Quest’anno è morto Totò Di Benedetto, parlamentare, sindaco di Raffadali per trent’anni. Uomo della sinistra la sua è una generazione di congiunzione fra antifascismo, lotte contadine e costruzione di una nuova democrazia. Brioso e solare, non fu mai ideologico nell’approccio alla politica ed alle istituzioni. Ce lo ricorda chi allora era giovane e l’ha avuto come maestro. Di vita, prima di tutto, oltre che di politica.

 

Totò Di Benedetto ha scelto il Primo Maggio, la festa del lavoro, per andarsene. Sono tanti i modi, e sono tanti i giorni in cui si può uscire di scena. E, tra i tanti modi possibili e tra i tanti giorni possibili ha scelto il Primo Maggio, in una giornata radiosa di sole , nella sua Raffadali, che da tanti decenni custodisce e rinnova come pochi altri posti al mondo un intimo legame con questo giorno di festa.

Quasi a volerci dire: “Ogni anno, quando vi radunate a festeggiare il lavoro sarò qui con voi”. In una festa che amava tanto, che lo aveva visto organizzatore e protagonista. Sempre puntuale, fin quando le forze glielo hanno consentito; inappuntabile con la sua rosa rossa al petto sul vestito scuro , con il suo cappello di feltro a guidare il corteo per le vie del paese, a salutare allegro i suoi concittadini sui balconi delle case, ai lati delle strade; a parlare nel comizio finale di lavoro, di riscatto, di libertà di democrazia.

E ieri con la banda che suonava a ritmo lento, l’Inno del Lavoro, Bella Ciao, e l’Internazionale ha rifatto per l’ultima volta il primo tratto del corteo, fino alla camera ardente allestita qui al Comune, presso la Sala della Biblioteca. Totò era fatto così. Raffadali era il suo ancoraggio, la sua terraferma, il suo , il suo punto d’appoggio, il luogo della sua ricarica.

Viaggiava, conosceva, girava il mondo , ma poi tornava qui. Dove aveva fatto giovinetto le prime esperienze, dove aveva conosciuto, lui, figlio di una famiglia benestante della media borghesia, le sofferenze e le angustie della povera gente, dei contadini, dei braccianti, degli operai, di tanta umanità dolente e offesa dalla miseria e dal sottosviluppo.

Dove aveva ascoltato da ragazzo le parole di Cesare Sessa che , come ricorda in uno dei suoi scritti più belli, gli rimasero impresse nella mente, insieme alle esortazioni della mamma a combattere contro le ingiustizie e i soprusi. Con alle spalle questa umana prima ancora che politica, e con la sua spiccata sensibilità e formazione , il passaggio tra le fila dell’antifascismo è immediato.

A Palermo dove si reca per frequentare il liceo incontra dei giovani militanti comunisti. Ne condivide le scelte, entra nel Partito in clandestinità. Tesse in tutta la Sicilia le fila dell’organizzazione, da Trapani a Ragusa; nella provincia di Agrigento, da Ribera a Porto Empedocle, a Menfi,a Santa Elisabetta.

Un lavoro arduo e rischioso, che richiedeva coraggio e abnegazione; doti personali che a Totò non mancavano di certo.

Poi l’arresto. A causa di una delazione viene smantellata la fragile rete organizzativa; in tanti con lui vengono arrestati e arriva anche la condanna a cinque anni di confino che sconta in parte in Somalia e in parte a Ventotene.

Di questo periodo ci ha lasciato ricordi vividi e palpitanti nelle splendide pagine del suo libro “Dalla Sicilia alla Sicilia”, del 1997, piene di poesia e di sentimento.

A Ventotene incontra gli altri compagni arrestati con lui; incontra Pietro Secchia e Mauro Scoccimarro; legge, studia, di tanto in tanto torna a Palermo per dare gli esami; si laurea.

Dopo avere scontato il confino torna in Sicilia, in provincia di Agrigento, a ritessere i rapporti con la rete clandestina del Partito dove già altri giovani sono venuti a rafforzarne le fila: Emanuele Macaluso, Nicola Boccadutri, Domenico Cuffaro, ecc…

Si Stabilisce a Palermo da dove continua l’opera di sensibilizzazione e di costruzione fino a quando non decide di tentare l’espatrio insieme a Graffeo.

Il tentativo, fatto nella zona di Ventimiglia, fallisce e su consiglio del Partito decide di trasferirsi a Milano dove incontra Angelino Impiduglia e la moglie, la cara e indimenticabile compagna Santina.

Quella casa, in via di Porta Nuova al famoso numero 25, diventa un centro nevralgico dell’antifascismo milanese e nazionale.

Da lì passano tutti: giovani cospiratori, intellettuali e operai, da Giansiro Ferrata ad Albe Steiner, critico letterario il primo, grafico di successo il secondo; da Gillo Pontecorvo a Mommo Li Causi, da Ingrao ad Alicata, da Guttuso a Vittorini, che, già scrittore conosciuto, dopo la pubblicazione di “Conversazione in Sicilia”, decide di iscriversi al Partito e chiede a Totò consigli su come poteva rendersi utile alla causa.

Si stampano giornali clandestini ,si pubblica L’Unità, si organizzano missioni in tutta Italia per far conoscere la lotta al fascismo. Quante volte ci ha parlato di questo periodo!

Andava orgoglioso e fiero del lavoro svolto in quegli anni. E come si poteva dargli torto. Si viveva una vita stentata, grama, piena di rischi,si rimaneva intere giornate digiuni o ci si arrangiava con mille espedienti, quando la vita invece avrebbe avuto in serbo per lui e per tanti come lui ben altro, se solo lo avessero voluto.

Ma, volerlo, avrebbe significato rinunciare ai propri ideali, alle proprie battaglie, alle proprie aspirazioni a quella che si sentiva come una missione; e Totò non era uomo di questa pasta.

Caduto il fascismo il 25 Luglio ’43, dopo la grande manifestazione di Porta Venezia, a Milano, di cui fu uno degli organizzatori, per lui ci fu di nuovo un breve periodo di carcere, con Vittorini e Giansiro Ferrata.

Le pagine che ci lascia su quegli anni andrebbero fatte studiare nelle scuole; per l’esempio che danno, per l’emozione che trasmettono, per la maestria dello scrivere, per la poesia di cui sono impregnate.

In uno scenario di privazioni, di sofferenze di tirannia di distruzione e morte causata dalla guerra e del fascismo, da quelle pagine si alza un inno alla vita, un inno alla speranza, frutto di razionalità e di ottimismo, di cui sempre saremo grati a Totò.

Dopo i bombardamenti e l’evasione dal carcere, l’avvocato Cicalini, uno dei tanti nomi di copertura usati da Di Benedetto, con un salvacondotto firmato dal Prefetto di Milano, si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il gruppo romano: Paolo Bufalini, Antonello Trombadori, Mario Alicata, Renato Guttuso, (nomi poi diventati importanti) lì e dove in una azione partigiana a difesa degli impianti, che i tedeschi in ritirata volevano distruggere, rimane ferito gravemente. Con l’aiuto di quella che sarà la compagna della sua vita, Vittoria, si riprende e torna al lavoro e alla lotta.

Dopo la Liberazione, e dopo vari incarichi in Sicilia, a Palermo, di nuovo a Milano e all’estero, tornò ad Agrigento dove fu dirigente del P.C.I. e parlamentare nazionale, nella fase cruciale delle lotte contadine e per lo sviluppo civile e sociale della Sicilia. Quella di Di Benedetto , è la generazione che fà da anello di congiunzione tra generazioni di combattenti nel movimento dei fasci dei lavoratori del 1892/94, poi represse nel sangue, i primi movimenti contadini per la terra del 1919-20, le lotte per la libertà sotto il fascismo, e quelle per lo scorporo del fondo nel periodo del secondo dopoguerra, nella rinata democrazia.

Nel 1956 fu eletto Sindaco di Raffadali e lo rimase per circa un trentennio. Questo Di Benedetto è quello che personalmente conosciamo meglio. Dirigente prestigioso del P.C.I. rispettato, ascoltato, in un gruppo dirigente di qualità che cresceva e si rinnovava con forze che non avevano fatto la clandestinità ma si affermavano nelle lotte sociali: Ciccio Renda, Girolamo Scaturro, Antonio Ritacco, Michelangelo Russo, Nino Giancani e tanti altri compagni noti e meno noti, ma tutti di forte tempre e solida passione.

Ma soprattutto diventa il “Sindaco” per antonomasia di Raffadali. Trent’anni da Sindaco; durante i quali ha accompagnato questo paese nella sua trasformazione da paese povero e rurale, a paese pieno di attività e di fervore..

“Gente laboriosa”, diceva sempre, “i miei concittadini”. E a quella laboriosità venne offerta la sponda di una amministrazione che non si limitava mai alla ordinaria amministrazione.

Le Amministrazioni di quegli anni sono un modello. Dovunque c’erano dispute sul buon amministrare, Raffadali , insieme a pochi altri comuni amministrati dalla sinistra, veniva portato ad esempio. È un periodo d’intensa opera d’ammodernamento del paese.

Raffadali si dota dello strumento urbanistico tra i primi paesi in Sicilia nel 1967, quando i comuni dotati di PRG in Sicilia si contavano sulle dita di una mano.

La biblioteca comunale, della cui presidenza andava fiero, è stata una delle prime realizzate nei comuni siciliani, quando ancora neanche i capoluoghi di provincia ne erano dotati; il Villaggio della Gioventù , il teatro, la pittura, la cultura, la cura e la tutela dell’infanzia attraverso la Settimana dello Scolaro, la colonia estiva istituita dal Comune di Raffadali, i gruppi folcloristici promossi e animati con Nino Cuffaro, suo vicesindaco e strettissimo collaboratore, e la valorizzazione delle tradizioni popolari. Era questo il modo suo per dire che il riscatto e l’emancipazione di un popolo non passavano solo attraverso il miglioramento delle condizioni economiche ma anche attraverso la crescita culturale. Oggi sembrerebbero cose normali, ma collocate in quel periodo, dicono della lungimiranza e della modernità di quell’azione amministrativa.

Era un pragmatico ed un idealista. Potrebbe apparire un paradosso, ma è così. La sua intelligenza e la profonda cultura univano i poli di quest’ossimoro che sembrerebbero inconciliabili. Era operativo e concreto; rifuggiva da ogni ideologismo anche in un’epoca in cui d’ideologia si abusava.

Per tanti anni con Di Benedetto Sindaco, con Michelangelo La Rocca alla Camera del Lavoro e Mariano Burgio all’organizzazione dei contadini, che dopo le occupazioni delle terre, da braccianti erano diventati piccoli proprietari terrieri , con Guido Gueli e Domenico Tuttolomondo ed altri compagni, questo comune creò attorno a sé un alone di simpatia, di ammirazione che andava oltre i confini della zona e della provincia e spingeva alla emulazione. La nostra generazione ha conosciuto così Totò.

Nel vivo della sua fase più performante e attiva, che irradiava rispetto e considerazione anche tra gli avversari, che incoraggiava là dov’erano più deboli le nostre forze, dove c’erano i giovani che si avvicinavano alla politica. Per questi giovani era un educatore di generazioni.

Quasi ogni domenica mattina, approfittando del passaggio sulla seicento di un compagno di Santa Elisabetta sposato a Ioppolo, con Agostino Spataro, Giovanni Sacco, allora giovani quindicenni che si erano caricati un peso più grande di loro, venivamo a trovare Totò e i compagni di Raffadali.

Era un’iniezione d’energia e di fiducia. Derideva i nostri dubbi e le nostre incertezze con ironia; ci spronava e ci coccolava. Ma sapeva anche essere critico e duro quando la nostra giovane età ci portava a compiere errori (o come durante e dopo il ’68, da giovani contestatori ci lasciavamo prendere la mano da estremismi e intemperanze). E noi a dialogare intimiditi con questo monumento vivente.

Aveva difetti, limiti, compiva errori? Chissà quanti. Come tutti del resto. Ma per noi era e rimane il mitico Totò: antifascista, partigiano, uomo della sinistra, combattente tenace, uomo aperto, brioso e solare.

Un uomo che ha attraversato la vita con furore ma anche con passo leggero, con stile quasi con eleganza. Da vero gentiluomo.