Mi pare ci siano molteplici motivi per trovare interessante un libro come il tuo. Il più importante? La Sicilia è al centro del Mediterraneo, ponte tra Europa e Mediterraneo.

Sì, è vero, la Sicilia è un ponte, lo è sempre stato, dal presente più prossimo al passato più remoto. La sua storia si confonde con quella di coloro che l’hanno visitata. È un ponte ed un incomparabile luogo di memoria. Ed è un’isola e proprio perché isola, quindi interamente dominata e circondata dall’acqua, si presta ad una impalpabile fluidità del linguaggio che procede senza incontrare asperità. In tutto ciò, mi chiedi qual è il ruolo della cultura. Beh, senza di essa, il ponte non sarebbe possibile, anzi, nulla sarebbe possibile. Tutto parte da lì. Ricordo volentieri un concetto espresso da Fernand Braudel: l’intera storia del Mediterraneo è una molteplicità di conoscenze che rappresenta una provocazione per ogni ragionevole sintesi. Chi vi nasce non nasce su una terra ma su una riva e quelle acque altro non sono che il simbolo di un’osmosi fra Oriente ed Occidente. La Sicilia è dunque un ponte geografico, storico, linguistico, sociale, religioso verso il Magreb, ovvero l’altra sponda, del Mediterraneo, di un altro continente, di un’altra realtà, di una terra dilaniata nei suoi progressi e processi culturali dalla storia recente.

Che ruolo ha la cultura nel costruire questo ponte? Ed esiste una “politica culturale” in questa direzione, da parte delle istituzioni, la Regione, le Università o altro?

Certo, la cultura ha un ruolo nel senso che tutto passa attraverso la cultura, ma anche attraverso la politica. C’è infatti una cultura della politica ed una politica della cultura, al di là di questi scioglilingua bisogna vedere in profondità le sottili trame che sostengono il dato culturale al cui centro c’è il multiculturalismo mediterraneo. Mosaico di razze e di culture che hanno fatto la loro storia, il Mare nostrum rivendica con vigore la sua pluralità: il multiculturalismo s’impone a tutti quelli che sono chiamati a dare prova di apertura verso la diversità, mettendo l’accento sul ruolo determinante delle interazioni, delle relazioni, della costituzione delle singole identità. Oscillando costantemente fra differenziazione ed integrazione, il multiculturalismo potrebbe essere definito come un movimento creativo che mira ad unificare ciò che solitamente divide. Spero che questa mia modesta raccolta di saggi possa aprire uno spazio di invenzione teorica per leggere il multiculturalismo attraverso alcune ‘matrici’, di cui la più importante è sicuramente quella del cibo, ma ce ne sono altre che legano intimamente diverse forme di cultura e di espressione dando un senso all’iscrizione nella modernità. Mi chiedi del ruolo delle Istituzioni. I progetti in campo sono migliaia, proprio a dimostrare la presa di coscienza di queste realtà.

Per quanto riguarda l’Università, sappiamo bene che la ricerca in Italia è malata, così anche questo tipo di studi sembrano essere destinati ad un futuro cupo ed incerto per via di un sistema talvolta miope ed incapace di allargare il respiro del campo critico. Certo, l’Italia, al centro del bacino del Mediterraneo, è da sempre in costante rapporto col Magreb. Come giustificare allora un approccio a questa cultura superficiale per non dire indifferente? La posta in gioco è notevole, spesso si è detto di questi paesi che sono la culla di una nuova letteratura, di un nuovo cinema, di una nuova società e a queste affermazioni bisogna rispondere anche con un nuovo sguardo critico. Lì coesistono tre grandi culture principali che si esprimono in tre lingue diverse: l’arabo, con le sue sfumature che vanno dalla lingua classica ad uso solo delle classi colte ai dialetti passando per una forma intermedia e moderna legata principalmente ai media che – come fu il latino ai tempi dell’impero romano – costituisce un codice unico e moderno, una sorta di collante fra tutti i paesi arabi; il francese che pur avendo perso il suo ruolo ufficiale dopo le indipendenze continua ad essere la lingua della modernità per molta stampa e molta letteratura oltre che basilare nell’insegnamento e infine il berbero con tutte le sue varianti dialettali.
Piante mediterranee all’Orto botanico, Palermo.

Presentare quindi le culture magrebine è molto lungo e complesso perché si incontrano inevitabilmente scogli linguistici, politici, sociologici, antropologici, ideologici, storici, letterari, ecc., ma le risorse umane e la diversità dei patrimoni culturali sono così vaste ed evidenti che si può legittimamente sperare che tutti i ritardi e gli errori saranno rapidamente superati e risolti. Questo dipende non solo dalla lucidità delle singole politiche ma anche da saggi e da studi e il mio lavoro vorrebbe essere uno di questi.

Secondo una indagine della Caritas spetta al Veneto, tra le Regioni italiane, il primato per la capacità di integrazione degli immigrati. La Sicilia è solo terzultima. Osservo una maggiore dinamicità di altre realtà italiane – ma anche europee – nel promuovere rapporti, studi e scambi culturali. Il "Forum delle donne del Mediterraneo", tanto per fare un es. si è tenuto a Torino lo scorso anno, e Torino è anche la prima città italiana ad aver dato il voto amministrativo agli immigrati. Eppure noi siamo la Regione che ha la più grande e la più antica comunità nordafricana a Mazzara del Vallo ed anche una potestà legislativa autonoma che ci consentirebbe di intervenire sulla questione della partecipazione democratica amministrativa autonomamente. Perché succede questo? C'entra qualcosa la percezione che i Siciliani hanno dell'immigrazione, come soltanto di un fenomeno sociale e politico legato all'emergenza ed alla drammaticità degli sbarchi sulle nostre coste, dei morti innocenti che il mare lascia sulle nostre spiagge, e non si percepisce invece la ricchezza di una cultura prossima e lontana al tempo stesso, ma affascinante.

Domanda complessa che interroga sia chi cerca nuovi spazi per una vita migliore, sia chi ‘accoglie’. Verbo che deve andare tra virgolette, dato che spesso quest’accoglienza viene vista come un’invasione. Prendiamo il caso di Palermo, una città sotto certi aspetti ‘babelica’, simile ad una mappa che chiede di essere decifrata, ma è simile anche ad un essere vivente, con delle membra, degli organi, delle forze emotive ed intellettuali. Caotica, difficile, permeabile, è anche una ‘città ideale’, luogo alchemico di culture, di lingue e di civiltà ‘altre’, strano legame col resto del mondo, spazio di vita comune e di mutazioni permanenti, vi si abita, vi si vive, vi si lavora, ma si resta irrimediabilmente stranieri. Palermo è un topos ben tangibile, una superficie limpida capace di riflettere i sogni, le paure, le gioie, la memoria degli immigrati che qui abitano. Questo vasto continente di forze dell’immaginario, dell’emotività viene canalizzato in un’architettura ‘visibile’ ove le differenze sono una ricchezza ed una ragione del vivere assieme, profusa, se possibile da un’utopia ottimista. Questa è anche la mia utopia che spesso si scontra con una realtà difficile e triste. Palermo o la Sicilia, la Sicilia o anche altre regioni d’Italia, l’Italia o altre nazioni europee. Dopo tutto le differenze spesso sono solo formali e superficiali, l’immigrazione implica delle metamorfosi, dovunque e comunque perché è un fenomeno dalle infinite variabili. Esso dipende, complessivamente, dall’essenza umana in cui il richiamo verso l’altrove e verso l’altro, la (ri)scoperta di sé costituiscono i parametri di una nuova socialità. Tutti siamo nomadi in via di sedentarizzazione e tutti siamo sedentari in via di nomadizzazione.

Bisogna chiedersi quali sono i rapporti tra quest’‘altrove’ da cui si viene e questo ‘qui’ in cui si cerca di integrarsi; la realtà palermitana, un esempio tra tanti altri, è un luogo di osservazione e di messa in scena del fatto migratorio, bisogna riflettere sulle identità migranti e sulla loro integrazione in questo spazio che è geografico, linguistico, culturale, sociale, religioso etc. Le risposte che si troveranno saranno multifunzionali, e potranno spiegare altri spazi ed altri meccanismi. Per esempio quali sono i miraggi ed i miracoli dell’immigrazione, quali sono le strategie sviluppate per risolvere i problemi dell’allontanamento geografico ed ontologico, come viene percepito il fenomeno migratorio nei paesi di partenza e in quelli di accoglienza. Chi migra dall’Africa verso l’Italia possiede linguaggi, prospettive, sogni.
Piatto tipico siciliano.

Esso incrocia, tesse la propria storia non soltanto con questo spazio, ma anche con tutta una realtà politica, sociale, linguistica; se la Sicilia è la regione politicamente e geograficamente maggiormente in causa e, contestualmente, la meno attenta ed empatica, questo è dovuto a ragioni di altra natura.

Gli autori e le autrici di cui parli nel tuo libro rappresentano un florilegio o sono esaustivi al momento della letteratura magrebina post coloniale in lingua francese?

Il corpus scelto non è esaustivo, ma forse è abbastanza indicativo, nel senso che ho dato spazio sia ad autori molto noti e rappresentativi come Rachid Boudjedra o Mouloud Feraoun, sia ad autori che appartengono all’esercito di ‘illustri sconosciuti’, nel senso che non rientrano nei grandi canali canonici della notorietà. Come una nebulosa della via lattea, la letteratura magrebina si dissolve in un’infinità di componenti le cui connessioni non sono sempre evidenti, ma che tuttavia restano latenti e pronte a far emergere tutta una materia talvolta ludica, talvolta angosciante.

Nel tuo libro questo incontro con la letteratura magrebina si dipana a partire dal cibo e dalla cucina, filo conduttore che tu ti sei data la pena di seguire in questi tuoi incontri con gli autori di cui parli nel testo.

In effetti il mio lavoro funziona secondo due grandi linee: la ‘cucina crudele’ e la ‘cucina gioiosa’. ‘Cucina crudele’, perché? Di solito l’arte gastronomica, ove tutti i sensi sono messi in gioco, non evoca la crudeltà, bensì il piacere ed il benessere, sia del corpo che della mente. Il cuoco sensibile sa bene che il cibo è lo specchio del vissuto, ecco perché basa la sua arte su sfumature e gradazioni, salse e sughi ristretti o allungati che danno risalto alla materia culinaria: la sua è una paziente ricerca del perfetto accordo tra mente, anima e palato. Ma allora, perché scegliere questa curiosa definizione? Certo, ogni paese, cultura o territorio possiede, nella propria tradizione culinaria, almeno un piatto che può essere definito ‘crudele’, ma qui il mio scopo non era quello di perorare la – giusta e sana – causa di un maggiore consumo di cereali e vegetali a discapito di carni e di grassi. Questa è un’altra storia che mira piuttosto a sbrogliare la matassa delle molteplici valenze di gesti, sapori e situazioni grevi di complessi impliciti, far emergere i diversi aspetti del momento del pasto, analizzare le relazioni, talvolta ambigue, che si stabiliscono tra l’ordine del cibo, quello della diegesi e quello della violenza. L’aggettivo ‘crudele’ non lo intendo – o almeno, non solo – nel senso di insensibile all’altrui sofferenza, capace di infliggere tormenti fisici o spirituali compiacendosi della propria impassibilità, anzi, assaporandone golosamente il risultato, bensì in un ventaglio di accezioni molto più sottili. Sembrerebbe, a prima vista, che nella letteratura magrebina non si mangi molto. È vero, le pietanze si insinuano segretamente nella trama come un linguaggio ‘altro’ che si amalgama ad un sistema di valori sociali, ideologici e religiosi conquistando il monopolio delle pulsioni legate tanto alla vita individuale quanto a quella collettiva. Il momento del pasto, voce singolare di un’enciclopedia vertiginosa, che attraversa i saperi senza feticizzarne nessuno, può produrre, quasi fosse un geyser, una forza narrativa, una riflessione analitica. Esso è capace di tutte le connessioni, intimamente legato ad altri modi di sentire e di vedere, diversi da quelli puramente narrativi perché si pone al limite tra vita pubblica e vita privata. Fortemente connotato dal punto di vista sociale e culturale, esso stabilisce le relazioni tra i corpi, rifiutando, accettando, condividendo molto di più di una pietanza. Al cibo si può attribuire lo stesso ruolo importante che hanno gli occhi per un viso: quello di parlare di più e meglio, e comunque, di parlare tout court.

Come vengono conosciuti e vissuti questi autori nella loro terra, e che ruolo hanno nella cultura dei loro paesi di origine? Il viaggio che ci proponi insieme a Moufida Tlatli, Souad Guellouz, Ferid Boughedir, in una Tunisia plurale e conviviale, è un viaggio nella multiculturalità della Tunisia di oggi, nella profondità dei sommovimenti sociali dovuti anche al veloce mutare del ruolo delle donne.

Ecco, Souad Guellouz, Fouad Laroui, Marcel Benabou, Malek Alloula rappresentano la ‘cucina gioisa’. Nei loro romanzi oppure nel film di Boughedir, il cibo, secondo modalità differenti, è fortemente connotato dal punto di vista sociale e culturale, stabilisce delle relazioni, tanto che il fatto di accettare, condividere, molto più che semplici pietanze, significa parlare, raccontare, mettersi a nudo, sempre di più. Il romanzo di Marcel Benabou, imbastito nel contesto della giudeità marocchina, mette in luce una saga che fa molto ricordare Italo Calvino perché, con ironia e leggerezza, mette in luce i saperi, le esperienze e i codici che il cibo permette di condividere. Ogni piatto è inserito nel contesto di una spiegazione antropologica, filosofica ed etnologica precisa: è un vero decalogo della giudeità ove tutte le relazioni al cibo conducono verso l’esplorazione dell’inconscio collettivo.

Come Benabou anche Laroui ha costruito il suo romanzo su situazioni paradossali, divertenti. La sua fantasia scatenata mette in scena personaggi che non sono mai al posto giusto, nel momento giusto, che non dicono o fanno mai la cosa giusta. Con una irresistibile maestria nei giochi linguistici oltre che narrativi, senza mai privarsi delle infinite e caleidoscopiche possibilità offerte sia dalla lingua francese, il dialetto marocchino ed ogni sorta di spezie lessicale. Egli passa attraverso il filtro di questa diffrazione della singolarità marocchina per raggiungere la categoria generalizzante della ‘ragion magrebina’.
La prof.ssa Rosalia Bivona.

Da un lato il Marocco è interpellato, con truculenta ironia, nei suoi valori più elementari, nei suoi vizi e nelle sue virtù più profonde, più radicate, dall’altro la finzione si appoggia su problemi di scrittura, la cui soluzione permette di organizzare lo spazio, il tempo, i personaggi con le loro emozioni, i loro desideri ed i loro drammi necessari. Anche alla Tunisia spetta la sua bella fetta di multiculturalità e di ironia. Il film di Boughedir come il romanzo di Souad Guellouz sono un vero inno alla mediterraneità, ma anche alla femminilità. Scherazade abita ancora lì e continua ad evocare e ad essere evocata, è colei che non solo grazie alla parola mette fine alla fatalità di una condizione femminile interamente sottomessa ma anche, in quanto donna, riesce a conquistare uno statuto uguale a quello del Re, dato che diventerà Regina e per sempre. Proprio in questa sua funzione risiede il mito emancipatore in una società ove la donna è confrontata alla duplice faccia del suo statuto sociale, che dipende sia dal mondo di provenienza che da quello in cui è inserita. La mitica eroina delle 1001 Notte non è solo la rappresentazione del potere della voce e del racconto. Un racconto che si trova ad essere rinforzato da una modernità testuale assicurando al tempo stesso la rappresentazione della storia di una storia. Nel film di Boughedir, in quello della Tlatli, oppure nel romanzo della Guellouz, i personaggi ci coinvolgono da un’epoca all’altra e da uno spazio all’altro facendoci vivere contemporaneamente, il protettorato francese, la seconda guerra mondiale, l’indipendenza. Mi chiedevi come questi autori sono percepiti nel loro paese d’origine. Anzitutto non tutti continuano a viverci e il problema della ricezione è complesso perché si tratta sempre di letteratura francofona che spesso fa la parte della sorella povera della letteratura francese.

Puoi parlarci di qualcuno di loro, per es. se vanno o restano nella loro terra, dirci se e come possiamo reperire sul mercato i loro libri ed i loro films, se sono tradotti in Italia, ed i siti internet a cui accedere per conoscerli meglio.

Certamente. Nel mio lavoro ho privilegiato autori viventi, anche per facilitarne l’approccio, la diffusione. Solo in un secondo momento mi sono accorta che, eccezion fatta per Boudjedra, nessuno di loro è tradotto in italiano. Negli scaffali di qualunque libreria italiana si trovano tutte le opere tradotte e regolarmente riedite di Tahar Ben Jelloun o di Assia Djebar e non si trova Fouad Laroui o Mahi Binebine. Eppure questi due autori, per esempio, hanno tutte le carte in regola per affascinare il pubblico italiano. Perchè non hanno fatto breccia nel cuore di nessun editore? Certo il mondo dell’edizione è complesso e le strategie commerciali rispondono a imperativi che sfuggono ai miei interessi. Mi contenterò di sottolineare che in periodo di crisi economica la letteratura in genere e quella del Magreb in particolare non è considerata una priorità. L’Università non ha il vento in poppa e le manifestazioni imperniate sulla letteratura continuano a seguire sentieri già battuti. Così si finisce sempre col tradurre un’opera qua e là, incensare l’ultimo autore alla moda o l’ultimo romanzo che fa scandalo. Il libro è un prodotto, rapidamente sostituito da un altro se non è abbastanza venduto, ristampato viceversa tutti gli anni se è un successo di vendite, e questo sistema appiattisce tutto. Quando manca una vera politica culturale ed editoriale il pubblico resta perplesso ed incostante, è inevitabile. Per fortuna internet è un ottimo strumento, ci sono siti come limag.com oppure quello italiano, gradevolissimo, babelmed.

Leggendo il tuo libro, il lettore sente come un'urgenza di conoscere ciò di cui tu scrivi, di immergersi in una salvifica multiculturalità e multireligiosità che è stata spesso il passato e potrebbe essere il presente del Mediterraneo. Nel tuo libro annoti queste parole di Herbert Marcuse "Ciò che la memoria conserva è storia". Se fossimo capaci, giovani, donne, uomini della Sicilia, di "viaggiare", di conoscere e valorizzare il passato e il presente pluriculturale e plurireligioso del Mediterraneo, potremmo forse costruire una storia di pace e zittire tutti questi squilli di guerra?

Il Mediterraneo è un mare di pace, ma non dimentichiamo che la guerra non è lontana. Siamo abituati a pensare questo spazio come un luogo di cultura, di tolleranza, di multiculturalità, di dialogo, ma è anche luogo di conflitti, vecchi e nuovi, che non possiamo riassumere qui, ma che in realtà sono sempre accesi perché le disparità tra paesi confinanti non sono mai state così grandi e il ricordo coloniale inquina ancora i rapporti euro-magrebini. È proprio perché questi conflitti si esacerbano che gli squilibri geo-strategici si accentuano. Bisogna quindi reagire per scoprire le cause del mancato funzionamento dei meccanismi, non solo in ambito politico ove le frontiere del dicibile e del pensabile sono state già varcate, ma anche nell’ambito della cultura e della comunicazione. Bisogna lavorare vigorosamente per la pace perché essa deve essere pianificata almeno con altrettanto rigore che per pianificare la guerra. Bisogna usare la mente per svolgere un programma, organizzarsi in azione non violenta e impiegare ogni risorsa del corpo e dell’anima per mettere fine a ingiustizie di ogni sorta. Anche lavorare sulla letteratura e sul cinema è agire in tal senso, se si considera la portata emotiva, sovversiva, immaginaria della parola che è la cosa che smuove uomini e cose più di qualsiasi bomba o cannone. La parola richiede un lavoro di macerazione, segue tutte le curve dell’alambicco, affronta una modernità libera e colorata e non solo dal punto di vista concettuale, spaziale, ma anche geografico. In questi stimolanti spostamenti da una riva all’altra del Mediterraneo, assistiamo ad uno spettacolo caleidoscopico, complesso e polisemico che continua a tessere un dialogo ‘assoluto’, reale, talvolta frammentato e talvolta coerente, ma in ogni caso interrogatore.

Che progetti hai nel prossimo futuro?

Tra pochi giorni tornerò a Parigi per un seminario, dopo prevedo un convegno in Romania. In questi anni ho viaggiato molto: Sud Africa, Marocco, Canada, Stati Uniti e naturalmente anche diverse università europee. Tra non molto uscirà un numero di una rivista americana che ho coordinato io sull’immagine della letteratura italiana nella letteratura magrebina e della letteratura magrebina nella letteratura italiana.