LO STUDENTE VA IN VACANZA
La scuola era già finita da qualche giorno e Michele, come tutti i suoi compagni di scuola, si preparare a godere le vacanze estive. Ma quelle di Michele, non erano vacanze comuni quali ad esempio il mare per immergersi nelle acque azzurrine e poi lasciarsi scaldare dal sole comodamente sdraiato sulla sabbia.
O la montagna per fare lunghe passeggiate tra i boschi a godere la frescura degli alberi. Niente di tutto questo, Michele sceglieva sì la campagna per le sue vacanze, ma erano vacanze del tutto particolari dove l’immersione nel mare veniva sostituita dall’immersione in un persistente bagno di sudore o dove le passeggiate nei boschi, si trasformavano nel salire sugli alberi di mandorlo o di olivo, per la raccolta dei frutti, generalmente per conto terzi, con un lavoro che durava dalla mattina presto alla sera. Quindi Michele, come era solito in quei tempi, si mise subito alla ricerca di un lavoro, poiché era ormai prassi consolidata che il giovanotto durante l’estate si dedicava a vari lavori, generalmente in agricoltura, che gli permettevano di mettere da parte qualche soldo. Quei soldi faticosamente accumulati e messi da parte, gli sarebbero serviti alla riapertura della scuola per comprare i libri, per pagare la tassa di iscrizione, per sopperire alle necessità di uno studente, che ai soldi che metteva la famiglia per mantenerlo a Caltanissetta, univa i propri risparmi per affrontate l’anno scolastico presso le medie superiori che frequentava al fine di acquisire un diploma. Non che la famiglia gli facesse mancare nulla, ma era una famiglia numerosa composta da sei figli più i genitori, per cui ognuno doveva pur fare la propria parte se voleva farsi strada nella vita. Per questo, appena la scuola chiudeva per le vacanze estive, Michele messi da parte i libri, cercava un lavoro da potere fare. Quell’anno, non andò subito a mietere le fave come aveva fatto negli anni precedenti; così come non trovò nemmeno di andare a guardare le vacche come gli era capitato l’anno prima che passò due mesi interi intendo a quel lavoro in una azienda agricola. Quella volta, in mezzo alle fertili terre della contrada Chiarello, la sua giornata era molto semplice e programmata. La mattina, dopo la mungitura che non era lui a fare, portava al pascolo le quattro o cinque vacche che quella famiglia contadina possedeva ed utilizzava per il lavoro nei campi, oltre che per ricavarne il latte che serviva per fare il formaggio e per crescere i vitellini che poi venivano venduti a qualche macellaio o a qualche contadino durante la fiera dell’Addolorata a settembre. Nel pomeriggio, Michele veniva impegnato in piccoli lavoretti utili in azienda, come pulire la stalla, portare il mulo a bere alla vicina fontana o fare compagnia al capofamiglia che andava a prendere l’acqua necessaria alla famiglia, in un pozzo che si trovava in un altro pezzo di terra in contrada Santuzza, che la stessa famiglia coltivava. Dopo la mietitura aiutava nell’aia durante i lavori di “pisatina” prima delle fave e poi del grano. A quel lavoro partecipavano anche le vacche che venivano adibite a trasportare (strauliari) i fasci di fave o i covoni di grano, con la “straula”. Con quell’attrezzo di lavoro, si liberava il campo, dove poi nel pomeriggio le stesse vacche venivano portate a pascolare. Quell’estate Michele la passò tutta in campagna dove stette per ben due mesi, mettendo da parte un bel gruzzoletto. Per l’anno in corso, invece, il primo lavoro che trovò fu quello di andare a lavorare alla trebbia. Già da qualche anno aveva fatto la sua comparsa nelle campagne questa grande macchina generalmente di colore rosso, tanto ingombrante che quando si spostava rendeva difficoltoso anche il traffico sulle strade siciliane, specialmente quelle di campagna che erano abbastanza strette. La trebbia si spostava da contrada a contrada, a seconda da dove i contadini accatastavano i covoni ricavati dalla mietitura del proprio campo. Al centro dello spazio individuato con particolari proprietà che potevano favorire il lavoro, veniva lasciato uno spazio abbastanza largo dove veniva piazzata la trebbia alla quale, dopo un opportuno e necessario livellamento, venivano aggiunti i rimanenti pezzi quali ad esempio una serie di cinghie di diversa misura a seconda della funzione cui dovevano assolvere; il nastro trasportatore che immetteva i covoni sciolti sapientemente spinti da un operaio. Un gruppo di persone erano addetti al trasporto dei covoni dalla catasta dove erano sistemati alla trebbia. Il proprietario dei covoni, invece stava attendo all’uscita del grano che faceva cadere dentro sacchi o in una grande cassa da dove veniva prelevato con il tumulo (tumminu: misura della capienza variabile a seconda della zona da kg. 12 a 16) e messo nei sacchi, generalmente da quattro tumoli ciascuno, in modo che quattro sacchi erano una salma di grano. Piccola sosta alle 9,00 a turno per una frugale colazione, stessa cosa a mezzogiorno. La sera al tramonto il cuoco provvedeva a preparare una minestra per tutto il personale. La sera Michele si sentiva a pezzi. Capì che non era in grado di affrontare altre giornate come quella, dopo essere stato per circa nove mesi a scuola. Quel lavoro era troppo pesante per lui, che era fuori allenamento. La sera si fece pagare la giornata a tornò a casa, pronto a cercare un lavoro diverso. Quei mesi estivi andavano ad ogni costo riempiti, perché quei soldi servivano durante i mesi della scuola a coprire le spese per il soggiorno a Caltanissetta in quelle che una volta si chiamavano “stanze in famiglia”. Si trattava di stanze rese disponibili per studenti fuori sede. Allora ce n’erano tanti che abitavano a Caltanissetta. Per un modico cifra di 5.000 lire al mese più o meno, ti garantivano un posto letto, un piatto di pasta ed il diritto di prepararti un secondo che dovevi portare tu. A Michele, che passava per un irrequieto, non piaceva stare troppo nella stessa casa, per cui ogni anno ne cambiava sempre almeno due quando non arrivava a tre. Era pure difficile arrivare alla fine della settimana con i pochi soldi che poteva dargli la famiglia, per questo cercava di farseli bastare, aggiungendovi anche i risparmi dell’estate. Non era facile fare quadrare i conti, anche se da casa portava il caffè, qualche uovo, un poco di formaggio ed altre cose che la mamma gli metteva nella valigia. Una valigia non molto grande, con la quale faceva la spola partendo la domenica sera per la città da dove rientrava il sabato pomeriggio. Nel corso della settimana, per acquistare quello che poteva permettersi, passava dalla “strada da foglia” dove era ubicato il mercato più famoso della città, oppure dalla via Genovese che immetteva in via Pescheria da dove pigliava il nome di “mercatu d’a piscaria”. Non erano molte le cose che poteva permettersi, qualche salamino, qualche mazzo di verdura, a volte alcune sarde salate ed il solito pane da dividere a pranzo e cena. La frutta spesso, il più delle volte, si limitava a guardarla sulle bancarelle. A soddisfare queste esigenze serviva il lavoro dei mesi estivi, che Michele scherzosamente con gli amici continuava a chiama ferie, innaffiate spesso da grandi bevute d’acqua della “testa di l’acqua” durante le poche passeggiate serali con gli amici.