“Da qualche mese in Argentina in virtù di una convenzione tra l’Usef e l’Università di Siena, grazie alla quale sta seguendo uno stage di formazione post universitaria a Rosario. Riccardo ci informa che ha aperto un blog http://argentinamente06.blogspot.com dove, a poco a poco, andrà pubblicando foto e racconti della esperienza di questi mesi. Hasta Siempre”

Rosario

Da questa camera di ostello, affacciata su una delle vie centrali di Rosario, in cui quello del mate è diventato un rito quotidiano, piacevole e distensivo, anche per me, mi accorgo che siamo già al ventitreesimo giorno di vita rosarina. Ventitre giorni in cui è cambiato tanto (meno che nell’amata Sicilia), in cui tanti sono stati gli stimoli fornitimi da una società che, come immaginavo, si è confermata allo stesso tempo così uguale e così diversa dalla nostra.

I primi giorni a Rosario sono stati giorni di scoperta della città: strade larghe e luminose tutte parallele e perpendicolari, perfettamente ordinate in cuadras di cento metri che permettono un facile orientamento anche a chi come me ne pecca. Camminando per il centro, la prima impressione è quella di una città mediamente ricca e benestante. Sembrerebbe molto distante dagli anni in cui la crisi provocava l’assalto alle banche e ai negozi di alimenti, dai mesi in cui la disoccupazione aveva coinvolto più o meno direttamente l’intera popolazione della città che per questo aveva trovato nel trueque (baratto) la sola maniera per tirare a campare in attesa di giorni migliori.

Cattedrale di Rosario.

Di fatto oggi le vie del centro potrebbero sembrare quelle di una metropoli europea caricata all’inverosimile di negozi di abbigliamento e di telefonia, di illuminazioni pubblicitarie di centri commerciali, di spazi verdi e fontane zampillanti. Anche i volti e gli abbigliamenti lasciano intravedere una forte influenza occidentale che ha cancellato qualsiasi tipo di presenza indigena, qui come in tutto il sud.”. Fine prima parte.

Patagonia

Sono da non molto a Rosario, ho tante cose da fare e da vedere e soprattutto gente da conoscere, come i ragazzi dell’Usef con cui abbiamo già mangiato all’aria aperta il primo asado. Ma, da buon europeo non mi sognerei mai di resistere al fascino di una visita in Patagonia. E infatti non resisto e non appena ne ho avuto l’opportunità – un breve viaggio a basso costo – mi sono fiondato lì per un primo assaggio di Patagonia (alta, 1400 km a sud di Buenos Aires).

Cinque stupende giornate nella provincia del Chubut fra la città di Puerto Madryn, la riserva naturale di ‘Peninsula Valdes’, Trelew e il villaggio gallese di Gaiman ( già perché in Patagonia troverete più europei che in tante altre parti del mondo!) “La Patagonia!” quasi gridava il poeta “è come un’amante difficile! Lancia il suo incantesimo. Un’ammaliatrice! Ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più” (Bruce Chatwin, nel libro “In Patagonia”)
Caratteristici edifici tra le vie di Rosario.

Persone e “futbol”

Eccomi finalmente immerso nella passione argentina per eccellenza, quella per il futbol. Passione travolgente e trasversale a qualsiasi differenza di classe, sesso o religione. Passione loca che, vissuta in questo periodo di campionato mondiale del pallone giorno dopo giorno, mi mostra la sua forza, superando ogni mia aspettativa. Passione pericolosamente annebbiante in grado di far sognare e far dimenticare troppo velocemente, tanto che quella per il futbol si è dimostrata nel passato una passione capace di nascondere le atrocità della dittatura militare. Era il 1978, la coppia Passarella e Kempes vinceva il mondiale e la repressione dei militari raggiungeva il suo apice, i desaparecidos superavano i 25.000.

Il presidente, generale Videla consegnava la tanto sospirata Coppa del Mondo ai propri giocatori e migliaia di tifosi argentini venivano nel frattempo sequestrati, torturati e fatti sparire, perché sostenitori oltre che della propria squadra, anche di idee sgradite a qualsiasi dittatura, una fra tutte quella di libertà, in tutte le sue forme. Locura per il calcio a parte, di quella Argentina restano oggi alcuni cocci che il governo Kirchner sta provando a raccogliere, restituendo alla memoria pubblica il ricordo, i ricordi, di quelle migliaia di desaparecidos. Di loro, delle loro storie, parlo, o meglio provo a parlarne, con le persone, molte e differenti, conosciute in questo periodo di vita argentina. Sono pochi coloro che ricostruiscono chiaramente i momenti di tensione vissuti nelle proprie case, appartengono per lo più a famiglie di sindacalisti costretti ad accettare intimidazioni e callarse per non finire male. Una buona parte delle mie nuove conoscenze argentine lega quel periodo a momenti della loro gioventù in cui, se c’era da fare qualche sacrificio in casa (iniziava a spuntare il fenomeno della disoccupazione), in fin dei conti si poteva tirare a campare. Per finire alla gran maggioranza dei ragazzi, cresciuti forti (la quasi totalità affianca un lavoro allo studio) negli anni ‘80 assieme alla fragile democrazia, che la dittaura l’ha conosciuta per lo più come pagina oscura dai propri libri di storia. Una storia che mi confermano, rassicurandomi, non si ripeterà più.