(Antonina Cascio) - Leggo oggi un articolo di Marcella Coli riportato dal giornale USEF, una ragazza, una studentessa che ha deciso di fare la sua tesi di laurea sulla immagine d’Italia in Argentina. Mi viene in mente di fare sulla sua opinione una serie di riflessioni che vorrei comunicare in maniera diretta, senza circonlocuzioni e con la chiara intenzione non di polemizzare ma di apportare al suo lavoro e alla opinione dei connazionali una visione piú completa e basata sulla conoscenza della storia argentina e le sue sfumature.

In primo luogo direi che nemmeno quelli che studiano il fenomeno profondamente in Italia hanno una chiara conoscenza del fenomeno italiano in Argentina. L’Argentina é stata il primo paese dell’America Latina ad aprire le frontiere agli emigranti italiani. Sebbene i primi progetti per portare gratuitamente italiani nei campi argentini, nati dal Governo di Perón, sono apparsi istituzionalmente nel 1949, dal 1947 arrivarono in Argentina centinaia di italiani che scappavano alla possibilitá di una nuova guerra (infatti , quella di Corea) alla quale gli uomini sarebbero stati inviati a morire . Mio padre, mia mamma ed io siamo stati tra i primi. Si pagava il biglietto e si viaggiava sulle navi mercantili, che facevano il viaggio carichi di jeeps ed altre macchine e tornavano in Italia cariche di grano, farina ed altri alimenti. L’Argentina era, dalla fine del secolo XIX un paese dove l’educazione dipendeva da un progetto neoliberista e progressista, avanzato per quei tempi, creato ed organizzato da Domingo Faustino Sarmiento. Questo progetto, dava a tutti gli abitanti la possibilitá di andare a scuola ed imparare a leggere e scrivere ed apriva le porte a tutti quelli che volessero avvicinarsi a questo suolo a condizione di lavorare nei lavori che gli indigeni non sapevano fare e di mandare i loro figli – tutti –a scuola (su questo , notevole la letteratura sulla possibilitá dell’emigrante di veder crescere e studiare i suoi figli fino ad arrivare all’universitá gratuitamente. Esempio:” Mi hijo el dotor” dello scrittore di Teatro Florencio Sánchez). Questo progetto di democrazia e di diritti ugualitari, aveva un costo: il grembiule bianco era lo stemma: “a scuola siamo tutti uguali”. “In questa societá siamo tutti uguali”. Certamente non era così dal punto di vista economico, ma dal punto di vista socio-nazionale si. L’Argentina era un paese che stava nascendo, cresceva e si conformava di persone di tutte le nazionalitá- con piú del 40% italiani- ma doveva diventare una nazione omogenea , una struttura forte , colossale ed unica, senza differenze profonde. Queste differenze si perdevano a scuola: la lingua sopratutto, certamente aiutato il progetto argentino dal fatto che gli italiani che arrivavano non parlavano l’italiano, ma centinaia di dialetti, figli com’erano anche loro di una nuova nazione. E cosa fare per capirsi anche tra di loro? Parlare lo spagnolo era la soluzione piú facile. E poi come resistere alla discriminazione che tutta la societá culturale abbatteva sugli emigrati? Anche per questo l’unico rimedio era parlare lo spagnolo e dimenticare il passato. E stato per questo che verso il ’60 anche le cooperative, i “club” italiani, le istituzioni che nel passato erano sede di riunione degli italiani, scomparirono perche i figli ed i nipoti e pronipoti non s’interessavano piú a queste istituzioni dove soltanto un gruppo di anziani nostalgici coltivava i ricordi di una Italia lontana non soltanto geograficamente, ma nel tempo. E cosí l’immagine diffusa giá dell’Italia continuava ad essere una immagine del passato, un ricordo degli avi e della loro lotta per la sopravvivenza, ma mai una terra dove voler tornare. Siamo stati noi, integranti della nuova ondata d’immigrazione in Argentina, gli italiani che abbiamo risvegliato un pó lo spirito d’italianitá, quelli che abbiamo portato con noi e risvegliato l’interesse per la lingua, ora tutti italiani e parlando italiano dopo la scuola obbligatoria del fascismo, unica ereditá positiva chissá questa – ma la scuola argentina era la stessa, il progetto continuava ad essere quello di Sarmiento. L’universitá argentina, dove una educazione di avanguardia nacque dal ’40, fu la prima a introdurre le lingue straniere nell’educazione argentina. E stato li che abbiamo studiato l’italiano alcuni di noi per fortuna ( con professoresse italiane le prime). Soltanto negli anni ’80 , quando lìItalia s’interessó fortemente ai suoi emigrati, rinacque un pó il clima “d’italianismo” che Berlusconi e compagnia si sono occupati di distruggere fino alle radici. Ma questa é un’altra storia. Torniamo alla storia degli italiani in Argentina. Si parla di rete consolare. Sanno gli italiani a chi serviva questa rete consolare fino a 30 (o meno) anni fá? Sanno che gli italiani non possedenti- la maggioranza- erano cacciati , maltrattatati ed insultati nei consolati? Sanno che se un calabrese , un siciliano o un piemontese che non parlasse in italiano ma in dialetto osava entrare in un consolato era trattato d’ignorante e cacciato, facendogli capire che l’Italia non voleva rapporti con persone della loro’ categoria’ e che invece di andare a chiedere qualcosa all’Ítalia dovevano baciare il suolo dove camminavano e dimenticare il loro paese? Sanno gli italiani che centinaia di impiegati consolari che vivevano di uno stipendio pagato grazie all’esistenza degli italiani all’estero negavano agli italiani il diritto a scrivere i loro figli all’anagrafe ed é per questo che ora si debbono affrontare centinaia o migliaia di richieste di cittadinanza ed a volte vecchi impiegati consolari hanno il coraggio di rispondere a chi va ad interessarsi per i suoi diritti che li ha persi per “colpa” della trascuratezza dei genitori o dei nonni? Non parlo per “sentito dire”, parlo per “visto e vissuto”, che anch’io ho lavorato sotto contratto al Consolato d’Italia tanti anni fà, purtroppo! Questa era gente che viveva con stipendi di signori sulle spalle degli emigrati e credeva di essere “patriota” perché difendeva gli interessi economici dell’Italia. Invece molti di loro erano vecchi fascisti che erano emigrati a suo modo per non cambiare atteggiamento in Italia. Altri erano semplicemente ignoranti che conoscevano un pó d’italiano e si credevano superiori. Dunque, se sommiamo due piú due...Impossibile sbagliare. La somma é chiara, il risultato sembra alla vista. Ma non é mica tanto chiaro! La lingua no, i ricordi dell’Italia no, la conoscenza della Italia progressista del dopoguerra, incompleta. Ma le abitudine, la cultura della gastronomia e della religione, la passione per i buoni cibi (una festa é sinonimo di pranzo o cena), le abitudini sociali dove la famiglia é la base della societá , dove l’uomo ”comanda “ fuori casa ma la donna é la “testa pensante”...... Tutte tradizioni che sono rimaste quasi ferme in Argentina come in Italia. Tant’é cosí, che in Argentinal’Italia é tanto presente che non bisogna nominarla. Una publicitá di spaghetti, o l’amore per l’alloro o per il basilico, dovrebbero parlare d’Italia? Lo fanno tacitamente. O no? Nessuno di noi, tranne quelli troppo egocentrici, parla di sé stesso tutto il giorno. L’Italia é uno specchio dove ’noi’ argentini ci guardiamo giornalmente. A ché scopo parlarne? E se l’Italia vuole che ancora noi abbiamo presente l’origine, dovrá fare uno sforzo speciale per non essere dimenticata ed incorporata definitivamente alla nostra idiosincrazia.