Franca Comandè la conobbi alle elementari, veniva da Piana degli Albanesi e viveva dagli zii. Parlava una strana lingua e fu per me la prima “straniera” mai incontrata; la aiutai in italiano e diventammo amiche del cuore. Superò il tifo con un lungo isolamento e la dieta, e io ero una delle poche compagne che l’andavano a trovare. Un giorno ci venne a trovare a casa la sua mamma, maestosa nel suo lungo vestito nero con mantellina (il costume tradizionale degli albanesi di Sicilia, per conoscere me e la mia famiglia e ringraziarci. La ricordo nel salotto... mi ricorda un quadro di Manet. Quando ritornò a Piana ci scrivemmo per tanti anni, e il suo indirizzo mi rimase impresso anche dopo più di 30 anni di non comunicazione. Mi ero ripromessa di visitare la sua città, dove gli esuli politici albanesi avevano trovato rifugio nel passato, ma non era mai accaduto. Due o tre anni fa, per caso, ho conosciuto una amica di Franca che vive qui vicino a casa mia, ad Arona nel Nord Italia dove da più di trent’anni vivo (un po’ esule anch’io?). Le abbiamo inviato insieme una cartolina all’indirizzo che non ho mai dimenticato e… detto, fatto: due giorni dopo ero in Sicilia a respirare la profumata aria natia e bussavo alla porta di Franca e di suo marito Pino. Per strada non ci saremmo mai riconosciute! Avevamo nella testa e negli occhi noi stesse bambine, col grembiule nero della scuola e il collettino bianco, con i fiocchetti e il nastro in testa... come nella foto di fine anno con la maestra! E finalmente in gita assieme al suo paese, a Piana e da lì a Portella. Il lago artificiale di Piana degli Albanesi si adagia, come addormentato, sul fianco della montagna, di fronte al monte Kumeta e alla rocca di Portella delle Ginestre che è battuta da un vento gelido ed in inverno è imbiancata di nevischio candido come la ricotta che si produce da queste parti e rende famosi i cannoli di Santa Cristina. Il pianoro è deserto e il luogo della memoria è recintato da un pomerium, che lo rende sacro e simbolico. Qui si consumò una strage di innocenti, immolati ad una causa ingiusta e reazionaria che a distanza di 60 anni (come il diritto di voto alle donne) si può leggere con chiarezza e, forse, con verità. La strage del 1° maggio del ’47 è ancora sulle pietre dell’arida collina, dove fischiano nel vento i proiettili assassini, il ttata - tatà dei mitra, ripetuto e cadenzato, e non gli improbabili mortaretti della festa campestre … Sono in compagnia dei coniugi Francesca e Pino, amici di Palermo, entrambi nati a Piana e testimoni oculari dell’avvenimento. La scampagnata primaverile del 1° maggio si addice bene alla festa del lavoro, si mangia all’aperto e si solidarizza con quelli che lavorano faticosamente la terra giusto per vivere, e assicurare ai padroni la loro ricchezza. Tra i poveri stremati dalla terribile guerra e gli sfruttati nasce un movimento di ribellione verso le ingiustizie subite all’interno della società. Nella previsione di capovolgimenti nella forma di governo c’è il rischio di rimanere ai margini di una rinascita che promette la liberazione dalla miseria, dall’ emigrazione e dal regime. È l’ alba del 1° maggio 1947, il sole scalda già i sentieri che salgono dal versante orientale della rocca, dove le frotte di famigliole s’inerpicano contente per il giorno di vacanza. Ogni gruppo occupa un fazzoletto di terreno deponendo i viveri, le bevande e gli sgabelli per i più anziani. Si improvvisa un palchetto rudimentale per consentire all’onorevole Li Causi, qui presente, di far sentire a tutti le sue parole augurali, “la terra ai lavoratori”, che sicuramente sono le più attese. Ragazzi e bambini sciamano in giro per giocare, Franca e le sue sorelline aiutano il papà a montare la tenda per un po’ d’ombra, Pino e i suoi amici fanno parte di un altro gruppetto che gioca a rincorrersi. Entrambi sono qui con i genitori, non si conoscono. Tra circa vent’ anni si incontreranno per diventare marito e moglie. Il ttata - tatà improvviso blocca i loro movimenti, si girano tutti verso il luogo da cui proviene il suono. Altro che uno scoppio di mortaretti a sorpresa, per allietare la festa! Il ripetersi cadenzato, proveniente da diverse direzioni, fa scoppiare il panico: corpi straziati da proiettili si abbattono a terra come uccelli caduti nel volo, è un corri corri disperato. Franca mi fa vedere il grande sasso dietro il quale suo padre ripara le sue bambine prima di precipitarsi verso il sentiero in discesa, unica via di fuga, pericolosa, verso il paese. Anche Pino ricorda la confusione e la fuga disperata, gli sembra di averla vissuta in un incubo che a volte ritorna. Un cippo di pietra scolpita contiene i nomi degli inermi e increduli caduti senza un perché. È emozionante stare davanti a questa pietra, sostare a lungo per parlare e dire loro la verità: “siete caduti per un disegno atroce, e siete stati i primi; altre stragi avvengono ancora, in città grandi e piccole, nel nord nel centro e nel sud della nostra patria, della nostra Repubblica nata nel sangue di innocenti come voi. Nei labirinti dei poteri nascosti sono ancora le trame del tessuto nero, diabolico che si mimetizza in mille modi ingannevoli”. Il mitico bandito Giuliano, che nella fantasia popolare incarnava il bene (come difensore dei deboli) ma anche il male, come il favoloso Dracula, fu presto (troppo presto) indicato come l’ideatore ed esecutore del piano criminale. A Montelepre, dove nacque, si trova un bellissimo Hotel denominato “Salvatore Giuliano Castle”! Forse anche lui, l’eroe, è stato vittima di un grande inganno, e si prende una rivincita ! Purtroppo il segreto copre ancora gli atti di quel tempo! Quante morti sospette, una dietro l’altra! Ben presto Salvatore Giuliano, Salvatore Ferreri (Fra’ Diavolo), Salvatore Pisciotta …tacquero per sempre. Mentre tra le forze dell’ordine piovvero le promozioni e gli incarichi importanti. “Così andava il mondo nel lontano 1947”. Alcuni mesi dopo, in agosto, torno a Portella delle Ginestre con due amici di Milano, Anelisa e Piero; questa volta non saliamo da Palermo verso Piana degli albanesi ma dall’altro versante, da Camporeale e S. Giuseppe Jato. Nel pomeriggio il sole ha indebolito i suoi raggi ma soffia lo scirocco disordinato e nervoso. Sotto il monte Kumeta il pianoro è arido, pieno di sterpi e di spine. Il cielo è terso e qualche ombra si allunga sulla pietra scolpita : tentiamo di leggere ad alta voce, sillabandoli, come in un rito, i nomi dei caduti, scolpiti sulla grezza pietra sgretolante. Essi gridano nel vento procurandoci un brivido. Di fronte al Kumeta, ai piedi della montagna, si adagia il lago artificiale di Piana degli albanesi, come un capretto addormentato e, nella Conca d’oro, Palermo aspetta una nuova primavera… |