Una notte di giugno caddi come una lucciola Sotto un gran pino solitario In una campagna d'olivi saraceni Affacciati agli orli di un altipiano d'argille azzurre Sul mare africano “Frammento d'autobiografia”

di Luigi Pirandello

 

Youssef, 40 anni di cui più di 15 passati in Sicilia, dove è arrivato da Tunisi a 27 anni. Ormai è cittadino italiano ed ha sposato una siciliana, ma mantiene la cittadinanza tunisina. Fa il cuoco nel migliore ristorante di una bella cittadina siciliana, nel migliore albergo. Qualche giorno fa l’ho intervistato, mentre, in uno dei suoi rari giorni di riposo si occupava insieme alla moglie Ada della nuova casa che hanno da poco acquistato in pieno centro storico. Youssef non è solo un cuoco. È un artista, ama l’arte. La musica, intanto. Anzi, al suo ingresso in Sicilia è stata proprio la musica suonata nei pubs a dargli da vivere e a fargli incontrare Ada con cui fu amore, amore a prima vista. Di musica ne ha anche composta ed arrangiata, mescolando le percussioni ripetitive e coinvolgenti della musica popolare di radice berbera e africana con i ritmi occidentali; ed ai matrimoni degli amici non disdegna di cantare. Ma la sua passione è la scultura. Passione cominciata da bambino quando intagliò il piccolo tronco legnoso del limone di casa che si trovava lì alla portata del suo coltellino, nel cortile interno della casa di Tunisi, dove viveva la grande famiglia patriarcale: padre, madre, fratelli, sorelle, nonne e zie. Lì, nell’ombra sonnolenta del primo pomeriggio, mentre la mamma con le altre donne di casa aiutavano la vicina a fare i 300 kg di cuscus da conservare per i mesi successivi nel grande orcio del magazzinetto; lì, mentre il padre era fuori al lavoro e i fratelli gironzolavano tra le gonne delle donne, perché in strada faceva ancora troppo caldo; lì nel fresco tiepido del cortile, Youssef bambino intagliava il tronco profumato, scolpiva la sua prima figuretta.

“Al suo ritorno mio padre vide la faccia intagliata nell’albero di limone, che stava lì da quando avevamo comprato quella casa e non disse niente. Ma l’indomani presto mi svegliò e mi fece piantare una piccola piantina dicendomi che era mia. Me la fece curare, innaffiare, crescere e dopo qualche anno mi disse di scipparla perché doveva farci un bastone. Lui era così, mai le mani alzate, ma il rispetto di uomini e cose l’ho imparato da lui. E da quella prima volta i miei totem, che scolpivo pensando ai fumetti di Tex Willer, li scolpii sulle grucce di legno o sulle scope di mia madre, che mi prendeva regolamente a scopate, rincorrendomi per tutta la casa”.

Prima o poi Youssef tornerà a scolpire il legno, sezionando la figura umana e reinventandola come piace a lui, incidendo nella materia dolce e nodosa del legno, duttile quanto la forma, il colore e la levigatezza dei suoi sogni. Ma torniamo a quei giorni, l’infanzia a Tunisi.

“La mia famiglia è stata sempre molto importante per me. Ancora oggi quando torno, è una festa. Ma tanto è cambiato dalla mia infanzia. Allora la famiglia era tutta la strada, era il vicinato. Si stava insieme, ci si aiutava a fare il cuscus, che si preparava per tempo in grandi quantità e si conservava in orci di coccio, per mesi. Noi bambini giocavamo per strada e le porte delle case erano sempre aperte: entravamo ed uscivamo da una casa all’altra e non c’erano porte a dividere i nostri giochi. Il pallone che finiva nella casa del vicino senza chiedere permesso come se fosse la nostra casa. E così anche le sgridate degli adulti ai nostri giochi rimbalzavano da una casa all’altra. Solo più tardi la crescita mia e dei miei compagni di giochi ci ha portato alla lenta e per certi versi dolorosa scoperta di un io individualista, plasmato dalla televisione e sospinto dai modelli vomitati da quella scatola grigia che ormai occhieggiava in tutte le case. Come sia falso lo scintillio di quelle immagini trasmesse e come sia lontano il benessere promesso da quella scatola infernale te ne accorgi solo dopo, quando in Occidente ci arrivi, sospinto da falsi miti. Quando sei a Tunisi o a Marrakesh o ad Algeri pensi che potresti fare di meglio e ti viene voglia di scappare per raggiungere questo meglio.”

Youssef rivive quel momento e gli occhi grandi e mobilissimi nel suo faccione incorniciato dalle molteplici treccine della sua capigliatura tanto arruffata da dover essere così domata, si velano della malinconia del ricordo.

“Ognuno di noi ragazzi ormai cresciuti, pensava di andare via e si chiedeva perché restare. Io a poco a poco cominciai a sentirmi sempre più isolato, a non comunicare con i miei amici. Le discussioni rimanevano le stesse – le donne, il pallone – ed il futuro sembrava stare solo nell’andare via. Io facevo atletica leggera e tante volte ero uscito dalla Tunisia con la Nazionale per giocare in altri paesi della riva mediterranea. Avevo già avuto contatti con la Sicilia e con l’Italia: l’estate, infatti, per aiutare una numerosa famiglia, lavoravo nei villaggi turistici della costa dove incontravo tanti italiani. Parlavo già l’italiano e mi affidavano i gruppi italiani e facevo ante amicizie. Così un giorno mi sono deciso e sono partito. A 27 anni sono approdato in Sicilia. Pur avendo subito trovato un lavoro, ho tribolato per anni con la burocrazia, quella italiana e quella tunisina, ed ho anche vissuto una breve esperienza di clandestinità. Dal 1994, dopo l’ennesima sanatoria, risultavo avere un lavoro indipendente – suonavo nei locali e nei pubs – e guadagnavo abbastanza da tirare avanti. Ma non bastava; per via degli accordi di reciprocità italo-tunisini, per restare bisognava avere un lavoro dipendente. Così lasciai la musica che mi piaceva tanto e feci il bracciante agricolo e poi ho cominciato a lavorare nel campo della ristorazione, come adesso”.

Ada, la bella e dolce moglie siciliana, lo ascolta ma non parla.

“Lei – dice Youssef – mi conquistò subito, fù amore a prima vista. Un amore semplice e felice, senza complicazioni, senza contrasti nelle rispettive famiglie. Ci sposammo. Una volta che un giornalista venne ad intervistarci pensando ad una storia d’amore difficile e contrastata, complicata dalla religione e dai diversi costumi – io sono musulmano e Ada è una cattolica praticante – dovette tornarsene con le pive nel sacco. Non c’era niente di particolare da raccontare se non, forse, l’assoluta naturalezza di quelle scelte e di quelle vite”.
Sosta prima della partenza. (foto Marchese)

Youssef ci dice che le religioni si assomigliano, che sui valori ci si intende benissimo, anche tra popoli diversi. La parola integralista suscita terrore perché i media la strumentalizzano. Integralista è un musulmano od un cattolico che crede nella sua religione e che vuole insegnarla agli altri per adesione profonda a quei valori. Il pericolo è l’integralista armato da chi lo strumentalizza per combattere i suoi nemici e lo piega ad un potere che se ne frega dei valori e del comune linguaggio che è sotteso ad ogni religione umana .

“In Tunisia – dice Youssef – non siamo veramente musulmani e non siamo veramente laici. Ed i cattolici sono tanti!” L’occidentalizzazione della Tunisia è proverbiale. Ma è anche un po’ selvaggia. Basta guardare le grandi arterie che circondano in perenne assedio la Kasba e la Medina di Tunisi, o i grandi ed un po’ tristi centri commerciali, o gli alberghi dove la danza del ventre viene ballata in squallidi stanzoni con la moquette, le palme finte e l’odore di muffa. Anche il Marocco è molto occidentalizzato. Ma là ci tengono ancora molto alle loro tradizioni, lo si vede negli abiti, nei cibi. In Tunisia siamo già alla seconda generazione che ha quasi completamente perso di vista la cultura tradizionale e si proietta acriticamente verso l’Europa. I miei libri di testo alle elementari raffiguravano una tipica famiglia tunisina (il papà con il copricapo rosso, la mamma intenta a fare il cuscus, i figli, tanti, come una piccola ciurma colorata). Oggi i libri delle elementari dei miei nipotini raffigurano il papà seduto in poltrona con la pipa in bocca ed il giornale tra le mani, la mamma che sfaccenda nella cucina all’americana e così di seguito. Tutto porta forzatamente verso l’occidente. Pare che non ci sia altro futuro, per questo la gente rischia di morire per raggiungerlo. E tanti, i meno intelligenti, pur non cadendo in mare, cadono nelle maglie di qualche ingannevole trappola e quando tornano con i loro soldi facili, assomigliano alla peggiore umanità di tante periferie delle città occidentali”.

La Tunisia è il Magreb, ma il Magreb non è solo la Tunisia. La Tunisia è Africa, ma da questa, dall’Africa “nera”, è separata da un formidabile deserto, che nel tempo l’ha protetta ed isolata, ma anche fortemente attaccata a sé. La Tunisia è Mediterraneo, tanto e più di altri paesi che si affacciano sulle sue sponde. Il deserto ha diviso, il mare unisce. Per la Tunisia è il Mediterraneo la vera nuova identità da esplorare e da fondare in un recuperato amore per le proprie radici, che è sempre pericoloso divellere. La Tunisia, come tutto lo spazio magrebino, è una mescolanza di berberi impastati con le trasmigrazioni arabe che vi hanno innestato la religione musulmana. Ecco la triplice identità della Tunisia odierna: mediterranea (e solo per questo europea), musulmana, africana. Dice Youssef:

“Il resto dell’Africa ci considera europei e occidentali. Io sono nero, perché mio padre è di origine libica, ma i tunisini si sentono e sono considerati “bianchi” dagli africani a sud del deserto. D’altro canto i tunisini vedevano con diffidenza i neri d’Africa, perché i francesi avevano usato come fanteria per le loro truppe coloniali i neri del Sud e del centro Africa per reprimere le rivolte tunisine divampate prima dell’indipendenza . Quando mia madre si innamorò di mio padre e lo sposò, una delle “nonne” del quartiere, la più vecchia, scappava sempre in casa all’arrivo di mio padre”.

L’identità mediterranea, più mondi diversi uniti da un mare di cultura, di economia e di valori. La sapremo costruire? Sono in atto molteplici iniziative per lo sviluppo di un vero spazio euromediterraneo, la più importante delle quali è la realizzazione di un’area di libero scambio entro il 2010 in attuazione degli accordi di Barcellona. Ma tante sono le iniziative delle Università siciliane. A Palermo il preside della facoltà di lettere, ha avviato corsi di letteratura italiana con l’Università di Bengasi. A Catania, il rettore Latteri, ha avviato un progetto di partenariato in ambito scientifico e tecnologico con la Siria, la Giordania ed il Libano. Qualche giorno fa a Palermo si è tenuto un importante incontro tra i governi, le imprese operanti nello spazio mediterraneo e le rispettive associazioni industriali. Nel nostro piccolo anche “Emigrazione Siciliana” intende contribuire a questo obiettivo di unire attraverso la conoscenza e lo scambio. Alla fine di febbraio una delegazione si è incontrata con gli emigrati siciliani in Tunisia ed ha anche stabilito rapporti interessanti con la stampa italiana a Tunisi.

Ma di queste singole iniziative parleremo in altri articoli. Intanto, per ora ci congediamo dal nostro amico Youssef, cittadino siciliano e cittadino tunisino e domani euromediterraneo, non prima di avergli chiesto che cosa cucinerà oggi ai suoi ospiti.

“Nero di seppia con il pesce a guarnire la pasta. Da noi il nero non si cucinava e non si mangiava. Si buttava e le seppie venivano vendute pulite. Questo piatto l’ho imparato da voi, in Sicilia. Ma gli aromi che uso sono quelli della macchia mediterranea, e quelli sono gli stessi in Sicilia come in Tunisia”.

Anche la cucina, se se ne mantiene l’identità, e non si cede ad hamburger e patatine, può servire ad unire.


Confronti. (foto Marchese)