azione dell’alto commissario, non potrebbe con continuità e sicurezza collaborare in questa opera». Sempre da parte degli uffici della Presidenza del Consiglio ad una delle ipotesi avanzate riguardo alla formulazione del decreto istitutivo dell’alto commissario per la Sicilia fu nuovamente obiettato: «L’istituzione di un alto commissariato di 7 membri anziché di un solo alto commissario imprime un carattere di vero e proprio governo autonomo con struttura e poteri simili a quelli del consiglio dei ministri. Sembrerebbe quindi sanzionato dal Governo Nazionale quanto con la nomina dell’alto commissario si voleva evitare: oltre che la sostanza, anche la apparenza di una autonomia dell’isola». L’istituzione dell’Alto Commissariato Alla fine si giunse alla approvazione del regio decreto-legge 18 marzo 1944 n. 41 che previde per la durata della guerra fino a un anno dalla sottoscrizione del trattato di pace la istituzione di un alto commissario alle dipendenze del capo del governo con sede a Palermo «assistito da una Giunta consultiva di 9 membri nominati dal Capo dello Stato, sentito il Consiglio dei Ministri». Grazie al sostegno delle autorità politiche e militari alleate, al consenso della Commissione Alleata di Controllo e in particolare all’impegno svolto dal colonnello Charles Poletti fu così evitato che la difesa della struttura centralistica dell’amministrazione italiana avesse il sopravvento sulla nascente autonomia regionale siciliana. È da aggiungere che l’aver dovuto accogliere la richiesta alleata riguardo alla istituzione dell’alto commissario per la Sicilia e alla nomina a primo alto commissario di Francesco Musetto indusse il Governo italiano a soddisfare anche l’istanza autonomistica sarda, e forse a dimostrazione della propria autonomia o forse perché fino al 10 febbraio 1944 la Sicilia non era ancora tornata all’Italia il decreto sardo ebbe la precedenza sul decreto siciliano. L’insediamento dell’alto commissario Francesco Musotto avvenne alla presenza del Presidente del Consiglio Badoglio venuto da Brindisi a Palermo. Musotto nel suo messaggio ai Siciliani esaltò la nuova realtà istituzionale mettendo le ali alla fede patriottica. «Come nel 1860 l’Italia riprenderà la sua marcia dalla Sicilia, dalla Sicilia sempre negletta e sacrificata, ma ora fervente di speranze e di propositi per la sua rinascita». Facendogli eco, Badoglio aggiunse: «Ha detto Musotto che nel ‘60 è partita da qui la scintilla, perché evidentemente Garibaldi con i suoi Mille non avrebbe fatto niente se il popolo siciliano non fosse stato con lui. Dunque, è partita da qui la scintilla dell’Unità d’Italia e riparte da qui. Ed io che sono dell’altro estremo d’Italia, questa mattina quando sono sceso nel campo d’aviazione, io, che non amo i gesti teatrali, ero indotto a inginocchiarmi per baciare la terra». Quel dire parve ma non fu vana retorica. La scintilla della Unità d’Italia era partita veramente dalla Sicilia e dalla Sicilia ripartiva col nuovo ordinamento regionalistico speciale, cui erano interessate le regioni del confine alpino, ove le minoranze etniche non erano aliene da tentazioni separatiste. Quando, il 10 febbraio ‘44 la Sicilia venne restituita all’Italia, il negativo aveva assoluta prevalenza sul positivo. Gran parte dell’Italia, compresa Roma, era ancora occupata dai tedeschi coadiuvati e sostenuti dai repubblichini fascisti, il governo italiano presieduto dal maresciallo Badoglio rimaneva quello nominato dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio ‘43 e, confinato a Brindisi, non aveva la collaborazione delle forze antifasciste sempre insistenti sulla pregiudiziale che il re Vittorio Emanuele III responsabile della disfatta nazionale insieme col fascismo rassegnasse le dimissioni. In siffatte condizioni, l’aver consentito l’immediato avvio della autonomia regionale siciliana fu gran merito del maresciallo Badoglio, sebbene a indurlo a quel non condiviso consenso fu tutta opera di matrice siciliana spalleggiata dal sostegno alleato, senza il quale non se ne sarebbe fatto nulla. A tenere il comando di come fare o non fare il ritorno della Sicilia all’Italia, ossia ad avere la responsabilità che quel passaggio avvenisse con le rivolte o senza le rivolte minacciate dai separatisti, era infatti il colonnello Poletti, capo dei servizi civili del Governo militare alleato di occupazione. Per un uomo della sua generazione e più ancora per un militare fedele servitore del suo re Vittorio Emanuele III l’avere legittimato ciò che da cento anni era stato rifiutato dalla Dinastia sabauda non fu ardire di poco conto. Ma a prevalere più che l’istanza regionalistica siciliana fu il senso dello Stato, la salvaguardia dell’interesse nazionale, l’osservanza della norma, sentenziata dagli antichi, Salus Rei Publicae esto semper lex suprema. Rifiutare l’istituzione dell’Alto Commissariato per la Sicilia nei termini voluti dal Governo militare comportava aprire un contenzioso le cui conseguenze era difficile prevedere. Perciò, se aveva sempre detto essere sua legge suprema la salvezza della res pubblica italiana, ancora una volta ne doveva dare conferma. Il caso siciliano era ineludibile. Hic Rhodus, hic salta. E Badoglio fece il salto, nuovamente ripetuto qualche mese dopo con la formazione del primo governo di unità nazionale, cioè col dare l’avvio alla transizione dal vecchio regime monarchico e fascista al nuovo regime democratico e antifascista, e col trarsene in disparte appena liberata Roma e dare spazio al nuovo governo di unità nazionale, presieduto da Ivanoe Bonomi, e composto, fra gli altri, da Palmiro Togliatti, vice primo ministro, e Aloide De Gasperi, ministro degli esteri. Il Governo Bonomi Fu da questo governo che alla formazione dell’autonomia siciliana fu impresso un carattere democratico senza precedenti nella storia politica italiana. Per la più ampia soddisfazione dei bisogni siciliani e la migliore soluzione dei problemi connessi, invece di decidere a Roma i provvedimenti ritenuti necessari, il Governo Bonomi diede infatti delega ai Siciliani a formulare loro nell’isola le proposte credute più giuste ed efficaci. Con decreto legge 28 dicembre 1944 n. 41 istituì pertanto presso l’Alto Commissario per la Sicilia una Consulta regionale, composta da 24 membri tutti solo siciliani, scelti dall’Alto Commissario per la Sicilia fra rappresentanti politici, sindacali e culturali e fra competenti ed esperti. Per dare maggiore concretezza ai lavori della consulta fu disposto che alle sue riunioni partecipassero e dessero il voto sulle materie di rispettiva competenza il Provveditorato per le opere pubbliche, l’Ispettore agrario compartimentale, il Direttore compartimentale delle Ferrovie, un delegato della Sanità pubblica, il Presidente dell’Ente di colonizzazione per il latifondo siciliano, il Direttore generale del Banco di Sicilia, il Direttore dell’Ispettorato della motorizzazione civile e il Direttore generale della Cassa Vittorio Emanuele per le province siciliane. Potevano inoltre essere chiamati a partecipare ai lavori della Consulta, per dati argomenti, altri esperti, nonché funzionari e rappresentanti di enti locali. A sua volta, con altro decreto fu data facoltà all’Alto Commissario di affidare la trattazione di determinati affari rientranti nella sua competenza a singoli componenti della Consulta. Quanto ai compiti da assolvere, l’articolo 3 ne dava una triplice determinazione: «La Consulta regionale esamina i problemi dell’isola, formula proposte per l’ordinamento regionale ed assiste l’Alto Commissario nell’esercizio delle sue funzioni pronunciandosi sui provvedimenti che saranno sottoposti al suo esame». La numerosa e qualificata composizione della Consulta regionale evidenziava l’importanza data alla potestà di formulare proposte per l’ordinamento regionale. I consultori regionali, a loro volta, ne condivisero la portata e assolsero l’incarico con ammirevole prontezza. Però, invece di avanzare proposte, nella seduta del 23 dicembre 1945 dopo ampia e approfondita discussione approvarono un compiuto disegno di legge definendo in 38 articoli lo Statuto di autonomia speciale della Sicilia con aggiunto l’articolo 39 con il quale se ne sanciva la approvazione con decreto legislativo entrante in vigore dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno. Con quell’articolo di fatto si chiedeva che lo Statuto d’Autonomia fosse approvato senza attendere che si eleggesse ed entrasse in attività l’Assemblea Costituente. E la richiesta, che a Palermo aveva provocato il dissenso della Sinistra comunista e socialista e la loro rottura con la Democrazia cristiana, a Roma fu ac colta col voto comunista favorevole e il socialista contrario e senza aggiunte o mediche lo Statuto d’Autonomia fu tradotto in legge dello Stato italiano col regio decreto 15 maggio l946 n. 455. Lo Statuto, divenuto operativo il 20 aprile 1947 con l’elezione a suffragio universale diretto dei 90 deputati dell’Assemblea regionale e la formazione del governo e degli uffici regionali, m poi dalla Costituente convcrtito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948 n. 2 ai sensi e per gli effetti dell’articolo 116 della Costituzione e solo modificabile col procedimento di revisione previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Si può pertanto dire che la Consulta regionale del 1945, per aver pensato e scritto il vigente Statuto della Regione siciliana, di fatto assolse una delegata funzione costituente. Il precedente progetto Nell’assolvere quel fondamentale compito la Consulta regionale del 1945 non partì però da zero. Il progetto di Regione siciliana munita di competenza giuridica piena era stato in precedenza formulato da uno straordinario Consiglio di Stato istituito con decreto 19 ottobre 1860 dal prodittatore garibaldino Antonio Mordini. Quel consesso straordinario ebbe l’incarico di studiare ed esporre al governo di Torino, entro il tempo massimo di 40 giorni, quali sarebbero stati, nella costituzione della gran famiglia italiana, gli ordini e le istituzioni sui quali conveniva portare attenzione perché i bisogni peculiari della Sicilia rimanessero conciliati con quelli generali dell’unità e prosperità della nazione italiana. Per studiare e deliberare le condizioni di modo e di tempo dell’adesione siciliana alla unità nazionale dallo stesso prodittatore Mordini era stata prevista una assemblea con deputati eletti il 21 ottobre. Ma il precipitare degli eventi impose che l’unione della Sicilia all’Italia fosse decisa per plebiscito come annessione incondizionata. Il solo modo di studiare ed esporre le esigenze vitali della Sicilia entrante a far parte dell’Italia unita fu quindi il ricorso ad un organo consultivo e temporaneo come lo straordinario Consiglio di Stato. I 36 consiglieri, fra i quali l’economista Francesco Ferrara, lo storico Michele Amari, il chimico Stanislao Cannizzaro, il cattolico Vito D’Ondes Reggio, entro i previsti 40 giorni redassero e approvarono una ampio e dotto Rapporto, nel quale, esposto il loro ragionato parere sui modi da tener presenti nel realizzare l’unione della Sicilia con l’Italia, modi in parte comuni alle altre province italiane un tempo Stati separati, in parte peculiari all’Isola per ragioni della geografia e della storia, sintetizzarono in 20 articoli quella che fra le regioni italiane si proponeva dover essere. Nella storia costituzionale italiana era quella la prima volta che sotto forma di progetto di legge si proponeva che il Regno dell’Italia unita avesse un ordinamento generale ripartito per grandi ripartizioni territoriali, ossia per grandi regioni, tutte aventi esistenza giuridica propria, conforme al sistema regionale proposto a Torino dal ministro all’industria Luigi Carlo Farini e che in tale ambito nazionale la Sicilia fosse riconosciuta come una di tali grandi regioni italiane aventi per ragioni di geografia e di storia sue caratteristiche particolari; che, pertanto, come ogni altra grande regione italiana, anche la siciliana avesse un Consiglio deliberante elettivo ed un luogotenente nominato dal Re; che il Consiglio regionale siciliano fosse composto da deputati eletti uno per ogni cinquanta mila abitanti con suffragio universale personale e diretto; che il Consiglio siciliano per sue esigenze particolari oltre il potere legiferante comune a ogni consiglio regionale italiano, avesse competenza legislativa esclusiva in quattro materie, ossia nei lavori pubblici, nella pubblica istruzione, negli stabilimenti di pubblica beneficenza, nelle istituzioni di credito con sfera d’azione nel solo ambito regionale. In altri articoli fu previsto o meglio fu raccomandato che nella legislazione statale fosse conservato il vigente diritto privato siciliano sulle miniere e le saline; che fosse mantenuta la Legazia apostolica e l’osservanza delle sue prerogative istituzionali; che il ricavo finanziario della eventuale alienazione dei beni ecclesiastici fosse riservato a totale beneficio della Sicilia; che si tenesse conto della tenuità del debito pubblico siciliano a confronto dei debiti pubblici di altri ex Stati da unificare nell’unico debito pubblico nazionale. Di tali e altre richieste per brevità non elencate la Consulta regionale del 1945 fece tesoro, e fu un momento felice dei rapporti della Sicilia con l’Italia. Lo straordinario Consiglio di Stato del 1860 ne rappresentò invece la vana speranza per tutto un lungo corso di storia italiana. La Sicilia all’appuntamento storico del 1860 Poiché qui ne parliamo per ricordare e anche per capire, il primo dato da tenere presente è il come la Sicilia nel suo insieme giunse all’appuntamento storico del 1860. La portata ne era eccezionale giacché in quell’anno si realizzava finalmente l’unità nazionale italiana dalle Alpi alla Sicilia, come l’aveva sognata e ideata Giuseppe Mazzini. In passato la Sicilia aveva sempre rivendicato la sua indipendenza dal legame con Napoli nel Regno delle Due Sicilie e per ottenerla aveva invano combattute tré sanguinose rivoluzione. Adesso dava inizio ad una quarta rivoluzione però col fine di conseguire l’ingresso nella realtà italiana e insieme ottenere che fosse riconosciuta la sua condizione particolare sia di posizione geografica che di storia. Naturalmente occorreva che la sua classe dirigente facesse gli ordinar! preparativi per favorire gli eventi nel senso desiderato, ma nel 1860 il percorso formativo dell’unità italiana aveva come suoi veri grandi protagonisti lo statista liberale piemontese Camillo Benso conte di Cavour, e il nizzardo genio militare delle popolari guerre di guerriglia nazionali, Giuseppe Garibaldi, l’un l’altro aspiranti a che l’Italia avesse Vittorio Emanuele di Savoia suo re costituzionale da conseguire con un movimento unitario diverso, in attuazione del quale l’Italia di Cavour sarebbe stata diversa dall’Italia di Garibaldi, come Cavour era di verso da Garibaldi e diverse le rispettive concezioni politiche, le une liberali, le altre democratiche. La diversità afferiva anche alla maniera di accogliere la richiesta siciliana di volere l’unità condizionata da una larga riconosciuta auto nomia. La Sicilia italiana nei modi stabiliti da Cavour era quindi diversa dalla Sicilia italiana nei modi preferiti da Garibaldi. Per Cavour, uomo di Stato alla guida del Governo costituzionale di Vittorio Emanuele II di Savoia rè del Regno di Sardegna, premesso che Torino era da tutti accettato co me centro cui doveva far capo tutto il processo formativo dell’unità nazionale, i vari Stati regionali e le regioni liberate dal dominio austriaco dovevamo decidere la rispettiva adesione alla formazione dell’unità italiana per annessione incondizionata sempre e solo votata per plebisciti popolari. Nel 1859, a conclusione della vittoriosa seconda guerra per l’indipendenza nazionale, il modo cavourriano poteva dirsi largamente attuato, giacché avevano deciso la loro annessione incondizionata grandi regioni, come la Toscana, l’Emilia, la Lombardia, e a restame fuori a Nord erano le regioni alpine orientali sotto occupazione austriaca a Sud Roma con lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie dominato dal dispotismo di Casa Borbone. Di Roma e dello Stato pontificio Cavour sapeva di non poter parlare, perché Napoleone III, suo potente alleato nelle guerre contro l’Austria, non consentiva che il Papato fosse spodestato del suo storico potere temporale. Riguardo al Regno delle Due Sicilie aveva invano tentato un accordo statale col giovanissimo nuovo sovrano Francesco II, succeduto al padre Ferdinando II. Ma Francesco II aveva opposto essere sua volontà proseguire la politica illiberale e antitaliana del padre. E se non ci fosse stata la Sicilia che già da tempo fremeva in senso antiborbonico e antinapoletano, e che manifestava una crescente propensione ad aggregarsi all’unione italiana perseguita da Casa Savoia, Cavour forte del suo realismo si sarebbe appagato di un Regno d’Italia solo costituito dalle annessioni del 1859. Aveva però da tener presente che l’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia con Roma capitale era una diffusa aspirazione nazionale, caldeggiata da Mazzini però sempre fermo nel suo progetto repubblicano, e dalla Sinistra democratica, che, auspice il suo mitico leader Giuseppe Garibaldi, riconosceva in rè Vittorio Emanuele II il legittimo sovrano italico, però non consacrato per continuità dinastica della Casa Savoia, bensì eletto da una Assemblea costituente italiana riunita a Roma, finalmente libera dal dominio papale. Il progetto, sognato e ardentemente perseguito da Garibaldi, aveva un manifesto carattere utopico, stante la protezione francese del Papato romano. Ma Garibaldi godeva sempre dell’adesione di quanti dal Nord al Sud a migliata erano pronti ad arruolarsi volontari e sotto il suo comando combattere con le armi anche per quel sogno fantastico. In tale situazione, sovraccarica di generale tensione, appariva inevitabile e anche non lontana la fine del Regno delle Due Sicilie, privo del tradizionale sostegno austriaco, non più praticabile dal governo viennese. Il 1859, peraltro, aveva infiammato l’entusiasmo patriottico in ogni parte d’Italia e dalla Sicilia era attesa la mossa finale che portasse ad effet to l’unificazione nazionale con la partecipazione del Mezzogiorno e della Sicilia. In vista di quell’evento, dalla Destra liberale siciliana si riteneva indispensabile il consenso e il sostegno del conte di Cavour, grande leader della causa liberale italiana e dalla Sinistra democratica si faceva largo affidamento al volontariato patriottico nazionale organizzato e diretto da Giuseppe Garibaldi. Si aveva pertanto un convulso alternarsi di proposte e controproposte, ora d’annessione immediata all’Italia, come deciso dalle grandi regioni del Centro Nord, Toscana, Emilia e Lombardia, ora di attesa che prima si definissero e si concordassero i tempi e i modi della comune richiesta di autonomia da deliberare con voto di una apposita assemblea eletta dai siciliani a quel fine Da nessuna parte si faceva cenno della indipendenza ormai da tutti considerata improponibile. Per tutti rimaneva irrinunciabile solo l’ostilità antiborbonica e antinapoletana e non era ostacolo da poco, perché, a sua volta, una contemporanea ostilità antisiciliana era professata da parte borbonica e napoletana. Unificazione: diversità d’intenti tra Cavour e Garibaldi In tale ginepraio, l’autonomia siciliana in un’Italia ordinata a generale sistema regionale poteva essere una soluzione intermedia. Solo che i progetti di Cavour e di Garibaldi per loro stessa natura non rendevano compatibile nell’immediato una scelta di quel genere. Cavour ebbe modo di chiarirlo in un incontro a Torino con Filippo Cordova, il quale ne riferì a Vincenzo Fardella di Torrearsa in una lettera del 28 gennaio 1860. Da lì a qualche settimana sarebbe scoppiata sulle montagne palermitane la rivolta armata e i liberali prima di decidere come e con quale prospettiva prendervi parte sollecitavano il preventivo consenso di Torino. Con riferimento a tale situazione Cavour chiese: «Non crede Ella che, ammesso un parlamento separato in Sicilia, i risultati sarebbero distruttivi della presente italianità dell’Isola? Non crede che esso comincerebbe un ricorso verso il 1812?». Anche in seguito, quando Garibaldi sbarcato a Marsala con i suoi Mille conduceva alla grande la progressione vittoriosa della rivoluzione siciliana, Cavour fu sempre restìo ad assumere impegni precisi e vincolanti, e al conte Emerico Amari, che insisteva sulla pregiudiziale autonomista replicò seccamente: «Se l’idea italiana non ha nessuna influenza in Sicilia, se l’idea di costruire una forte e grande nazione non è ivi apprezzata, i Siciliani faranno bene ad accettare le concessioni del rè di Napoli e di non unirsi a popoli che non avrebbero per loro ne simpatia ne stima». La posizione di Garibaldi non era dissimile. La sua discesa in Sicilia prevedeva che, sbaragliata la resistenza borbonica isolana, la marcia dei Mille avrebbe oltrepassato lo Stretto di Messina e raggiunta Napoli avrebbe proseguito l’avanzata alla volta di Roma, ove progettava di proclamarvi l’unità italiana e far eleggere da una apposita costituente Vittorio Emanuele re degli Italiani. La Sicilia rappresentava un momento di quella impresa. Ma poiché la realizzazione di un programma del genere doveva necessaria mente contare su una larga partecipazione popolare, le rivendicazioni autonomiste siciliane non potevano essere rifiutate alla maniera cavoumana. Anche i democratici siciliani volevano che l’adesione all’unità nazionale fosse deliberata da una assemblea eletta allo scopo di definirne le condizioni di modo e di tempo, e Garibaldi, pur avendo assicurato il suo consenso, aveva bisogno che l’assemblea fosse eletta e decidesse il che fare senza che ne fosse ostacolato lo scopo finale da conseguire. Perciò nel prendere tempo a decidere lasciava sperare che il suo temporeggiare non sarebbe stato di lunga durata e che al momento opportuno avrebbe deciso quanto necessario. Da qui la diversità. Cavour, che sapeva di Garibaldi e che presentiva e temeva la sua impresa non avere per solo fine la vittoria della rivoluzione siciliana, appena fa liberata Palermo e quindi formato il primo governo siciliano con Garibaldi autonominatosi dittatore di Sicilia in nome di re Vittorio Emanuele di Savoia, mandò in Sicilia il messinese Giuseppe La Farina con l’incarico di promuovere una generale mobilitazione rivendicante l’immediata annessione all’Italia unita. I liberali siciliani accettarono l’immediata annessione perché poneva termine alla dittatura garibaldina, da loro avversata. Per l’opposta ragione Garibaldi defletteva dal suo intransigente rifiuto. Senza i poteri della dittatura passati al rappresentante regio, non avrebbe potuto varcare lo Stretto, e proseguire la guerra rivoluzionaria fino a Roma e dar vita a una Italia democratica non solo diversa dall’Italia liberale, ma anche meno accentrata di quanto era stabilito nello Statuto albertino, donde il suo proposito di avvalersi della collaborazione del milanese Carlo Cattaneo, noto fautore democratico del federalismo unitario nazionale. La legge elettorale di Garibaldi del 23 giugno e sue
conseguenze In vista di quei progettati sviluppi, stroncata l’iniziativa patrocinata da Giuseppe La Farina, rimandato a Cavour con decreto di espulsione, al fine di concedere agli autonomisti siciliani suoi sostenitori e collaboratori una ragionevole aspettativa sul come e quando deliberare l’annessione all’unità d’Italia, il 23 giugno promulgò il decreto che, senza nulla decidere sull’annessione votata per suffragio diretto o da una assemblea a quel fine eletta, su proposta del Segretario di Stato all’interno Francesco Crispi, – il che aveva un significato profondo, – sanciva il principio senza precedenti in Italia e fuori d’Italia che il corpo elettorale siciliano non avesse limiti di censo fondiario o di cultura; che pertanto tutti i cittadini siciliani fossero elettori politici a 21 anni compiuti, ed eleggibili a 25; che ogni comune con meno di 10 mila abitanti avesse diritto a scegliere un deputato; con più di 10 e meno di 20 mila abitanti due deputati; con oltre 20 mila abitanti tre deputati; la città di Palermo dieci deputati; le città di Messina e di Catania cinque deputati ciascuna; e (poiché gli eletti non sarebbero stati tutti possidenti), che i comuni ai loro rappresentanti nel periodo della sessione parlamentare pagassero una indennità non eccedente i 20 tari al giorno. In altri 13 articol si dettavano norme per la registrazione dei siciliani aventi diritto di far parte del corpo elettorale; nell’articolo 20 si concludeva che un prossimo decreto avrebbe stabilito il giorno e il modo della votazione, ossia se votare per plebiscito o eleggere il parlamento siciliano. La presente nota non consente di dare spazio sufficiente alla narrazione delle vicende particolari della rivoluzione siciliana del 1860. Occorre tuttavia che alla legge garibaldina del 23 giugno sia data la giusta evidenza, giacché da essa prese l’abbrivo l’imprevista conclusione della rivoluzione siciliana. La rappresentatività della legge 23 giugno fa duplice. La prima, il dichiarato carattere democratico del corpo elettorale politico siciliano. In tutta la prima metà del secolo, la legislazione dei regimi costituzionali era stata sempre definita dal condizionamento del diritto elettorale politico al possesso del censo fondiario o del minimo culturale del sapere leggere e scrivere; fortemente censitario era pertanto il regime costituzionale gestito a Torino dal conte di Cavour; pure censitario era stato il voto di annessione della Toscana, della Lombardia e dell’Emilia. Per quell’aspetto la legge proposta da Crispi e approvata e promulgata da Garibaldi istituiva un contrasto abissale fra democrazia liberale di destra e democrazia radicale di sinistra. Tuttavia, la diversità non suscitava problemi. A Torino, a Genova e in altre città del Piemonte, della Liguria o della Sardegna, nessuno cittadino avrebbe chiesto o rivendicato che il Parlamento votasse una legge nuova simile alla siciliana. Anzi, si manifestava dissenso. Il regime costituzionale ne avrebbe ricevuto danno. Pari dissenso si esprimeva a Firenze, a Bologna e a Milano ove il voto censitario aveva garantito la stabilità sociale e politica della annessione. La legge di Garibaldi solo in Sicilia provocava effetti contrastanti. I liberali cavourriani col sistema elettorale universale personale e diretto erano messi fuori causa dagli elettori impossidenti e analfabeti, i contadini nelle campagne avrebbero sopraffatto i loro padroni terrieri fossero di antica origine nobiliare o di recente matrice borghese, nel Parlamento siciliano non sarebbero stati maggioranza, come nel Parlamento di Torino. Cavour fu necessitato a fronteggiare il successo di Garibaldi, la cui legge aveva e dava un senso alla democrazia europea. Perciò, per dar fiato politico ai liberali siciliani ormai tutti decisi per l’immediata annessione, ma anche per animare la discussione riguardo al nuovo ordinamento statale del Regno d’Italia in termini più aperti del vigente ordinamento del Regno di Sardegna, autorizzò il suo ministro Luigi Carlo Farini, a presentare il 13 agosto 1860 alla Commissione temporanea istituita presso il Consiglio di Stato per lo studio e la formazione dei progetti di legge, la Nota subito divenuta centro della storia istituzionale. Il testo della Nota reso pubblico a Torino è riportato insieme al Rapporto approvato a Palermo dal Consiglio straordinario di Stato e ne costituisce una indispensabile integrazione. I 36 consiglieri siciliani ne condivisero le argomentazioni, ne accolsero l’idea circa la tripartizione dell’ordinamento statale in comuni province e regioni, ma per la regione Sicilia non condivisero che il suo Consiglio elettivo fosse privo di potere legiferante, e sebbene fossero a conoscenza che tutto era stato ormai deciso, e che ogni loro delibera aveva solo valore consultivo, forse destinata a non ricevere attenzione, previdero, formularono ed esposero il primo compiuto progetto di legge di regione siciliana a statuto speciale, del quale abbiamo riferito. Ma la storia italiana del 1860 e la stessa storia del 1860 siciliano furono dominate dalla Nota del ministro Farini che divenne l’arme politica della strategia istituzionale portata avanti dal conte di Cavour. Poi morto Cavour, il progettato sistema regionale generale italiano fu travolto dal vecchio ordinamento centralistico creduto necessario a garantire l’annessione meridionale, siciliana e in parte anche altrove nei termini voluti e imposti autoritariamente dalla Destra storica poi rimasti immutati fino al dicembre 1947. Il sopravvento della Nota Farini Ma quella storia fuoriesce dal nostro problema che è quello di capire come la Nota del Farini abbia potuto avere il sopravvento anche in Sicilia non ostante la vigente legge garibaldina del 23 giugno. Il ministro Farini, in effetti, prescindeva dalla controversia fra sistema elettorale censitario e non censitario e affrontava solo la necessità di riformare l’ordinamento statale italiano centralizzato conformemente alle nuove esigenze insorte dal come era stata realizzata l’unità nazionale nel centro-nord della penisola e dal come la si voleva realizzare nell’Italia meridionale e specialmente in Sicilia. La Nota come idea governativa della riforma generale da porre in esame e suggerire consigli non ammetteva controverse interpretazioni. «Poiché intendo di lasciare ampia libertà di discutere e proporre, ferme le massime sostanziali, tutto ciò che riguarda l’applicazione, così darò forma di quesito ad alcune idee sulle quali desidero un autorevole consiglio. «Il regno si divide in regioni, province, circondari, mandamenti e comuni. «Il comune sarà mantenuto sostanzialmente quale è di presente... «Il mandamento, che è una circoscrizione giudiziaria, ha rapporto colla circoscrizione politica, perché secondo la legge statale vi risiede un delegato di pubblica sicurezza. O si vogliono introdurre riforme su questo capo della politica mandamentale o si vogliono mantenere le vigenti disposizioni, si dovrà per questo rispetto prendere accordi col ministro di Grazia e Giustizia. «Il circondario è una circoscrizione politica. L’attuale legge sull’ordinamento dei tribunali ne fa anche una circoscrizione giudiziaria. Il ministro di Grazia e Giustizia darà cognizione dei suoi intendimenti. Nel circondario havvi un vice intendente, che rappresenta il potere esecutivo. Occorre però determinare in modo più preciso di quel che faccia la legge attuale le sue facoltà. «La provincia è una circoscrizione politica e amministrativa che comprende più circondari. «Più province insieme riunite formano una regione, la cui circoscrizione deve rispondere ai naturali e tradizionali scompartimenti italiani, per esempio Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, Liguria, Sardegna. Ogni regione e sede di un governatore, che rappresenta il potere esecutivo con late attribuzioni. «Le provincie comprese in una medesima regione possono eventualmente costituire consorzi permanenti ». «La commissione esaminerà anche se per alcuni affari generali preventivamente e precisamente determinati, per esempio strade, acque, istruzione, beneficenza, belle arti, fors’anche carceri di pena ecc., stabilire tra le provincie della stessa regione consorzi particolari. In conclusione, nell’agosto 1860 lo statista Camillo Benso di Cavour, allora presidente del consiglio dei ministri del Regno di Sardegna ma prossimo primo ministro del Regno d’Italia, tramite la Nota del ministro Farmi sovrastava l’iniziativa di Garibaldi, dittatore della Sicilia, la cui legge promulgata a Palermo il 23 giugno definiva solo il diritto elettorale siciliano solo condizionato dall’età, e lasciava invece tutto da definire riguardo al problema politico centrale se l’annessione della Sicilia all’Italia doveva essere condizionata o incondizionata e se la si doveva decidere per plebiscito o per delega a un’assemblea parlamentare eletta dai siciliani. In ogni caso, la legge del 23 giugno riguardava solo la Sicilia. Altrove non aveva efficacia. Cavour proponeva invece la discussione in Parlamento del nuovo ordinamento statale italiano e fra le novità da decidere prevedeva la più attesa e la più contrastata, se l’ordinamento statale dell’Italia unita doveva essere uno e indivisibile con la tradizionale bipartizione in comuni e province oppure riordinato con la tripartizione comuni, province e regioni, che dessero distinta personalità giuridica alle grandi ripartizioni territoriali storielle, come la Toscana, l’Emilia, la Lombardia, il Piemonte, la Liguria, la Sardegna, e naturalmente anche la Sicilia e le province meridionali facenti capo a Napoli, cui si prestava principale attenzione, anche se nominativamente non indicate perché non ancora annesse al Regno d’Italia. Un Garibaldi un po’ più politico e un po’ meno guerrigliero amante delle grandi imprese non escluse le avventurose, conclusa trionfalmente m poco più di un mese anche la liberazione del Mezzogiorno peninsulare, si sarebbe dovuto preoccupare di dare sostanza politica al suo immerso e quasi mitico potere militare, e come rappresentante unico delle province e dei popoli dell’ex Regno delle Due Sicilie far sentire il peso della sua presenza e della sua autorità nel processo formativo dell’unità nazionale. Cavour aveva messo in discussione la nuova ipotesi dell ordinamento statale fondato sulle regioni. Garibaldi coi suoi poteri avrebbe potuto non proporre ma decidere che il Mezzogiorno e la Sicilia fossero ordinati in due o tre regioni, e col consenso regio, trasformata la dittatura militare sostanzialmente autonoma in governo politico regionale, operante come parte del governo politico generale del regno sabaudo avrebbe potuto dare alle popolazioni rappresentate funzioni pari a quelle delle popolazioni delle regioni centro-settentrionali. Era compito di statista por rimedio allo sfascio dell’apparato statale del regno meridionale. Quello Stato era un gran patrimonio da non confondere con l’assolutismo borbonico e da non coinvolgere nella sua fine ingloriosa. La sua storia era antica e le popolazioni meridionali ne conservavano una assai gradita e orgogliosa memoria. L’adesione condizionata dalla geografia e dalla storia dai siciliani rivendicata era un volere entrare nella Italia unita senza perdere la loro identità antica. La Sicilia aveva avuto il primo parlamento in Europa e quel parlamento aveva sempre conservato i suoi caratteri originari anche quando aveva perduto la sovranità nazionale. Se la Sicilia dominio spagnolo aveva conservato ed esercitato il suo autogoverno nei propri affari interni perché doveva perderlo come prezzo del suo divenire italiana? In ogni caso, la continuità d’uno Stato plurisecolare era un bene da non perdere mai. E se l’impresa garibaldina per inevitabili esigenze militari l’aveva mandato in frantumi, adesso toccava a Garibaldi disporre le opportune provvidenze istituzionali già previste nell’ordinamento costituzionale sabaudo proposto dalla Nota Farini o con quel nuovo ordinamento compatibili. Garibaldi era ormai un personaggio di gran rilievo nazionale con i poteri di dittatore unico di Napoli e di Sicilia nel Mezzogiorno poteva fare tutto, e a Torino dar vita a nuovi rapporti politici e sociali non buttando sulla bilancia la spada come era suo proposito di fare, che non l’avrebbe portato lontano, ma facendo valere la sua impareggiabile autorità politica e morale e dar peso e rilievo alla Sinistra democratica, della quale era divenuto indiscusso leader nazionale Ma Garibaldi era Garibaldi, solo Garibaldi, e a tutto questo non prestava interesse. Forse non era in grado di porvi pensiero. Era il suo limite. La politica non era un suo problema. Di fatto, non vi fece nemmeno attenzione. Garibaldi nomina prodittatori Mordini per Palermo e Pallavicino a Napoli Giunto a Napoli, il suo unico proposito era varcare il Volturno e alla testa del suo esercito non più composto solo dai Mille ma anche di altre migliata di volontari siciliani e meridionali procedere verso Roma e, dato il suo impegno personale e diretto in quella ardua nuova impresa con decreto del 16 settembre nominò come suoi rappresentanti due prodittatori, uno per la Sicilia con sede a Palermo, l’altro per le province continentali, dalle Calabrie alla Campania, con sede a Napoli. La sua intenzione non è più un segreto per nessuno. Ne è informato anche re Vittorio Emanuele che Garibaldi ritiene consenziente, come lo era stato per lo sbarco a Marsala e per la prosecuzione della vittoriosa impresa di là dello Stretto di Messina fino a Napoli e anche fino a Roma. In effetti, vi era parte di verità circa la conduzione della impresa garibaldina nell’ambio insulare e continentale del Regno delle Due Sicilie. Re Vittorio Emanuele non era stato insensibile a che anche la Sicilia e il Mezzogiorno facessero parte del Regno d’Italia. In sostanza, con le dovute riserve era stato con Garibaldi e non aveva lasciato carta bianca alle perplessità e ai timori del suo primo ministro Camillo Benso di Cavour. Il quale pur essendo contrario alla impresa di Garibaldi in Sicilia non l’aveva impedita, sebbene ne avesse i mezzi e il potere. Appena possibile aveva invano tentato di fermare Garibaldi con la richiesta che pronunciasse l’annessione immediata. Parimenti inefficace era stato il suo proposito d’impedire a Garibaldi di traghettare lo Stretto di Messina. Ma la marcia su Roma metteva in pericolo quanto era stato conquistato lungo il processo formativo dell’unità italiana e poiché si poteva perdere tutto non poteva essere consentita. A estremo pericolo estremo rimedio. Re Vittorio Emanuele condivide il timore di Cavour e con lui conviene che il solo modo di fermare Garibaldi è di avocare a sé i poteri della dittatura di Napoli e di Sicilia e alla testa del suo esercito scendere da Torino a Napoli e chiedere al suo suddito sempre stato a lui fedele l’obbedienza dovuta. L’eventuale dissenso sarebbe stato affrontato col ricorso alle armi. Da quel momento la funzione politica e militare di Garibaldi non ha più ragione d’essere. Garibaldi, tuttavia, di quei provvedimenti è del tutto all’oscuro. Da Torino non c’è alcuno che gliene dia notizia anche per sentito dire. Eppure un esercito che lascia Torino e suoi dintorni, che si muove col re in testa, e che per giungere a Napoli attraversa ostilmente il territorio dello Stato pontificio non poteva non essere noto. Il governo pontificio aveva protestato e anche opposta la sua inutile resistenza. Garibaldi non recede dai suoi propositi, e invece di prendere in considerazione la Nota di Farini e opporre politica alla politica, al fine di porre termine alle controversie su plebiscito o non plebiscito sul voto di annessione sistematicamente promosse da liberali cavourriani, decide di rimetterne la decisione a due distinte assemblee elettive, una da tenersi a Palermo, l’altra a Napoli. Il 5 ottobre il prodittatore per la Sicilia Antonio Mordini con suo decreto indice per il giorno 21 ottobre la convocazione dei comizi elettorali per la elezione dell’Assemblea siciliana deputata a stabilire quali in Sicilia ne dovranno essere le condizioni di tempo e di modo per entrare in seno della grande famiglia italiana. La replica di Cavour non si fa attendere. L’11 ottobre il Parlamento di Torino approva la legge che autorizza il governo ad accettare le annessioni delle province meridionali e di altre parti d’Italia purché siano incondizionate e votate con suffragio popolare diretto, cioè con plebiscito. Il decreto del prodittatore Mordini è di fatto vanificato. L’adesione siciliana, condizionata nel tempo e nei modi deliberati dall’assemblea, da Torino non sarà mai accettata. Garibaldi insiste. La promulgazione di analogo decreto viene chiesta al prodittatore Giorgio Pallavicino. L’uomo scelto da Garibaldi come suo prodittatore, certamente a conoscenza delle novità torinesi, invece di eseguire il volere di Garibaldi, per il previsto 21 ottobre convoca i comizi elettorali per votare l’adesione incondizionata mediante plebiscito. La decisione di Pallavicino mette in crisi quanto predisposto da Mordini a Palermo. Le conseguenze sarebbero gravi. Dal Governo di Torino Napoli sarebbe accolta e la Sicilia rifiutata, e poiché quel diverso risultato sarebbe tutto a favore di Napoli e a danno della Sicilia, che rimarrebbe isolata in stato di grave incertezza circa il suo futuro, il prodittatore Mordini viene indotto o meglio viene costretto a promulgare il 15 ottobre altro nuovo decreto il cui primo articolo recita: «I comizi elettorali, convocati per il 21 ottobre, in luogo di provvedere alla elezione dei deputati, dovranno votare per plebiscito sulla seguente proposizione: II popolo siciliano vuole l’Italia unita e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e suoi legittimi discendenti». La sconfitta non poteva essere più cocente e nondimeno, per aver sempre l’opportunità di esprimere quella che si riteneva la giusta posizione circa la salvaguardia degli interessi siciliani presenti e futuri, con altro nuovo decreto del 19 ottobre il prodittatore Mordini in accoglimento di tante varie istanze decide la istituzione dello straordinario Consiglio di Stato affinché quello che al popolo era stato vietato di decidere impedendo l’elezione dei propri deputati, fosse esposto al governo di Torino con voto consultivo dai 36 consiglieri nominati dal prodittatore. Tutto ciò avveniva mentre nell’incontro di Teano fra re Vittorio Emanuele e Garibaldi suo fedele suddito obbediente aveva termine l’impresa meridionale garibaldina, Roma rimaneva papale, Torino accoglieva l’annessione incondizionata del Sud e della Sicilia col proposito di liberarli d’ogni eventuale persistente influenza garibaldina e con modi autoritari sottoporli al moderatismo liberale dei funzionari piemontesi e dei cavoumani locali che con il liberalismo di destra di Cavour avranno assai poco a che vedere. Un triste epilogo Garibaldi, chiesta e non concessa da Vittorio Emanuele la temporanea luogotenenza regia delle regioni da lui liberate e fatte dono all’Italia unita, con dignitoso ma sdegnoso rifiuto di ogni altra offerta ricompensa, prende la via dell’esilio e a bordo di una ospitale nave inglese sbarca a Caprera nei tempi avversi sempre suo privilegiato rifugio. Ogni decisione dello straordinario Consiglio di Stato non era la stessa cosa di quanto avrebbe potuto deliberare con voto deliberante il Parlamento eletto dagli elettori siciliani. Agli sconfìtti fu solo concesso di non tenere la voce serrata in gola. E, come sarebbe accaduto in altre gravi circostanze, nel momento dell’irreparabile sconfitta i vinti dello storico 1860 siciliano seppero esprimere il meglio dei loro sentimenti e dei loro pensieri. Tuttavia, la loro idea di Regione siciliana nell’immediato non fu nemmeno presa in esame, perché morto Cavour fu respinta la stessa idea di regione prevista nella Nota Farini. Però, nelle mutate condizioni politiche del 1945 fu assunta come fonte ispiratrice del vigente Statuto della Regione siciliana e ancora oggi dopo centoquarantasei appare sempre meritevole di tutta la nostra attenzione. |