La condizione esistenziale di chi, nato in un’isola, ne evade e la trasforma in un mito pervaso di struggente nostalgia, viene definita dallo scrittore Gesualdo Bufalino “ isolitudine ”. L’isola infatti è, per i nativi, come la “casa del padre”, utero e culla del primo respiro, e il suo volto dà l’imprinting che accompagna per sempre, patrimonio imperdibile e marchio indelebile di un’appartenenza. “A ccu’ apparteni chistu?” nel lessico familiare alcamese è una domanda frequente per chiedersi e chiedere: “Che origini familiari ha costui? da dove proviene?”. Ebbene, “Il vino e i gelsomini”, romanzo autobiografico della scrittrice alcamese Maria Sandias, risponde a quest’interrogativo con una ricchezza di descrizioni di vissuti, necessariamente soggettivi ma elegantemente distaccati, sicché i suoi ricordi individuali possono considerarsi memoria collettiva, sino a far accadere un evento medianico: l’autore e il lettore si scambiano le parti e l’opera si apre diventando un romanzo dove le storie si moltiplicano.

La letteratura ci offre numerose testimonianze del genere. Chi legge il massiccio (non solo in senso materiale) volume “Case, amori, universi” di Fosco Maraini, elegante scrittore contemporaneo, morto di recente (meno famoso, ingiustamente, della figlia Dacia), entra con l’autore in un mondo ricco di esperienze e mai appagato, teso verso una conoscenza profonda dell’essere umano, dei suoi gesti, della sua lingua, della sua arte. Finissimo antropologo e abile scrittore, Fosco Maraini, d’origine toscana, sposò ancora studente una bellissima e giovane siciliana, Topazia, figlia di una soprano brasiliana e del principe Alliata e con lei e la piccola Dacia si recò in Giappone, per studiare usi e costumi di popolazioni autoctone.

 

Dalla prefazione dell’autrice:

Si può vivere per tutta la vita, mentalmente, in una casa, nella casa del padre? Continuare a muoversi per quelle stanze, avendo negli occhi il colore dei mobili, la luce che le venature del legno prendono alle diverse ore del giorno; nelle dita, ancora, il contatto con la superficie di quei mobili, l’improvviso arrestarsi del polpastrello contro il vuoto di un intarsio mancante, contro il ruvido del legno logorato o spezzato? Continuare a salure le belle scale e sentirsi immersi nei colori così differenti da una stanza all’altra, nella luce che dai finestroni e dal lucernaio si spande ovunque, giocando giochi ineguali? Continuare a sentire il cigolio delle porte, lo strusciare sul pavimento delle ante, divenute troppo pesanti sui cardini, e ogni porta ha un cigolare e uno strusciare diverso, a seconda se è interamente di legno o parzialmente in vetri? Continuare a sentire l’aprire e il chiudersi delle grandi persiane che, scivolando sul davanzale, si uniscono con un breve sussulto, a chiudersi al centro? Continuare ad essere nella luce colorata di fiori del terrazzo, e il mare che si intravede fra i vasi dei gerani, in fondo, oltre il segno scuro e dritto dei cipressi del cimitero, il mare, una linea blu che dice costante che il mondo forse è infinito? Sognare di chiudersi il portone di casa alle spalle e andare per le strade, quieta, portando quella casa nel cuore, solo come un patrimonio d’amore?

Maria Salinas

Di quest’esperienza parla la scrittrice Dacia Maraini nel recente libro “La nave per Kobe”. In “Case, amori e universi” Fosco Maraini spazia negli affetti e nei luoghi con grande capacità d’introspezione fino a raggiungere il “cuore”, la ragione dell’esistere. Anche qui, tra le innumerevoli storie c’è una “casa del padre”, una casa di un Gattopardo che si chiude per sempre all’avventura umana: nel solitario bagghiu siciliano infuocato dal sole, al centro del quale è esposto il catafalco del principe, una povera demente lancia quell’urlo, oltre il quale non c’è più nulla da dire, iddu è mortu.l Sigillo ad un discorso funebre non pronunciato, rimasto sulle labbra del genero, che cercava le parole… dell’ultimo addio. L’infinitamente piccolo coincide con l’infinitamente grande, una casa è un universo… Essa contiene la vita e la morte, l’isola è un mondo … le distanze non sono reali …l’amore è vicinanza immaginaria, sogno…

 


Ciò che si ama ci appartiene per sempre. L’isolitudine di Gesualdo Bufalino, è una condizione universale, è per tutti noi una malinconia, un desiderio di ritorno, una musica triste, il vagheggiamento di un viaggio al contrario, il chiudersi di un cerchio. Ricordiamo che il grande Luigi Pirandello volle lasciare per sempre il suo corpo sotto quel pino di campagna, a Caos, dove la madre l’aveva partorito; grande privilegio ! La nostra scrittrice, Maria Sandias, che nell’introduzione al “Vino e i gelsomini” si pone un interrogativo, ci conduce nelle strade della nostra infanzia, ci fa sentire gli odori e i rumori del vento, le voci e il respiro di tutte le cose che abitano la nostra casa, finanche il tintinnio di un anello… e, alla fine, ci ripropone lo stesso testo della domanda iniziale, a sigillare l’inizio con la fine. Ci emoziona, suo malgrado, e ci allieta con i nostri ricordi.

 


Vigneti al tempo della vendemmia.

 


Filari di vite a fine estate.