Il 15 ottobre 2005 nell’Aula Consiliare del Comune di Butera si è tenuta una manifestazione in occasione del 50° anniversario della firma degli accordi per l’immigrazione di forza lavoro italiana in Germania. All’Incontro con i cittadini di Butera e con gli emigranti italiani in Germania, alla presenza delle autorità tedesche ed italiane – c’erano, fra gli altri, i rappresentanti del Governo tedesco, il Console, il Vescovo, i Sindaci delle città “gemellate“ siciliane e tedesche – ha preso la parola il Presidente Nazionale dell’INCA/CGIL, Aldo Amoretti, il cui intervento pubblichiamo di seguito. Amoretti ha, tra l’altro, sottolineato il ruolo dei patronati nella difesa e nell’assistenza ai nostri emigrati all’estero. Ruolo che si è spesso risolto in un sostanziale contributo all’integrazione sociale ed alla difesa dei diritti delle persone emigrate. Ruolo ed esperienza specialmente italiane, che ancora oggi mantiene una propria attualità per le nostre comunità all’estero e anche per i migranti provenienti da altri Paesi.

 

Nel decennio 1951-1961 i siciliani usciti dall’isola furono 368 mila, nel decennio 1961-1971, il numero degli emigranti aumentò quasi del doppio (624 mila), e la Sicilia nella graduatoria del fenomeno conseguì il non invidiabile primato del più alto saldo migratorio regionale. È emigrato un siciliano ogni cinque. Al tempo degli accordi si veniva da un decennio di lotte politiche e sociali grandi e tremende. Il separatismo, ma anche lo Statuto dell’autonomia regionale che arriva prima della Costituzione repubblicana. Le lotte contadine con l’occupazione delle terre, la riforma e la fine del feudo. Tutto ciò con insoddisfazioni, ma anche con un cambiamento rilevantissimo. Lo scontro con la mafia, intrecciato a queste lotte, è stato tremendo.

Tra il 1944 e il 1957 ben 52 lavoratori e sindacalisti sono stati ammazzati dalla mafia. Proprio del 1955 (16 maggio) è l’uccisione di Salvatore Carnevale. In un Convegno del 1962 svolto a Palma di Montechiaro, Sciascia descrive come segue la realtà della Sicilia del dopoguerra “un paese non solo per vent’anni offeso dalla dittatura e devastato poi da una guerra, ma un paese di poveri troppo poveri e di ricchi troppo ricchi, un paese di furbi troppo furbi, di ipocriti troppo ipocriti, un paese di analfabeti, di conformisti, di uomini cosiddetti d’ordine; un paese strumentalmente e moralmente arretrato, tagliato fuori dalle grandi correnti del pensiero umano e del progresso civile. Un paese che già con Francesco Crispi, uomo di Stato che veniva da un paese come Ribera, in cui allora erano più i morti di malaria che le fragole; che già con Francesco Crispi aveva cominciato le sue costose e tragiche avventure coloniali lasciandosi alle spalle i ben più urgenti e gravosi problemi del meridione d’Italia”.

E Francesco Renda nella sua “Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri” recentemente pubblicata così commenta il fenomeno della emigrazione del secondo dopo-guerra “risultato non meno rilevante fu quello dei più saldi e duraturi rapporti che si vennero a istituire fra l’isola, la penisola e il continente, ossia fra la Sicilia, l’Italia e l’Europa. Furono rapporti demografici complessi, e quindi non solo economici e sociali, ma anche affettivi, culturali, morali, insomma un rimescolamento del modo d’essere isolano e nazionale, di cui aspetto non secondario il fenomeno dei numerosi matrimoni di uomini e donne del Nord con donne e uomini del Sud. Oltre che il potenziale produttivo del paese, del quale la Sicilia era parte, ne risultò rafforzato anche il vincolo, come pure il sentimento, dell’unità europea.

In pratica, non ci fu famiglia siciliana di città o di campagna, rimasta di qua dello Stretto, che non avesse uno o più congiunti – il figlio o la figlia, il fratello o la sorella, il padre o la madre, la sposa o lo sposo – ormai definitivamente insediati, e anche familiarmente e professionalmente inseriti, nelle altre regioni italiane o in altri paesi europei, e parimenti non vi fu più alcuno che, abitante nell’isola, non avesse risieduto più o meno a lungo in un qualche luogo della penisola o del continente o che non avesse contratto rapporti assai profondi di amicizia, di simpatia e anche sentimentali o che il verificarsi di quella eventualità non considerasse del tutto logica e fattuale, in un più o meno prossimo futuro.

Le implicazioni di questa non astratta esperienza esistenziale, coinvolgente milioni di persone, si evidenziarono nella formazione di mentalità e nella congiunta diffusione di tipi di comportamento non più isolani e comunque non più dominati dal cosiddetto “sicilianismo”, che pure continuò a resistere e prosperare, specie in certe forme di cultura e di subcultura più o meno pseudo popolare. Se non del tutto, almeno in parte, cadde perciò anche la “diversità” siciliana e venne meno la psicologia stessa del “separatismo”, cioè del sentirsi appartato e segregato, mero oggetto di discriminato e quasi razziale sfruttamento”.

E ancora “L’Emigrante ai vari livelli di consapevolezza non si sentiva più solo siciliano, un esule fuoriuscito; in rapporto al suo modo di vivere, al suo lavoro e ai suoi interessi, pure con qualche incaglio, era anche e si sentiva lombardo, piemontese, ligure, emiliano, veneto, toscano; oppure tedesco, francese, svizzero o inglese; cioè, in breve, cittadino italiano e cittadino europeo; ...e non solo cambiarono abitudini e costumi – di ciò fu segno la diffusa aspirazione a rifare la vecchia casa o a ricostruirne una nuova, dotata di servizi a cominciare dal bagno e dal telefono –, ma anche mutò la vita civile e religiosa, nonché la vita sociale e politica che non ebbe più le tensioni di una volta, compreso quel cipiglio di vacua e rumorosa jacquerie ancora frequente sulla fine degli anni Quaranta”.

Vero che fu progresso, ma la vita dell’emigrante era molto dura.Merito dei dirigenti sindacali di quel tempo l’idea che i Patronati potessero svolgere un ruolo di aiuto, sostegno e difesa. Fu dura per i Patronati stessi e per i loro organizzatori. Si tenga presente che a Berlino c’era il muro; in tutto il mondo c’era la guerra fredda, ...e pure quella calda come in Corea. In Germania il Partito comunista era fuori legge. Molti dell’INCA erano comunisti oppure socialisti loro amici. Anche con gli stessi sindacati tedeschi le cose non erano facili. Se oggi siamo qui insieme è perché tutti insieme abbiamo cambiato il mondo. È una marcia per il progresso che può essere rallentata, come avvenuto con i referendum francese e olandese sulla Costituzione europea, ma che non può essere fermata.

A maggior ragione sono dissennati gli attacchi periodici provenienti da ambienti governativi italiani contro i Patronati con la pretesa di proclamarli inutili o perfino dannosi. Quando i lavoratori hanno da combattere contro Enti ed Amministrazioni Pubbliche che si comportano da loro nemici è essenziale che ci sia chi li difende. D’altra parte dentro lo stesso Governo c’è anche un Ministro degli Interni che riconosce l’utilità dei Patronati come aiuto allo Stato ed agli immigrati nel disbrigo delle loro pratiche di cittadinanza e il Governo della Turchia insieme ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali, dichiara di voler capire cos’è questo animale strano che noi chiamiamo Patronato dal momento che si rendono ben conto di quale differenza ci sia, proprio in Germania, tra gli italiani che hanno il Patronato che li difende ed i loro emigranti i quali quando hanno bisogno devono andare dall’avvocato

Da alcuni anni siamo di fronte ad un fenomeno nuovo che è quello della immigrazione in Italia di persone provenienti soprattutto da paesi extracomunitari. La Sicilia è fra le prime ragioni italiane ad avere visto per prima questo flusso. E anche su questo c’è un commento di Francesco Renda “Certo quell’afflusso forestiero – tutto nordafricano o extracomunitario – era di poveri troppo poveri, che solo si accontentavano di essere meno poveri, che comunque restavano sempre poveri. La Sicilia non era per loro un eldorado e meno che mai ciò che era il Nord per gli emigranti isolani.

 

Il fatto però che uomini e donne provenienti da vari paesi dell’Africa e dell’Asia vi arrivassero a migliaia, e si spargessero per le città e le campagne era segno che nell’isola, pure in presenza d’una forte disoccupazione strutturale o d’uno sviluppo squilibrato e precario, s’era formato un mercato di lavoro non più ambito o accetto ai prestatori d’opera locali; e ciò voleva dire qualcosa di assai preciso, e non era un disvalore”. Dobbiamo riconoscere che l’Italia non si comporta bene nei riguardi di queste popolazioni. La legislazione è loro prevalentemente ostile ed è diffuso un atteggiamento che li considera buoni solo per essere sfruttati. Anche i Centri di Permanenza Temporanea sono uno scandalo. Io stesso sono poco persuaso della possibilità di semplicemente chiuderli, ma di sicuro, per come sono realmente adesso si tratta di una vergogna da cancellare.

C’è un risvolto che va messo in evidenza: nella misura in cui noi maltrattiamo gli immigrati che vengono in Italia facciamo del danno agli Italiani emigranti nel mondo. Come si fa a chiedere diritti per i nostri se gli stessi diritti li neghiamo agli altri? Non potrebbe qualcuno pensare di pagarli con la stessa moneta anche negando diritti conquistati nel tempo? Per rappresentare un comportamento giusto si usa spesso la parola integrazione. A me questa parola non piace perché allude ad assimilazione. Mi piace di più la parola convivenza. Penso che mescolare le razze sia un processo positivo perfino dal punto di vista biologico e se ne ha già ora la prova al contrario. La nostra più grande ambizione è un mondo nel quale le migrazioni siano il risultato di scelte libere e non imposte dal bisogno. Qualcosa del genere si comincia a vedere, ma siamo tuttora ben lontani da questo.


Alcamo, la chiesa del Collegio e la mostra di macchine antiche.