Un giorno di marzo del 1212, Federico II, re di Sicilia lascia Palermo, chiamato dai principi tedeschi, per iniziare l’avventura che lo porterà, nel giro di qualche anno, ad Aquisgrana, la capitale dell’impero di Carlo Magno, dove avrebbe ricevuto la corona di sovrano di Germania e di imperatore. Prima di lasciare Palermo il futuro imperatore compie un atto quasi dovuto, associa nella responsabilità regia il figlio Enrico e ne lascia la reggenza di Costanza d’Aragona sua sposa.. L’avventura imperiale, che assorbirà totalmente la sua persona, lo sottrarrà definitivamente alla Sicilia, nel corso della sua esistenza infatti, vi farà ritorno due volte, e per non lunghi periodi, solo perchè richiamatovi dall’urgenza di ristabilire l’ordine,.

Nonostante questo comportamento sembri manifestare disinteresse per le sorti dell’Isola, tuttavia, l’amore di Federico per la Sicilia resta presente al punto da fargli manifestare il desiderio di essere sepolto a Palermo. Il corpo dell’imperatore, deceduto il 13 dicembre del 1250, rivestito del saio dei monaci cistercensi, raggiungerà Palermo dopo un lunghissimo viaggio e qui verrà sepolto nella cattedrale di Palermo accanto al padre, Enrico VI, la madre, Costanza d’Altavilla e alla prima, e forse la più amata, sposa, Costanza d’Aragona. Ecco come potrebbe essersi svolta la partenza. La cerimonia si era appena conclusa, il neonato si agitava, fra le braccia della balia, insofferente alle carezze ed ai richiami della madre.

Federico, appesantito dai paramenti reali, seppure soddisfatto di quanto era si era appena consumato nella cattedrale, sembrava però avere la mente lontana, lontana da quanto gli stava attorno ed i suoi occhi, coperti da un sottile velo di tristezza, erano perduti nell’immensità degli orizzonti che, improvvisamente, gli si erano dilatati davanti. Sentiva, infatti, su di sé la consapevolezza di vivere una storia che andava al di là della sua stessa volontà, di essere in balia del destino, sì, trascinato da un destino sul quale sembrava non potesse incidere il suo sigillo. Le parole del vescovo erano state chiare, Innocenzo, colui che l’aveva preso sotto le sue ali facendone splendido pupillo di un grande disegno, l’aveva sciolto dalla tutela, gli consegnava la pienezza dei suoi atti ma, ad un tempo, lo costringeva a seguire una strada, strada gloriosa, che l’avrebbe definitivamente strappato alla modestia di una quotidianità che, fra le braccia della sua Costanza, lo rafforzava, appagandolo di quegli affetti che un fato perverso gli aveva negato.

Ed ecco, ora, l’invito perentorio dei principi di Germania che lo chiamavano come proprio re, in virtù di una discendenza la cui memoria vibrava ancora nel cuore degli alemanni, contro Ottone che, pur unto con il sacro olio imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, aveva tradito le promesse e si era mostrato uomo da poco, pronto al tradimento.

Federico, aveva sperato che quell’invito non fosse gradito al grande Innocenzo, le sue preghiere però erano rimaste inascoltate. Ed ora eccolo, dopo avere unto re di Sicilia il figlio Enrico, pronto a lasciare tutto quanto gli era stato per anni caro: i compagni di gioie e di dolori, la dolce Costanza ed il tenero frutto del loro amore e tutto questo per correre dietro ad un sogno, il sogno di un impero universale, il sogno di una nuova cristianità che rendesse giustizia agli uomini e celebrasse il trionfo della Croce.

Assorto in quei suoi pensieri, non si era accorto dello sguardo intenso che da qualche istante gli rivolgeva Costanza, anche lei, per quanto fosse abituata ad essere figlia del destino e pronta ad accettare quanto esso gli offrisse, anche le sentiva il peso di quel momento, un peso che neppure la gioia di quel giovane virgulto, da poco consacrato re di Sicilia, riusciva a lenire. Federico incontrò lo sguardo di Costanza e la risposta fu un sospiro, niente di più normale che un sospiro dentro il quale c’era quel “fiat voluntas Dei”, a cui la sua dignità l’assoggettava. Costanza raccolse dalle braccia della balia il figlioletto Enrico e con un gesto di una semplicità disarmante lo consegnò a Federico. “Se pensare Costanza ti fosse penoso, la memoria di Enrico, di questo nostro figlio, ti renda gioia.”
Palermo, Chiesa S. Cita, particolare degli stucchi del Serpotta.

Federico raccolse il bambino e si sentì assalito dalla commozione, a stento riuscì a trattenere le lacrime mentre poggiava le sue labbra sul corpicino di Enrico. La feluca, sulla quale aveva preso posto Federico, era pronta a lasciare il porto di Palermo, la leggera brezza che dal primo mattino aveva iniziato a soffiare avrebbe reso più lieve la navigazione.

Accanto a lui aveva preso posto l’arcivescovo che, secondo il comando di Innocenzo, si era impegnato ad accompagnarlo almeno fino a Roma condividendo i rischi del viaggio. “ Monsignore, la voce di Federico normalmente ferma vibrava di incertezza e di commozione, ieri ho percorso la città in lungo ed in largo, ho sentito il bisogno impellente di fissare indelebilmente nella mente i luoghi che lasciavo quasi che non li dovessi più rivedere. “ L’arcivescovo, come se stesse raccogliendo la confessione di un fedele, si pose in atteggiamento di ascolto e di raccoglimento.

“ Sì, ho percorso questa città che, pur non avendo esperienza d’altre, penso che sia la più bella fra quante ornano le terre d’occidente.” “Maestà quel che voi dite corrisponde al vero:” Federico si sentì confortato e, in quel momento di grande intensità, non sospettò nemmeno che, dietro la conferma del prelato, ci potesse essere un tratto di piaggeria. “ Ho osservato a lungo i magnifici edifici che hanno elevato i miei antenati normanni, le chiese, i palazzi, le mura ed i giardini, ho percepito che Palermo è un sogno. Le sue cupole, i suoi profumi, i suoni. E le sue genti… greci, franchi, arabi, ebrei e quanti altri nel nostro Mediterraneo albergano hanno trovato qui, a Palermo, una casa, perché qui nessuno si sente straniero ed ognuno porta la sua storia, la sua cultura, il proprio dio senza il timore di offese.

“ Il vescovo aveva abbandonato la sua ieratica immobilità, le parole di Federico penetravano nel suo cuore come lame che s’insinuano nella carne. “ Monsignore, io sento che la gloria che, con l’aiuto di Nostro Signore Gesù Cristo, si poggerà sul mio capo, ben poco potrà compensare la perdita di quanto sto lasciando.” Il vescovo rimase turbato da quelle parole, il suo intuito politico ne leggeva oscuri fili. “Ma mio signore, quanto santa madre chiesa ha tracciato per voi è infinitamente più grande delle…- stava per pronunciare il termine “miserie” ma si trattenne - infinitamente più grande del destino che questa terra potrebbe riservarvi.” “ Sì, è vero, ma monsignore le nebbie del nord, il gelo delle terre ed i popoli dai barbari costumi che andremo ad incontrare, mai e poi mai potranno farmi dimenticare lo splendore di queste immagini: il sole che illumina di una luce incredibile la nostra terra, il profumo dei limoni, la bellezza dei paesaggi che sono dono privilegiato di Dio.

Ogni uomo deve seguire il proprio destino, la nostra storia sta scritta in un libro che solo a Dio può leggere, ed io come figlio diletto della Chiesa non posso che seguire quel destino, ma ciò non mi può esimere dalle considerazioni che ho già fatto.” Stavolta la voce di Federico era accorata, sembrava fosse sul punto di cedere, di abbandonarsi al sentimento. “ Mio signore, è vero, questa terra è prediletta da Dio e su di essa c’è la benedizione di papa Innocenzo che Costanza, vostra madre, ha impetrato nell’ora della morte affidando voi, appena nato, alla sua sacrale tutela. Ma voi non siete un uomo fra i tanti, voi siete l’ultima gemma di una grande stirpe, in voi si racchiude il destino di tante genti, voi siete il re e domani l’imperatore, voi siete la spada del santo romano pontefice, questo è il vostro destino al quale - la voce del vescovo si fece più intensa – al quale non potete sfuggire.”

 

Federico diede ancora uno sguardo alla banchina dove era ben visibile Costanza che gli mostrava il figlio Enrico, poi con voce ferma si rivolse all’ammiraglio ordinandogli di sciogliere le gomene e di prendere il largo. “ Monsignore, seguirò il mio destino, ma in questa terra vorrei che almeno il giorno in cui non sarò più riposassero le mie ossa per sempre.” Il vescovo non rispose, quel desiderio era un ordine e nessuno vi si sarebbe sottratto. Lentamente, l’imbarcazione si allontanò dal porto, in poco tempo grazie alla brezza furono al largo, il sovrano intanto aveva guadagnato la poppa e dal punto più alto osservava il profilo di monte Pellegrino mentre il suo volto si rigava di lacrime.
Palermo, Piazza Marina.