La vicenda terrena di Federico II, così come ci è stata tramandata dai cronisti e dagli storici, è estremamente complessa, sulla stessa risplendono luci ma, soprattutto, si addensano ombre. Una complessità sulla quale hanno soprattutto giocato le letture che ne sono state fatte. Icona di un certo laicismo ereticale o ateistico ma, anche, simbolo dell’anticristo, ha ossessionato le menti di ammiratori e detrattori le cui passioni si sono scaricate nella deformazione di un percorso umano travagliato in un momento di passaggio epocale in cui l’autunno del medioevo fa intravedere la primavera del rinascimento. Federico è, dunque, tutto ma, anche il contrario di tutto. Mito. Non è esagerato usare questo termine per l’imperatore del sacro romano impero germanico. Dalla profezia dell’Anticristo che fra Gioacchino da Fiore evoca in un tempo che di poco precede la sua nascita, alla stessa, come si dice, ma nulla conferma il si dice, nascita plateale in Jesi, alla infanzia vissuta da quasi randagio per le vie di una città multietnica qual era in quel tempo Palermo. Ma anche questa è parte del mito leggendario, perchè ben sappiamo che visse nel grande palazzo, accudito da delfino imperiale, educato secondo le regole che presiedevano alla formazione di un sovrano normanno. Al suo fortunoso, o fortunato, cammino per assecondare un destino che lo avrebbe portato a cingere la corona imperiale nell’antica Aquisgrana, proprio sul trono ch’era stato di Carlo Magno. E lì compie un gesto simbolico, Federico colloca in un degno sarcofago le ossa del sovrano Franco, che Federico Barbarossa, nonno del nostro, aveva fatto riesumare. Un cammino sotto l’occhio protettivo del più grande papa del medioevo, cioè di Innocenzo terzo, un pontefice che, al momento della sua incoronazione, aveva richiamato per se le parole del profeta Geremia: Unto dal Signore, posto in mezzo tra Dio e l’uomo, al di sotto di Dio ma al di sopra dell’uomo, inferiore a Dio, ma più grande dell’uomo; colui che tutti giudica e non è giudicato da nessuno… Singolare è la storia della conquista di Costanza, città strategica. Mentre infatti i cuochi di Ottone preparavano il ricevimento per il loro signore, alle porte della città si presenta il giovane guerriero con un piccolo drappello fornito dal vescovo di Coira. Bastano poche parole, la lettura della bolla papale che condanna il fellone Ottone, perché le porte della città si spalanchino per lasciare entrare l’imperatore designato. Al povero Ottone non rimane nemmeno il piacere di gustare quei cibi succulenti che i suoi cuochi ora stavano servendo a Federico ed al suo seguito. Un miracolo di coraggio ma, soprattutto, il favore della dea bendata che l’aveva preso sotto le sue ali protettive e che ora lo conduceva nel cuore della Germania. L’ultima carta di Ottone, a Bouvines, dove, alleato dello zio Giovanni senza terra, tenta il riscatto contro l’alleato più forte di Federico, quel Filippo Augusto che avrebbe fondato la monarchia francese. Imperizia e ottusità di Ottone e compagni consentono al sovrano francese di cogliere una vittoria inaspettata che metteva la parola fine alla vicenda di Ottone. Sul campo restano le insegne imperiali che Filippo Augusto raccoglie, come sacra reliquia che, devotamente, ricomposte verranno consegnate a Federico ormai incontrastato dominatore. La pietà del giovane imperatore ferma la mano della vendetta. Sembra che quel cammino, lungo e periglioso, si sia alla fine concluso, che ormai lo attenda la cura di un impero che vuole ricreare i fasti dell’impero romano. Eppure, proprio allora, un nuovo capitolo si apre. Federico prende la Croce e giura di allestire una crociata per riscattare le terre profanate dagli infedeli. Cosa lo spinge ad una così grave decisione? Un mistero che può trovare una risposta nell’esaltazione del giovane sovrano il quale con la corona si considera investito di una responsabilità, la responsabilità di essere un imperatore cristiano. Viene fuori il disegno vero di Federico, il disegno di un despota curioso intellettualmente, spregiudicato, cinico, appunto, fino alle più remote conseguenze. Un despota che non tollera altro potere, che non tollera altra autorità, che tutto pretende di invadere. Imperatore laico ! Ma di laicità si può parlare in un tempo in cui il concetto di laicità era sconosciuto? Più verosimilmente, imperatore come pontifex maximus, che reclama sul suo capo sia il potere civile che quello religioso. Non che a Federico importasse molto della religione, non che per Federico Dio, la Chiesa, la sua organizzazione terrena avessero un senso tale da implicare problemi di coscienza. Ma Dio, la Chiesa e la sua organizzazione terrena erano necessari e utili per il consolidamento del potere. Bisognava che Federico si ponesse al di sopra delle istituzioni religiose, che occupasse la Chiesa. Federico dunque fondatore di una teocrazia il cui vertice era l’imperatore per la saldezza del potere. Altro che rapporto dialettico con il pontefice romano, altro che laicità, qui siamo sul versante opposto. È il rovesciamento della concezione che il suo tutore, Lotario dei conti di Segni, cioè Innocenzo terzo aveva proclamato nel momento della sua elezione a pontefice romano. Federico non sopporta che alcuna autorità, perfino morale, possa giudicare i suoi comportamenti. Egli è l’imperatore, l’unto del Signore, il modello che un ignoto artista aveva effigiato in un angolo del mosaico della Martorana a Palermo. Gesù Cristo che incorona direttamente Ruggero II e lo pone al di sopra di qualsiasi autorità terrena affidandogli la Chiesa e il regno. Ed allora, ecco il sovrano divinizzato, che non tollera l’eresia, eresia che diviene crimine di lesa maestà; l’eretico turba infatti l’ordine. Gli atti che seguono la mitica ascesa sono tutti inquadrabili in questo disegno, anche quelli che sembrano sfuggire alla dura logica del potere. Il mito di un Federico roso da una infrenabile curiosità intellettuale.
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Il fatto che favorisca gli studi, che tenti un’operazione che qualche anno dopo la sua morte, nella splendida Firenze, abbia avuto felice esito con la nascita ufficiale della lingua italiana, che si esalti di fronte alla grandezza del passato o di fronte alle raffinatezze dell’oriente – si ricorda che proprio Federico attraverso il filosofo Michele Scoto conservò e fece conoscere le profondità della filosofia araba bandita in patria – non vuol dire ch’egli si distacchi dal suo disegno per volare alto, molto più in alto di quei versi plumbei ch’egli traccia per non essere meno dei suoi compagni. Tutto si muove in un disegno, il potere… il potere ed ancora il potere. La scuola poetica siciliana ne è esempio. Quella scuola, quel cenacolo stimolato a comporre seguendo la moda dei trovatori provenzali o dei minnesanger tedeschi, è uno strumento eccezionale per tracciare un disegno di potere. Anche la lingua, per Federico, non doveva subire condizionamenti, la lingua doveva essere la sua lingua, non il latino che era la lingua della chiesa. E le istituzioni di formazione, le istituzioni che dovevano formare il personale servente per la sua struttura di potere, potevano essere forse lasciati alla Chiesa? | Cattedrale di Palermo. |
Ecco che le istituzioni che Federico crea sono altre rispetto a quelle tradizionali, non più Bologna, non più Parigi, luoghi che per secoli avevano formato i burocrati e gli intellettuali, sì intellettuali come ci ricorda Jacques Le Goff, piuttosto Napoli o Salerno nuovi riferimenti per l’elaborazione di una cultura che non fosse controllata dal clero. Federico infatti, in un’epoca di grandi sconvolgimenti fu, dunque, polutropon un “uom di multiforme ingegno”.? Certo, lo fu ma, diremmo abusando di una nozione estranea al tempo del nostro, lo fu per ragion di Stato. È atrofizzato in lui ogni rapporto autenticamente umano e ciò che resta – come unico valore – è un algido culto dell’Io, un processo di autodivinizzazione che sfocia in un distacco onirico dalla realtà causa ultima dei suoi trionfi ma, soprattutto, della sua rovina. Potere che si trasforma in avidità, avidità che produce isolamento, solitudine. A tal proposito un capitolo singolare è quello di Federico e le donne. Anche qui il sovrano mostra una incredibile fragilità che si trasforma in possesso brutale. Come poteva infatti un uomo cresciuto in un deserto affettivo trovare la via dell’amore in un altro sesso? Se si eccettua Costanza d’Aragona, che un po’ per la differenza d’età, un po’ per l’esperienza che al giovane Federico mancava, fu più madre che sposa, con tutte quante furono sue legittime consorti e con quante gli furono temporanee compagne, il trattamento fu quello di un arrogante maschilismo in cui la donna era solo strumento di piacere e, nella migliore delle ipotesi, fattrice di prole. Ne fa fede il trattamento nei confronti di Isabella di Brienne, di Bianca Lancia, della stessa Isabella d’Inghilterra, di Alyata di Ursilingen e di tante, tante altre che frequentarono la sua alcova. Relegò le sue mogli e le sue compagne occasionali nelle gabbie dorate dei suoi harem saraceni. Potere e avidità che lo portano a non comprendere che la reductio ad unum, l’assoluto impraticabile, si sarebbe potuta realizzare solo con il riconoscimento dell’esistenza di altri centri che meritavano rispetto e considerazione. Federico non è più avanti del suo tempo, è invece un principe che guarda indietro, che resta prigioniero di un passato che non può tornare. Resta così prigioniero delle interpretazioni o delle strumentalizzazioni come quelle attuate dalla cultura tedesca dell’ottocento, cultura dominante a livello planetario, che deformò la sua figura facendone il simbolo della potenza tedesca e della sua missione di dominatrice del mondo. Un mito deformato dunque, un mito fragile come fu fragile la sua persona, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Un grande imperatore che si accorge di essere solo un uomo, un uomo tormentato dai fantasmi della sua esistenza, ossessionato dalle grida dei cento e cento delitti commessi, che si affida agli oroscopi, ai veggenti, che in quel Castel Fiorentino, dove nel 1250, era stato trasportato in preda alla febbre,udendo il nome del luogo e vedendo che il suo giaciglio si trovava davanti ad una porta murata dai battenti di ferro, riconosce le parole del veggente. Ecco il luogo della mia fine, a me predestinato. Sia fatta la volontà del Signore. |