Verso la fine degli anni novanta, dopo un decennio di crescita senza precedenti su scala globale, quella che sembrava l’alba di una nuova era è cominciata ad apparire sempre più come una di quelle impennate improvvise dell’attività economica, o iperattività, inevitabilmente seguite da un declino. Solo che questa volta la bolla, il boom sia dell’economia sia dei mercati finanziari, era più grossa, e più gravi sono state le sue conseguenze. Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, l’Argentina poteva vantare una delle più prospere situazioni economiche del mondo grazie al ruolo giocato nei confronti dei paesi belligeranti; la fornitura di prodotti alimentari aveva infatti permesso da un lato l’accumulazione di notevoli riserve in valuta estera, e dall’altro una forte posizione creditoria verso molti paesi belligeranti. Una serie di concause politico-economiche hanno tuttavia fatto drammaticamente precipitare la situazione dell’Argentina che oggi figura nella lista dei paesi in via di sviluppo; l’Argentina è stata di fatto privata, almeno fino al governo Kirchner, di qualsiasi indipendenza economica e costretta ad obbedire ai dogmi neoliberisti del c.d. Washington Consensus. Di fatto, la crisi argentina, sopraggiunta dopo quelle di molti altri paesi, avendo evidenziato i limiti e l’insostenibilità del modello fondato sulle ‘ricette’ del Washington Consensus ha sancito il fallimento dell’FMI su più fronti. È inevitabile, dunque, interrogarsi “sull’interpretazione che il Fondo dà al processo di globalizzazione: come vede i suoi obiettivi e come pensa di raggiungerli nel rispetto del proprio ruolo e della propria missione”. Se, secondo l’analisi dell’FMI, la causa principale della crisi della convertibilità fu lo scarso rigore fiscale delle autorità argentine, negli anni di elevata crescita (1991-1998), è necessario chiedersi se l’applicazione di una stretta politica fiscale, che avesse contenuto l’aumento del debito pubblico estero, non fosse invece stata di ostacolo alla crescita del prodotto argentino. Sono molti gli elementi controversi e contraddittori che emergono dall’analisi della situazione argentina, e che fanno ricadere le responsabilità sia sulle autorità argentine che sull’FMI, il cui compito principale è quello di garantire la stabilità macroeconomica a livello globale. Va aggiunto tra l’altro che, durante l’intero decennio, nonostante la voce pubblica dell’FMI sia stata sempre in senso favorevole alle scelte argentine, nei dibattiti interni allo stesso si sono registrate posture anche molto differenti fra loro di critica e alle politiche argentine, e all’atteggiamento assunto dall’FMI nei confronti dell’Argentina.
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Il collasso dell’economia argentina fra il 2001 e il 2002 se da un lato riflette senz’altro la mancanza da parte delle autorità politiche argentine di adeguati strumenti per correggere l’andamento della situazione economica; dall’altro lato evidenzia come l’FMI abbia sbagliato nel continuare ad appoggiare una strategia che già dalla sua implementazione risultava insostenibile. Per avere un quadro più chiaro è pertanto è necessario accennare a due fenomeni che hanno caratterizzato la storia socio-economica argentina dal ’45 all’89, e che ci aiutano a spiegare l’origine del problema del debito estero per l’economia argentina. Il primo di questi due fenomeni è la presidenza decennale, dal ’46 al ’55, di Juan Perón; a riguardo è opportuno distaccare gli elementi più strettamente economici da quelli socio politici, tutt’oggi originali. In campo economico, le prime misure avviate da Perón, hanno permesso una redistribuzione del reddito a favore delle classi popolari, creando in Argentina un benessere senza |
La Chiesa Madre di Chiaromonte Gulfi. |
precedenti che si rispecchiava nella crescita sia del PIL che del tasso d’occupazione. Sfruttando l’attivo della bilancia commerciale e la disponibilità di notevoli riserve di valuta estera, Perón aumentò la spesa pubblica e rafforzò lo sviluppo dei comparti leggeri dell’industria nazionale, creando molti nuovi posti di lavoro. Il lìder peccò tuttavia di lungimiranza nella programmazione economica, così ché presto iniziarono a registrarsi problemi e disequilibri nei conti dello Stato. Il secondo fenomeno di cui si diceva prima, riguarda il peso politico delle Forze Armate. Fra il 1955 e il 1972, esse hanno dato vita a “singhiozzanti” regimi militari, rivelatisi mai capaci di accentrare completamente nelle loro mani il potere e quindi spesso piegati agli interessi corporativisti dei forti gruppi di interesse di ispirazione peronista. Tuttavia fra il ’76 e l’83 si instaura una vera e propria dittatura militare durante la quale sequestro, tortura ed esecuzioni divennero una prassi che coinvolse 30.000 persone, per lo più giovani fra i 15 e i 30 anni. Sul versante economico è in questo periodo che si inizia ad accumulare un forte debito estero che costituirà la base per l’espansione senza freni degli anni ’90. Il regime militare avvia la c.d. deindustrializzazione basata da un lato, sulla limitazione della lavorazione industriale alle sole risorse naturali presenti sul territorio nazionale in modo da ridurre i problemi di bilancia dei pagamenti, e dall’altro lato sull’importazioni di prodotti esteri per bloccare i prezzi. Fu l’afflusso di capitale straniero che, attirato dall’esistenza di tassi d’interesse interni a breve termine e lucrativi, provocò una crescita del debito estero. Proprio il debito estero, fra il ’76 e l’83, anno in cui, a seguito della sconfitta nella guerra per le Falkland – Malvinas, i militari aprirono alla transizione verso la democrazia, aumentò del 364% passando da 10 a poco più di 45 miliardi di dollari. Dopo cinque anni di governo radicale, sotto la presidenza Alfonsìn, quando Menem viene eletto alla presidenza argentina la situazione era caratterizzata da un debito salito a 63 miliardi di dollari e da una spirale iperinflazionistica senza precedenti. Con Menem ha inizio per l’Argentina il periodo della Convertibilità, dal nome della legge che con la Currency Board dell’aprile ’91 instaura la parità fra Peso e Dollaro. Per raggiungere gli obiettivi della stabilizzazione del cambio e del blocco dell’iperinflazione, vengono intraprese una serie di riforme consistenti nell’abbandono completo dei controlli sui prezzi, abbattimento delle barriere protezionistiche per il mercato interno, eliminazione delle misure di sostegno per l’industria, deregolamentazione del mercato finanziario, flessibilizazzione del mercato del lavoro e restrizioni nel diritto allo sciopero. La legge, fissa il cambio Austral/Dollaro al tasso di cambio 10.000:1, e istituisce un sistema bimonetario in cui la Banca Centrale ha l’obbligo di convertire Peso (fissato a 10.000 Austral) e Dollaro al tasso di cambio 1:1. Per rispondere a questo obbligo, la legge stabilisce che la base monetaria sia integralmente garantita da riserve denominate in valuta estera, ossia che per ogni peso circolante la Banca Centrale possegga un dollaro in riserva. Con la Ley de Convertibilidad la politica monetaria argentina, perde di fatto la sua indipendenza e viene legata inevitabilmente a quella statunitense. Con questa legge, il tasso di cambio reale veniva però sopravvalutato generando effetti negativi sulla bilancia commerciale: le esportazioni di merci locali erano penalizzate, perché troppo costose sui mercatiesteri, mentre al contempo le importazioni crescevano a causa dell’alto valore reale del Peso. Per stimolare l’afflusso di capitali esteri, oltre al piano di stabilizzazione e all’apertura valutaria, iniziò la privatizzazione (vendita, concessione totale o parziale) di tutte le imprese pubbliche consentita dalla Ley “Reforma del Estado”. Questa strategia ha indotto un elevato livello di consumi, accompagnato ad un rallentamento della produzione interna e ad una diminuzione degli investimenti strutturali domestici. Sebbene l’allora ministro dell’Economia Cavallo abbia affermato che le misure adottate siano state elaborate da tecnici argentini senza nessuna pressione da parte dell’FMI o di altre istituzioni finanziarie, è inevitabile notarne la coincidenza con le raccomandazioni del Washington Consensus. Per comprendere come negli anni sia andata crescendo la vulnerabilità del sistema argentino bisogna evidenziare come una parte importante degli investimenti finanziari sia di natura speculativa, e quindi pronta a volatilizzarsi da un mercato quando questo non assicuri più rendimenti elevati nel breve termine. È esattamente questo, quello che è accaduto in Argentina nel 1998, quando la crisi Russa iniziò a mettere in allerta tutti coloro che avevano investito nelle economie emergenti. Iniziò allora a registrarsi un sostanzioso deflusso di capitali che ha finito per provocare pesanti scompensi di bilancia dei pagamenti e smascherando così gli squilibri di tipo strutturale che si erano celati dietro la crescita ed il miglioramento degli indicatori macroeconomici fra il ’91 e il ‘98. La convinzione che la crescita economica avrebbe dovuto poggiare in maniera rilevante sugli investimenti esteri, resi convenienti dalla modesta pressione fiscale, ha generato una dipendenza dagli investimenti stranieri che ha determinato la dissoluzione del settore industriale. L’entrata di dollari nello stesso momento in cui assicurava la parità garantendo la forza del peso, distruggeva le esportazioni, faceva aumentare le importazioni e corrodeva l’intero apparato industriale. La crescita del debito estero subisce una forte accelerazione nel 1994 quando, in Argentina la disponibilità di elementi importanti del capitale nazionale da vendere agli stranieri inizia a scarseggiare, e l’unico modo per sostenere la parità (non potendo immettere moneta sul mercato a causa della dipendenza dagli USA) rimane l’emissione di bond e titoli. Dal ’94 l’apporto degli investimenti esteri alla crescita e al mantenimento della parità Dollaro-Peso inizia a diminuire. Nel 1998 quando la situazione ini-zia a precipitare, gli interessi sul debito e le rimesse erano arrivati a costituire più di metà del deficit corrente, rendendo difficile qualsiasi sua correzione. La scelta dell’indebitamento ha portato l’Argentina all’interno di un circolo vizioso per cui ogni richiesta di capitali ad istituzioni finanziarie internazionali, implica una condizionalità sempre maggiore. |
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Proprio la condizionalità è uno degli aspetti più criticati, assieme all’inefficienza delle misure di previsione, prevenzione e gestione della crisi, dell’azione dell’FMI in Argentina. Tra l’altro, dopo che il modello argentino è saltato, alcuni esponenti dell’FMI hanno sostenuto che la scelta della dollarizzazione e del tasso di cambio fisso fosse solamente del governo argentino, senza considerare che fu proprio l’FMI a sostenere un cambio forte e a suggerire politiche monetarie e fiscali restrittive. Possiamo interpretare il forte aumento del debito estero pubblico come un elemento necessario alla crescita del prodotto, che ha consentito al modello di sopravvivere alla crisi del 1995 e di generare una seconda fase di crescita. In questo caso è possibile affermare che a monte della crisi vi sia un’insostenibilità di fondo del modello economico dominante di ‘aiuto’ ai PVS. |
Affacciate sulla terrazza guardando il mare di Gela. |
È evidente come l’FMI abbia fallito la propria missione e come gli insuccessi, tutt’altro che accidentali, rappresentino la diretta conseguenza del modo in cui il Fondo ha interpretato il proprio incarico. La linea d’azione dell’FMI ha finito per trascurare o sottovalutare gli impatti microeconomici sul sistema produttivo e distributivo in presenza di mercati incompleti, come quello argentino. Una prospettiva di “economia dello sviluppo” con maggior peso per la sostenibilità degli aspetti sociali, etici e territoriali, capace di affrontare efficacemente i mali dell’economia è stata offuscata dall’ideologia neoliberista prevalente sintetizzabile in una frase spesso utilizzata dall’FMI: “quello che la comunità finanziaria ritiene utile per l’economia globale è utile per l’economia globale e deve essere fatto”.
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Di fatto, però, l’FMI ha, in silenzio, effettuato un cambiamento di mandato e di obiettivi in maniere sostanziale: si è passati infatti dal servire gli interessi economici globali al servire gli interessi della finanza globale. La liberalizzazione dei mercati dei capitali non avrà forse contribuito alla stabilità economica globale, ma ha sicuramente aperto nuovi, vasti mercati per Wall Street. Infatti un approccio critico all’azione di FMI e Tesoro statunitense, permette di rivelare come anche l’erogazione di ingenti prestiti avvenga nel quadro di un market fundamentalism che, escludendo tutti quegli aspetti di sostenibilità economica necessari per un reale sviluppo delle economie emergenti, ha garantito il salvataggio di investitori e banche internazionali a scapito delle popolazioni più direttamente coinvolte. | Trapani, Museo d’arte sacra. |