Non aprire in tempo gli occhi di fronte alla realtà delle guerre, civili o etniche, e dei conflitti, che sembrano sempre roba di altri, ha provocato catastrofi nel secolo appena trascorso. E il mondo e l’Europa l’hanno pagato caro nel XX secolo. La pace è un frutto delicato, che va coltivato. Oggi, di fronte ai tanti conflitti armati che insanguinano il mondo, di fronte ai pericoli per la democrazia e alle dittature, non è lecito e soprattutto non è saggio stare a guardare. Perciò ci tornano utili, per riflettere sulla situazione di oggi le sempre lucide e febbrili parole di un grande siciliano, che amiamo molto, Leonardo Sciascia.

 

L’’«alzamiento», il «pronunciamiento », il «golpe» (tre parole spagnole: e l’ultima ormai naturalizzata nell’italiano, a sostituire l’espressione «colpo di Stato»): nulla che possa così denominarsi è stata la guerra di Spagna; se non si capisce, nelle intenzioni dei generali che la provocarono. Subito fallito a Madrid e a Barcellona, il colpo di Stato militare si poteva considerare effettualmente e interamente fallito.

Il «golpe» si muta in guerra civile; e la guerra civile diventa prova e sintesi di guerra mondiale. Nell’autunno del 1937, da Madrid, Matthews scriveva: «Una guerra civile è il meno che stia accadendo qui, nella penisola spagnola. Si può definire questo conflitto in molti modi: come una lotta delle sinistre contro le destre, del proletariato contro il capitalismo, della democrazia, repubblicanesimo, socialismo, comunismo ed anarchismo contro il fascismo, della Russia contro la Germania, dell’Inghilterra contro l’Italia. Perché tanta brava gente di normale intelligenza chiude gli occhi di fronte a questo fatto? ... Come è possibile che vi sia ancora della gente che ignora che la guerra spagnola sta mutando la faccia della terra? È impazzito il mondo o noi scrittori e giornalisti che sembriamo predicare in una landa di indifferenza e di ignoranza? ». Aveva ragione: e il non aprire gli occhi di fronte a quella realtà lo si è pagato ad usura nella seconda guerra mondiale, dal 1939 al 1945 (e Roosevelt dirà all’ambasciatore Bowers: «avevate ragione voi, dovevamo intervenire in Spagna »).

Ma la guerra civile non era il meno che stava accadendo in Spagna: quella che Azana chiama «la lotta fratricida» corse spaventosa in ogni luogo, dalle grandi città ai più remoti paesi, e portò (ancora parole di Azana) «l’animo di alcuni a toccare disperatamente il fondo del nulla». E non soltanto di alcuni, possiamo oggi dire. Quando paura e massacro – uno speciale tipo di paura, un massacro di incalcolabili (e ancora oggi incalcolate) concatenazioni e moltiplicazioni – durano freneticamente per tre anni, e non soltanto tra le parti che si affrontano, ma anche all’interno di una delle due parti, gli elementi storici e ideologici che costituiscono la ragione dello scontro finiscono col dissolversi e col dar luogo al puro terrore.

L’esistenza come terrore. E viene di cercarne esempio in quel tempo più lontano che dal terrore prese nome, e di cui molto, molto meno che nella Spagna della guerra civile, furono le vittime. Un esempio che nel contesto in cui affiora può anche passare inavvertito, essere messo in conto della «storia di un’anima» soltanto, mentre è da mettere in conto anche della storia dell’animo umano in un momento della storia. Lo troviamo in Stendhal (Henri Beyle, Henry Brulard). Siamo nel 1793, a Grenoble: Chérubin Beyle, suo padre, è stato arrestato perché incluso in una lista di persone sospettate di non amare la Repubblica compilata da un certo Amar, rappresentante del popolo. Quando poi lo rilasciano, parlandone in famiglia, Chérubin Beyle attribuisce il suo arresto alla personale avvesione di Amar nei suoi riguardi. Ma Henri, bambino di dieci anni osserva: «Sì, Amar ti ha messo nella lista delle persone sospette di non amare la Repubblica, ma mi pare certo che tu non l’ami». L’osservazione suscita orrore nella cerchia familiare.

A distanza di anni, Stendhal si meraviglia che una verità potesse suscitare tanto orrore: non tiene conto che, in quel momento, la sua verità introduceva nella cerchia familiare il terrore. (Mi sia permessa una divagazione: sto scoprendo in questo momento da dove viene, nel mio racconto che s’intitola Il contesto, il nome Amar al personaggio del segretario dell’immaginario – ma non troppo – Partito Rivoluzionario Internazionale. Grande mistero, quello della memoria: ma, come la follia di Amleto, non privo di metodo).

Il terrore da uomo a uomo, tra i vicini, tra i familiari, è proprio alle guerre civili: ma in Spagna arrivò a un parossismo che si potrebbe condensare in questo paradossale e tragico precetto: uccidi il prossimo tuo come te stesso. Vi si era aggiunto quello che Mairaux, parlando di Stalin, chiama «pensiero statistico»: se io elimino un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un fascista, nel mondo non ci sarà più il fascismo. Pensiero di cui Hemingway ebbe precisa intuizione facendo di André Marty, in Per chi suona la campana, un personaggio: «Lui, Marty, sapeva che non ci si può fidare di nessuno. Di nessuno. Mai. Nemmeno della propria moglie. Nemmeno del proprio fratello. Nemmeno del più vecchio compagno. Di nessuno. Mai». E un caporale spagnolo racconta: «Sarà magari una gloria, ma è pazzo come una cimice.

Ha la mania di far fucilare tutti ... Ma non uccide i fascisti come facciamo noi. Uccide tipi strani. Trotzkisti. Deviazionisti. Qualunque razza di bestie strane. Quando eravamo all’Escurial ne abbiamo uccisi per lui non so quanti. Noialtri formiamo sempre la squadra d’esecuzione perché quelli della Brigata non ne vogliono sapere di uccidere i loro stessi uomini. Specialmente i francesi. Per evitare difficoltà dobbiamo pensarci sempre noi. Fuciliamo i francesi. Abbiamo fucilato dei belgi. Ne abbiamo fucilati di tutte le nazionalità. Di tutti i tipi. Sempre per motivi politici. E pazzo». Ed era il capo politico delle Brigate Internazionali.

* Tratto da Leonardo Sciascia, “Ore di Spagna”, Pungitopo editore, 1988.