Quando avevo sei anni l’Argentina sconfisse in semifinale l’Italia ai calci di rigore. Era l’epoca di Italia novanta e di Totò Schillaci ma quella squadra con le magliette a strisce bianche e azzurre mi aveva affascinato tanto. Quei nomi tanto simili ai nostri e quel modo di giocare così veloce e bello da vedere furono l’inizio della mia passione per l’Argentina prima e per il mondo latinoamericano in generale, poi.

Crescendo arrivò il mito del “Che” che partendo dall’Argentina aveva attraversato quel continente da me tanto idealizzato ed era giunto sino alla rivoluzione cubana. Partendo da questi sogni ho iniziato ad interessarmi sempre più alle contraddizioni di quel paese e quella civiltà così lontani da noi, ma allo stesso tempo così vicini e simili per certi aspetti di vita quotidiana. L’Argentina, così come pure i paesi vicini, erano e sono terre ricche, piene di risorse, specialmente animali e minerarie, dove poche persone si arricchivano e la maggior parte della popolazione soffre la fame.

La nascita, dentro di me, di una certa consapevolezza politica e lo sviluppo di una forte indignazione verso quello che succedeva nel c.d. Terzo Mondo hanno avuto un ruolo fondamentale nella scelta del mio percorso universitario. Ho scelto l’indirizzo in cooperazione e sviluppo della facoltà di scienze politiche di Siena – ricca anche di attività extra accademiche – proprio per cercare di acquisire quegli strumenti tecnici, teorici e politici che mi permettessero da un lato di valutare criticamente le realtà delle diverse situazioni, e dall’altro di agire concretamente nel cambiamento delle cose.

È in questo contesto, fra sogni e realtà, che ho infine deciso di affrontare una tesi di politica economica sulle responsabilità del Fondo Monetario Internazionale nella crisi del debito argentina esplosa latente nel dicembre 2001. In questo modo ho cercato di dimostrare in maniera scientifica, basandomi sullo studio di dati economici ufficiali, l’esattezza e la necessità delle critiche che già da tempo il movimento ‘altermondista’ muoveva proprio all’FMI.

Le politiche seguite dal presidente Menem durante tutti gli anni novanta su ‘richiesta’ di FMI e tesoro statunitense hanno fatto dell’Argentina il fiore al-l’occhiello del neoliberismo su scala internazionale: le imprese e i servizi sono stati totalmente privatizzati, i controlli sui movimenti di capitale abbattuti, il mercato del lavoro flessibilizzato e precarizzato, il peso è stato agganciato indissolubilmente all’andamento del dollaro.

L’insieme di queste misure si sono rivelate insostenibili nel lungo periodo e nel dicembre 2001 quando il FMI rifiutò un nuovo prestito all’Argentina, dopo averla assecondata nonostante l’evidente insostenibilità p er tutto il decennio, la situazione esplose in tutta la sua tragicità: fu bloccato il prelievo dai depositi bancari, la maggior parte delle imprese chiuse i battenti, la disoccupazione salì vertiginosamente, il peso si svalutò causando una crescita senza precedenti del costo della vita.

Il tanto esaltato modello argentino aveva mostrato la fragilità di un mo-dello capitalistico fondato sulla ricerca sfrenata del profitto senza sviluppo. Ancora una volta a subirne le spese era stata la popolazione, quella argentina, privata della stessa possibilità di sopravvivere, quella dei piccoli risparmiatori, tra cui molti italiani, invogliata da un sistema bancario amorale ad acquistare tango bonds ad alto rischio. Da allora qualcosa è cambiato, sostanzialmente.

In Argentina molti operai hanno avuto la forza di occupare le fabbriche, ancora oggi presenti a centinaia, dismesse e riattivare attraverso organizzazioni cooperative la produzione. Il governo dell’“ignoto patagonico” Kirchner s’è imposto con la forza su quelle che erano le “regole del mercato internazionale” permettendo una rapida crescita e una ripresa della situazione argentina.

Il fatto che i ‘buoni vicini di casa’ dell’Argentina siano aumentati, negli ultimi mesi si sono aggiunti Cile e Bolivia, e che oggi quasi l’intero continente sudamericano sia amministrato da governi socialisti, o comunque progressisti, lascia intravedere una nuova via di riscatto per tutti quei paesi lasciati al margine dall’Occidente. Non è un caso che negli ultimi anni i centri nevralgici del movimento si siano spostati a sud del mondo e che si sia ricominciato a parlare di una nuova Bandung. La possibilità di un riscatto, sociale ed economico, oltre che culturale non significa che questo avvenga in modo così automatico.

La storia ci insegna quali siano le insidie e difficoltà causate dall’ingombrante presenza statunitense. In questo senso l’Europa, dell’integrazione socio-culturale e non solo economica, potrebbe a mio avviso avere un ruolo fondamentale.

L’Unione europea potrebbe – il condizionale è un obbligo per non cadere in facili ottimismi – favorire ed implementare quelle forme di cooperazione, positivamente sperimentate all’interno del proprio territorio che fornirebbero un utile appoggio alla voglia di riscatto di quei continenti per troppo tempo desaparecidos.


Veduta di Chiaromonte Gulfi.