Questo il titolo dell’ultima fatica dello scrittore siciliano Biagio Scrimizzi; nostro valente ed apprezzato collaboratore. La prefazione curata da Luigi Vayola e pubblicata contestualmente al libro, ne esprime un giudizio critico e lo presenta ai lettori. La riportiamo qui di seguito. |
Leggendo questa ultima fatica di Biagio Scrimizzi mi sono accorto di quanto il titolo – forse incosciamente per chi lo ha scelto – fosse appropriato al testo. La signorina Fina interrogava le stelle, cercava di indovinare la ventura, di conoscere l’inconoscibile, di avvertire prima i fatti e cercare poi di scansarli. Senza saperlo la Signorina Fina era una maga, come magico è questo libro senza avere la presunzione di dirlo, forse senza saperlo neanche lui. La magia di questo libro di memoria – e non di memorie – sta tutta nel suo modo originale di rapportarsi al passato e di farcelo vivere come presente. Una memoria senza malinconie, costruendo per racconti autonomi le esperienze dei primi anni di vita e della giovinezza, raccordandosi a sacrifici familiari, a speranze e dolori senza drammatizzare, a cogliere il filo di continuità nel tempo senza fare un sommario di ricordi, senza essere, cioè, né diario né presuntuosamente pedagogia. Un passato come fiaba, come se il tempo di Betta Filava fosse magicamente tempo presente. È magico il modo di raccontare il legame ai tempi ed ai luoghi dell’esperienza del vissuto per descrivere un ambiente sociale che nella sua piccola particolarità è uno spaccatoverità di una condizione generale di vita collettiva economica e civile. Il racconto ha questa suggestione magica perché con efficace capacità descrittiva e con un forte accento di sentimento suscita nell’animo del lettore altrettanti legami sentimentali e lo proietta in una dimensione surreale di un tempo lontano, oramai passato se pur non dimenticato: per il lettore che lo ha vissuto lo rivede nella sua sofferta semplicità esistenziale, per chi no – e penso ai giovani lettori – lo immagina come passato storico e tuttavia come lontana esperienza familiare. Ma il racconto di Scrimizzi non è storia, tratta certo di vita trascorsa, ma non di un lontano passato. È memoria, non è storia. Da qui due banali considerazioni:
La suggestione di questo libro sta, ripeto, di non essere un diario, né di voler essere pedagogico, insegnare e consigliare. L’Autore ripercorre il suo vissuto da ragazzo, da studente, da giovin attore con leggerezza ed autoironia. Racconta dipingendo quadretti perfetti, deliziosi, vivaci suscitando sorriso, malinconia, partecipazione. È questo il piano di lettura del vissuto: il legame con la mamma, la casa, la spiaggia, la scuola, la compagnia di teatro. Ma che maestria in questi quadretti, che felicità di lettura. Leggetevi la Signorina Fina con le sue magie; il cappotto prestato per la serata di ballo; l’incontro con l’oriundo siculo-americano che ti sottolinea l’educazione col suo presuntuoso ed ingeneroso “please” e la generosità del negro; la gita scolastica ed i primi palpiti d’amore; la grande attrice che fa cena in camera, ma aiuta; la compagnia di guitti e la generosità di un umile amante di teatro; fare teatro con la fame e, il racconto-quadro proprio da sottolineare, il viaggio di nozze con la moglie tanto amata. E poi c’è il piano della società dentro cui ci si muove, che attornia e condiziona il vissuto e che Scrimizzi guarda con affetto, senza mitizzarla e senza giudicarla. Anche qui dipinge, descrive col pennello: il verde del bosco,le stradette di paese ed i viottoli di campagna, gli animali domestici, i fiori. Ma non si tratta solo di una dolce natura teocritea, vergine ed idilliaca. C’è la fatica, del padre e della gente contadina, il sudore del caldo, la difficoltà del campare e del lavoro, del mettere assieme il pasto del mezzogiorno e la cena della sera. Non è stata facile la vita del ragazzo Scrimizzi e non era facile la vita in quello scorcio della seconda metà del ’900. L’A. ricorda la guerra e la sua casa distrutta, lo sfollamento per salvarsi dalle bombe, i lutti e le lagrime, il lavoro manuale per racimolare qualche soldo e poi l’ambiente della scuola lontano da casa con le relative solitudini, le pensioncine per studenti, i colleghi. L’A. non ha fatto la guerra, ma l’ha subita tutta per anni e anni, non ha fatto il militare, ma ha conosciuto i militari: tutti, quelli nostrani, i tedeschi, i liberatori. E nella memoria trovano il loro posto doloroso senza enfasi e senza eroismi. La suggestione di questo aspetto sociale del libro è nel modo come è ricordato e descritto. Penso mentre scrivo: l’esperienza del lavoro manuale alle dipendenze dei militari alla fine della guerra in Sicilia; il trattamento dei padroni della pensione di studenti per il ballo con l’esilarante e commovente episodio delle scarpe; la descrizione dei due professori di liceo. Due insegnanti e due metodi: quello serioso in cui l’insegnare è visto come categoria dell’apprendere e dell’informare e l’altro, amicale, per cui insegnare è trasmettere saperi, educare soprattutto, formare. Suggestiva ed esemplare la memoria dell’ambiente del teatro. L’anno d’oro con i successi e le soddisfazioni della compagnia di Rosina Anselmi e quello di ferro della “compagnia sociale” di Don Natale caracollante per paesini di Puglia e tra paesani indifferenti e pieni di problemi. Leggendo la descrizione di Scrimizzi mi sono ricordato della celebre frase di un capocomico del tempo – a fine spettacolo quasi ogni sera – rivolta ai suoi attori: “ragazzi non c’è soldi, non c’è paga, non c’è cena…c’è solo amore, se potete”. E voglio finire ricordando anch’io con commozione Lilla ed il viaggio a Serra San Bruno e le parole del Signor Eugenio; “Non devi sentirti vinto. Devi sentirti forte. Ogni uomo forte raggiunge immancabilmente ciò che il suo istinto gli suggerisce”. In fondo è questo il vero insegnamento del libro che vi state accingendo a leggere. |