Discorso pronunciato dal Presidente del Senato al convegno che si è svolto in Sala Zuccari 10 Settembre 2021

Desidero rivolgere un saluto e un ringraziamento a tutte le Autorità presenti per avere accolto l'invito a ritrovarci qui oggi, vent'anni dopo l'11 Settembre. E ringrazio in particolare il presidente Pier Ferdinando Casini, che ha promosso questa iniziativa alla quale ho aderito subito con entusiasmo.

Alcuni tra voi hanno dovuto affrontare da posizioni di responsabilità - anche di governo - le lontane e durature conseguenze di quel giorno che è rimasto tragicamente famoso come l'11 Settembre. Una data che definisce da sola un evento e costituisce un punto di svolta della Storia, che ha generato mutamenti epocali e a lungo produrrà i suoi effetti. La sua attualità, a distanza di due decenni, è sotto gli occhi di tutti. Mi ha colpito la disarmante similitudine tra quei corpi innocenti che precipitavano dai grattacieli agitando mani e piedi ("quasi a schivare quella caduta abissale", per citare uno scrittore inglese) e i corpi degli afghani che vent'anni dopo, nel disperato tentativo di fuga da Kabul, si aggrappavano e cadevano dai carrelli degli aerei. Dopo tutto questo tempo - dopo tante guerre, morti, investimenti umani e sociali ed economici - la nostra impressione è ancora quella di trovarci sospesi sull'orlo di un abisso. E noi, l'Occidente - forti dei nostri valori, della nostra storia, anche dei nostri errori - torniamo a porci le stesse domande. A chiederci come difendere le nostre libertà, la nostra sicurezza, il nostro stile di vita. A interrogarci su come preservare un mondo basato sui diritti fondamentali dell'essere umano. Per questo, oggi non è soltanto il giorno del ricordo. È il giorno della riflessione. Il nome scelto per il Memoriale dell'11 Settembre è Riflettere l'Assenza (Reflecting Absence). Riflettere sulla desolazione di Ground Zero. A noi il compito di ricostruire su quel vuoto - su quella esplosione di violenza e annichilimento - un tempo nuovo per i nostri figli. Per questo dobbiamo trarre la giusta lezione dalla conclusione della ventennale missione in Afghanistan, che aveva lo scopo di stroncare alla radice il terrorismo, e forse anche di ricostruire uno Stato. La sfida che ci pone il ritiro da Kabul è a tutto campo. Interpella direttamente noi europei. Occorre riflettere sul fatto che il motore americano della NATO non è più sufficiente. Tra alleati è necessaria una condivisione reale di obiettivi e strategie. Occorre rafforzare il ruolo dell'Europa sulla scena internazionale, in particolare nel Mediterraneo, anche attraverso la creazione di un'autonoma capacità di difesa e di rapida reazione alle crisi, che dev'essere sostenuta da una politica estera comune e da un comune sentire dei popoli europei. E occorre consolidare il nostro rapporto con gli Stati Uniti, che restano il nostro naturale e principale alleato, ma su un piano di parità! Nessuno può mettere in dubbio - direi soprattutto dopo il ritiro da Kabul - il vincolo di lealtà, amicizia e collaborazione che ci lega agli Stati Uniti d'America. Infine, l'Europa ha un dovere morale nei confronti di tutti coloro che hanno collaborato al progresso civile dell'Afghanistan... Vent'anni non sono passati invano! Sarebbe sbagliato ritenere che tutto sia rimasto uguale e ci troviamo all'anno zero. Non è così. L'immenso lavoro svolto dai nostri militari e dal mondo della cooperazione e dell'associazionismo nazionale e internazionale deve poter continuare a produrre i suoi frutti attraverso il periodo buio che ci aspetta. Solo così è possibile rendere il doveroso omaggio ai nostri caduti, che hanno dato la vita per l'affermazione dei valori nei quali crediamo e per restituire la dignità, la consapevolezza dei diritti fondamentali della persona, a chi non l'aveva. Mi sta particolarmente a cuore il riconoscimento dei diritti delle donne. In questi anni abbiamo imparato a conoscere e amare un'intera generazione di giovani afghane cresciute libere, e le loro madri che hanno dovuto combattere per conquistare i diritti e sono diventate parlamentari, insegnanti, imprenditrici, artiste, sportive, giornaliste, magistrati, attiviste per i diritti umani, lavoratrici in ogni settore della vita civile. Sono loro, oggi, il primo bersaglio di una involuzione politica e culturale. Andarsene dall'Afghanistan non deve significare abbandonarle al loro destino. Donne sotto attacco ma coraggiose, le prime a scendere in piazza per chiedere che i progressi ottenuti non siano cancellati come se nulla fosse successo. Come se fosse inevitabile rassegnarsi a rinunciare ai diritti, a partire da quelli di genere, conquistati con immane fatica e con incrollabile tenacia individuale. L'11 Settembre di vent'anni dopo, è sempre da quella assenza che dobbiamo partire. Dallo sgomento e dalla "immensa tristezza", così la definì il presidente Bush, per quasi tremila vite distrutte in 102 minuti. Ogni vita è importante. Perciò voglio ricordare il numero esatto dei morti: 2749 su 14mila che si trovavano nelle Torri. 147 i passeggeri e i membri degli equipaggi dei due aerei. A cui vanno aggiunte le vittime del Pentagono e quelle del terzo aereo, precipitato in Pennsylvania, e quelle dell'attentato del 1993, perché la minaccia, il filo di morte, partiva da lontano. Mi rivolgo al rappresentante degli Stati Uniti, al quale rinnovo il nostro cordoglio che è basato su fondamenta indistruttibili: l'unità tra i nostri popoli, la forza della nostra alleanza, la solidarietà "senza se e senza ma" nei momenti difficili e la gratitudine - sempre - per il sacrificio di tante vite di giovani americani che contribuirono in modo determinante, nella Seconda guerra mondiale, al trionfo su totalitarismo e nazismo. Cari amici, ognuno di noi ricorda dov'era quando arrivò la notizia, confusa e indecifrabile, del primo aereo entrato nel corpo della Torre Nord. Un quarto d'ora dopo fu colpita la Torre Sud, la prima a sgretolarsi. Io provai subito angoscia. Quei momenti si legano per me a un senso di sorpresa e precarietà. Molti italiani si trovavano a New York e nelle Torri morirono decine di nostri connazionali. Voglio ricordare l'eroismo dei vigili del fuoco di New York, il cuore grande di tanti americani dal cognome italiano che diedero la vita per salvarne altre. "Un giorno buio nella storia dell'umanità", lo definì Giovanni Paolo II… L'11 Settembre ha portato non solo una scia di morte, ma una paura dalla quale non ci siamo più completamente liberati. Qualcuno sostiene che non è stato l'11 Settembre in sé, a cambiare il mondo, ma le conseguenze che ha provocato, i processi che ha innescato. Il risultato non cambia: dopo vent'anni, dobbiamo ancora fare i conti con le strategie dell'Occidente, con l'incertezza degli assetti internazionali, con la difficoltà di trovare un giusto equilibrio tra sicurezza e libertà nella vita di ogni giorno. L'America scoprì di essere vulnerabile. E così noi. Intendo lasciare più spazio possibile ai vostri interventi. Anche al dibattito che potrà derivarne. Citerò pochi punti, per me essenziali, come elementi di riflessione. Quel giorno i terroristi giurarono l'uno all'altro di morire. Misero in atto la loro ideologia di morte contro una società - la nostra - che si ostinava e si ostina, pur con tutti i suoi difetti e i suoi errori, a proclamare l'aspirazione alla libertà e alla democrazia. Il proprio amore per la vita. Da questo punto di vista, i terroristi hanno fallito: il nostro amore per la libertà, la democrazia e la vita è più forte di prima. E abbiamo anche capito che libertà e vita non sono princìpi esclusivi dell'Occidente: il progetto di morte dell'11 Settembre - come di tutti gli attentati di Al Qaeda e Daesh - non rappresenta l'Islam. Non rappresenta la religione o la società islamica. Tanti musulmani sono finiti come noi nel mirino del fanatismo terrorista. Questo, oggi, è un punto fermo per noi. Noi esaltiamo la vita, il terrorismo esalta la morte. E qui c'è già il segno della nostra vittoria. E tuttavia, questo è il secondo punto, il terrorismo non è debellato. Ce lo ricordano in modo drammatico le immagini della strage compiuta dall'ISIS-K all'aeroporto di Kabul. L'Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, ha compreso in questi anni che libertà e democrazia non sono valori "esportabili". Ne abbiamo avuto una prova ulteriore con l'avanzata delle truppe talebane dopo il ritiro delle forze alleate dall'Afghanistan. La sconfitta di Daesh sul terreno e la caduta dello Stato islamico non hanno comportato l'estinzione di tutte le bande terroristiche. Nell'Africa subsahariana si sono ricreate avanguardie, capisaldi, che minacciano di trasformarsi in piccoli Stati terroristi che non compaiono sulle mappe. È un pericolo che incombe su di noi da molto vicino. Che fa sentire la sua pressione mortifera sulla Costa Sud del Mediterraneo, da dove continua a operare l'associazione criminale di trafficanti che spingono donne spesso incinte, uomini e bambini, a intraprendere i "viaggi della morte". Le primavere arabe si sono presto trasformate in un lungo inverno, e la democrazia resta un traguardo lontano in aree del mondo a noi prossime. È fondamentale che l'Italia riesca a proseguire la sua intensa attività diplomatica rivolta a Paesi come la Libia e la Tunisia, dalla cui stabilità dipende la nostra sicurezza. Ed è fondamentale che perseveri nella politica di sostegno ai processi democratici e di dialogo con tutti gli attori dello scacchiere mediterraneo e mediorientale. E c'è un terzo punto, sul quale vorrei sollecitare la vostra riflessione. Sembrava, dopo il crollo del Muro di Berlino, che il mondo fosse avviato verso un'era di pace. Che si fossero dileguati, insieme al bipolarismo e alla guerra fredda, la contrapposizione ideologica Noi-Loro e lo spettro del nucleare. C'è stato un momento nel quale - grazie proprio a un'iniziativa del governo italiano nel 2002- la Russia è stata associata alla Nato. Ma il crollo del Muro ha liberato i vecchi dèmoni: i nazionalismi, i fondamentalismi, il terrore… Ne è emerso un globo più frammentato, più insidioso, diviso da nuove barriere, da nuovi Muri che l'attacco alle Torri ci ha fatto scoprire in tutta la loro tragicità. E che abbiamo rivisto in quelle terribili immagini di bambini consegnati dalle mamme afghane al nostro valoroso console Tommaso Claudi e ai marines, sul Muro dell'aeroporto di Kabul che segnava anche lì il confine tra prigionia e libertà. E poi Internet, la Rete, che prometteva di essere un ponte verso la globalizzazione pacifica ed è però diventata uno degli strumenti principali di propaganda del Terrore. C'è da chiedersi come sia possibile vivere in un mondo in cui la tecnologia abbatte tutti i Muri, ma permette di reclutare i terroristi e diffondere odio e morte. Ecco, sono queste alcune delle sfide che - a distanza di vent'anni dall'11 Settembre - l'umanità non ha saputo ancora affrontare con successo. Ma c'è un elemento che ci rincuora e ci incoraggia. E appartiene al ricordo di "quel giorno". Quel giorno, siamo tutti morti. Siamo morti insieme voglio dire, perché insieme abbiamo "vissuto" la morte degli altri attraverso quelle angosciose dirette televisive. Chi di noi non si è commosso e non ha pianto almeno una volta? Le vittime appartenevano a più di 90 nazionalità… Siamo morti insieme. E insieme dobbiamo rinascere. L'Europa deve ritrovare la propria unità, perché solo nell'unità può esercitare la propria forza. E dev'essere altrettanto chiaro il nostro quadro di alleanze, devono essere limpidi i criteri di scelta dei nostri amici nel mondo, così come dei modelli a cui dobbiamo riferirci. E su questa base va costruita e perseguita una politica estera e di difesa comune. Oggi il mio pensiero va ai bambini, ai più fragili, e alle donne, a cui viene negato il diritto fondamentale all'istruzione, che non si arrendono, che si oppongono ai divieti e all'ignoranza. Io mi inchino a loro, alle loro famiglie, ai volontari che operano a loro supporto, con coraggio, sul campo. A chi è rimasto a Kabul. Sono loro, più di tutti, a celebrare e a praticare ogni giorno i princìpi del mondo libero. La giustizia e l'amore per la vita. Grazie ancora a tutti voi per essere qui. Ascolterò con attenzione e interesse tutti i vostri interventi.