(Antonina Cascio) - Leggendo l’articolo di Mauro Montanari sul sito USEF mi è venuto il desiderio di offrire al lettore la mia visione dall’Argentina in merito alle rimesse dell’emigrazione. Non perché io non sia d’accordo con lui, né per discutere le cifre, delle quali non ho veramente riscontri, ma che credo veritiere.

Soltanto per portare a conoscenza del lettore l’opinione di una emigrata in Argentina, emigrata per forza, che non sono stata io a decidere dove andare dal momento che ero una bambina nel ’47. Per altro in quei anni forse anch’io mi sarei sbagliata nella scelta perchè l’Argentina era un paese “pujante”, cioè vigoroso, così lo si definiva.. Tornando alla cifra di 4 miliardi di euro , anch’io sarei interessata, essendo governo, a mantenere una relazione con gli emigrati che mi garantissero questa cifra annuale di rimesse. Non ne parliamo come singola emigrata che i soldi dopo lavorare per più di 40 anni, li vede passare dalle sue mani al fisco ed ai commercianti ed ha sempre debiti da pagare e non rimesse da spendere. Oltre questa situazione, però, vorrei chiarire che l’Argentina è il mio paese di adozione e che ormai lo amo tanto come l’Italia. Dai commenti di mio padre, uomo naturale e spontaneo analista economico e sociale della realtà argentina sulla base di quanto studiato a scuola, so che in quegli anni, i soldi, come gli imprenditori, li mandavano comprando, ad esempio, le macchine dismesse durante la guerra (jeep, camion, etc.), infatti noi siamo arrivati su una nave mercantile piena di jeeps, noi, la gente comune, i lavoratori, i soldi le mettevamo in una busta e li mandavamo in piccole cifre alla famiglia. In quel lontano tempo la corrispondenza era inviolabile, come dell’altro dice la legge oggi che lo sia, ma negli anni sessanta non era già sicura per mandare soldi. Dai ’50 in poi, i soldi, e tanta altra roba, si mandavano nei pacchi, che due o tre volte l’anno spedivamo alla famiglia. Nel 1965 ci fu in Argentina una grande crisi economica che la mia famiglia ha subito sulla propria carne, perdendo alcune delle proprietà che mio padre aveva conquistato col suo duro lavoro, certamente perchè lui ha voluto pagare tutti gli operai e non andare in fallimento come hanno fatto tanti altri. Arrivando il 1974, sebbene la situazione economica era un pò più sicura si produssero due fenomeni simultanei in Argentina . l°: i giovani, cioè la generazione dei venuti da bambini e di quelli che nacquero qua, eravamo tutti tra i 20 ed i trenta anni. 2°: Col ritorno di Peròn al governo si scatenò una serie di lotte intestine tra le tendenze e le mafie naziste, crearono una situazione di disorganizazione, guerriglie, ammazzatine, gente che scompariva, sopratutto la gente tra i 20 ed i 30 anni, ed in più quelli che studiavamo , insegnavamo, scrivevamo, fino a quando tutto nella dittatura militare del 1977. Cioè, sebbene nessuno ne parlava apertamente a nessuno, questo fu un periodo nel quale le famiglie cercavano di badare a quelli che erano in pericolo qua, i giovani cercavano di badare a se stessi per sopravvivere e gli imprenditori scoprirono il “made in Taiwan”, base della economia che il governo militare prometteva come un futuro stravolgente , dicendo che l’Argentina non doveva produrre niente oltre alle caramelle, che tutto si poteva comprare per due soldi, mentre lo stesso governo con la sua politica economica distruggeva l’industria argentina che dopo ha finito di distruggere Menem. Ma questa è un’altra storia. O la stessa, interrotta da Alfonsìn e dalla volontà popolare, una volta al meno più saggia, anche se per poco tempo. Quando tornò la democrazia, nel 1983 ,dopo la guerra delle “Malvinas”, la gente ebbe modo di ricordare i parenti lontani ma in quel tempo l’Italia aveva raggiunto una situazione economica per di più straordinaria in comparazione con l’Argentina, le vecchie nonne erano morte, ed era arrivato il tempo di pensare ad una terza generazione. Chissà questo panorama possa far capire perchè l’Argentina, che subì dall’84 una crisi economica, che come al solito venne scaricata sulle spalle dei lavoratori, tra i quali gli emigrati, non evidenzia l’apporto di rimesse da parte delle comunità in Argentina.