Proseguiamo con le interviste di Eminotizie ai Parlamentari eletti nella circoscrizione estero e ai rappresentanti di CGIE e CNE. Oggi è la volta dell'On. Marco Fedi, eletto nelle liste del PD nella Circoscrizione Asia, Africa, Oceania. (a cura di Rita Riccio)

D. L’ultima Assemblea Plenaria del CGIE e il recente dibattito al Senato hanno fornito elementi significativi di chiarimento rispetto all’azione del Governo e alle urgenze degli italiani all’estero. Cosa ne pensa ?

R. Il CGIE ha un ruolo fondamentale di rappresentanza e di interazione con il Ministero degli Affari esteri e quindi i temi che riguardano da vicino la comunità italiana. La plenaria di metà maggio ha fornito un vero autentico elemento di chiarimento: esiste oggi un divario che non ha eguali nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo tra scelte politiche di Governo e maggioranza – contrastate dal Partito Democratico – e le esigenze reali delle nostre comunità e le opportunità, che ancora esistono, per valorizzare il patrimonio di identità, culture, lingue e collegamenti che la presenza italiana nel mondo oggi rappresenta. Esiste una visione miope del mondo degli italiani all’estero, una visione che ci vorrebbe catalogati: da un lato chi oggi conta, mondo economico e finanziario e mondo politico, in cui gli italiani si sono distinti in tutto il mondo, e mondo della tradizionale comunità, che chiede servizi e pensioni, chiede rappresentanza, chiede cittadinanza e diritti di cittadinanza. Questi due mondi, invece, non sono affatto distanti: vivono nelle abitazioni di Brisbane e Adelaide, Buenos Aires, Colonia, Toronto, New York, in cui risiedono i nostri connazionali. Sono nonni, genitori, figli e nipoti, di un mondo che non è residuale o marginale ma interconnesso. Un mondo rispetto al quale si applica il principio della meccanica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. La qualità della reazione la misureremo nei prossimi mesi e anni. Dalla discussione – quella sì assolutamente marginale – delle mozioni al Senato è arrivata la conferma che il Partito Democratico si è impegnato ed è ancora impegnato nel recupero di risorse per i capitoli delle comunità italiane all’estero. mentre maggioranza e Governo non hanno soluzioni, se non delle vere e proprie pezze, e navigano a vista. Oggi chi sente la responsabilità complessiva di questo mondo, anche se è all’opposizione, propone una riflessione. Chissà se maggioranza e governo sapranno cogliere questa opportunità di dialogo.

D. A suo parere quali prospettive si aprono dopo la conferma dei tagli e dopo l’esito di questa assemblea del CGIE?

R. Sarebbe utile ripartire da un momento di riflessione comune. Ho presentato questa proposta, prendendo atto del clima politico in cui operiamo e delle difficoltà, alcune delle quali sono reali. Ripartire da una sorta di “summit” che ci consenta di individuare alcune riforme prioritarie sulle quali lavorare, maggioranza ed opposizione. In alcune aree, sono certo, possiamo spendere meglio le poche risorse disponibili. Poi a ciascuno le proprie responsabilità. In altre parole, attorno al CGIE, dovrebbe svilupparsi una comune azione di analisi e discussione politica sulle riforme che oggi manca. Poi è necessario fare uno sforzo comune per reperire risorse sottratte a scuola, assistenza, cultura, rappresentanza. La maggioranza ha voluto che tutti gli elementi di analisi confluissero sulla “rappresentanza”, quasi a voler dimostrare che una delle ragioni dei tagli è la qualità della nostra rappresentanza oppure per sostenere la tesi che la democrazia rappresentativa non può costarci, in proporzione, più degli investimenti che lo Stato italiano riesce a fare all’estero. Una tesi sbagliata e pericolosa. Sostengo, invece, che la rappresentanza ha un ruolo che va ben oltre gli investimenti di uno Stato e che la democrazia non può mai essere collegata a qualità o quantità di essi. Ecco perchè sarebbe utile riprendere un cammino comune che ci porti anche a rafforzare gli strumenti della rappresentanza.

 D. Rappresentanza: Quale nesso può avere la riforma di CGIE e Comites con la più generale riforma dello Stato in senso federalista e con il fatto che i parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero, come gli altri parlamentari, rappresentano la nazione senza vincolo di mandato ?

 R.Vorrei ricordare prima di tutto che sulle riforme istituzionali il PD ha le carte in regola. Nella trascorsa legislatura abbiamo anche votato alla Camera i primi tre articoli di una proposta di riforma che istitutiva il Senato federale e riduceva il numero dei Parlamentari. La discussione si arenò prima della crisi di Governo a causa delle resistenze della Lega Nord, soprattutto sul numero dei Senatori dalle regioni del nord Italia. Oggi il Presidente del Consiglio non ha alcuna credibilità nel lanciare una sfida all’opposizione: ma forse la sfida è alla Lega Nord. E la sfida delle riforme riguarda anche la rappresentanza degli italiani all’estero. Dovremmo guardare al tema della rappresentanza con obiettività. I Comites sono strumenti utili se funzionano, per farli funzionare occorre affidare ai Comitati un ruolo di conoscenza, proposta e verifica ed un vero ruolo politico circoscrizionale. Ecco perchè un empirico ridimensionato nel numero dei Comitati nel mondo non significa assolutamente nulla mentre affidare ai Comitati uno spazio politico di rappresentanza comunitaria è l’unico modo per raffozarli. E il CGIE svolge una funzione di coordinamento “globale”. La rappresentanza parlamentare deve andare distinta da quella comunitaria. Insisto su Comites e Cgie che siano autentici interpreti delle loro comunità, oltre i partiti e le coalizioni. Il livello parlamentare, invece, non può che essere confronto tra i soggetti politici che si candidano alla guida dell’Italia e dell’italianità nel mondo. Per questa ragione sono assolutamente insignificanti e pretestuose le motivazioni secondo le quali l’attuale Governo ritiene che si confondano i ruoli di questi livelli di rappresentanza. Tutti concorrono al progetto per l’Italia nel mondo ma da responsabilità diverse. Noi non possiamo rinunciare al voto all’estero, cioè alla possibilità di esprimere il voto politico in loco. Poi vedremo le modalità, è possibile discuterne proprio nel conteso della riforma. Sostengo ancora che il modello di rappresentanza diretta con l’elezione di residenti all’estero sia “utile” ed interessante. I Parlamentari eletti all’estero rappresentano la nazione, senza vincolo di mandato, ed in questa nazione, ricordiamolo ai disattenti, ci sono anche gli italiani nel mondo che fino a ieri non avevano voce. La politica è anche dare voce a chi non l’ha!

 D. La fase che stiamo attraversando è indubbiamente complicata dall’intensificarsi della crisi economica e sociale. L’Italia è l’unico paese europeo che ha a che fare con 8 milioni di migranti, di cui 4 milioni sono immigrati recenti provenienti per lo più dai paesi del sud del mondo e altri 4 milioni sono gli italiani all’estero diffusi in tanti altri paesi. Insieme fanno il 12-13% della popolazione. C’è un comune denominatore nel modo in cui si affrontano i temi dell’immigrazione e degli italiani all’estero ? E quale sarebbe l’approccio auspicabile e più redditizio per il paese ?

R. Il comune denominatore in questo momento è purtroppo l’assoluta ignoranza, nel senso che ancora oggi il nostro Paese “ignora”, cioè non conosce ancora, fenomeni come emigrazione e immigrazione che hanno rappresentanto in momenti diversi una parte di storia d’Italia. L’emigrazione, come fenomeno storico, sociale, culturale e politico, è stata ignorata e relegata in una condizione di subordine. L’Italia grande forze economica, Paese del G8, perchè dovrebbe vantarsi di aver dato al mondo tanta italianità quanta ne ha in casa, se non ammettendo che chi emigrava fuggiva dalla povertà ed oggi l’Italia del G8 non è in grado, non solo di tutelare i propri cittadini all’estero, ma anche di investire in cultura e scuola? E perchè oggi dovrebbe valorizzare il percorso inverso, quello dell’immigrazione, quando non è in grado di gestirlo? L’Italia non è l’unico paese che non comprende o gestisce bene l’immigrazione. Il popolo dei “migranti” si scontra ogni giorno con l’ignoranza, il razzismo, la xenofobia, con i pregiudizi, e con una sostanziale insufficienza di strumenti di intervento a livello internazionale e comunitario, soprattutto a livello politico. Dobbiamo riuscire a cambiare questi elementi negativi. Occorre, si è vero, un approccio comune, globale, internazionale ed europeo, ma occorre soprattutto avere un comune denominatore nella “solidarietà”: in altre parole non può essere mai giusto “gioire” per un respingimento, anche se autorizzato dalla legge. Dobbiamo essere i primi a tutelare i più deboli, a garantire i diritti umani, a rispettare accordi e diritto internazionale. Poi, con tristezza, possiamo anche esser costretti a respingere una imbarcazione non autorizzata ma solo dopo che avremo le condizioni per garantire incolumità, analisi dello status giuridico delle persone, ed una volta che avremo accolto quella umanità che arriva sulle nostre sponde, una volta punto di arrivo e di incontro di genti diverse da noi. Le politiche di integrazione nascono da questa consapevolezza. Che le persone – tutte – hanno un dono che è la diversità e che questo arricchisce le società aperte in cui viviamo. Le persone, di ogni razza, cultura o religione, contribuiscono a far crescere un Paese, fare in modo che possano mantenere la loro identità consente l’integrazione vera, quella che parte da una posizione di parità non di subalternità, sempre e comunque nel rispetto pieno delle leggi del Paese in cui ci si integra. Quindi no al reato di clandestinità, no alle ronde civiche, basta con il collegamento tra “immigrazione” e “criminalità”. Occorre però consentire che vi sia un programma di immigrazione che sia calibrato per ciascun Paese e l’Italia deve ancora dotarsene, come deve ancora dotarsi di politiche e di azioni di coordinamento per rendere davvero fruibile il patrimonio di intelligenze e culture che sono rappresentate dagli italiani all’estero e dai nuovi italiani in Italia.

D. Società aperte o società rinchiuse in se stesse: in che direzione si uscirà dalla crisi ? La risorsa “multiculturalità” non è una delle più importanti e significative in questo tempo globale ? Di cosa ci sarebbe bisogno per valorizzarla ?

R. L’uscita dalla crisi economica è una vera sfida. Non si può uscire da questa crisi rinchiudendosi, pensando che il ritorno alle tariffe o ad un mercato del lavoro chiuso o a scelte economiche e finanziarie individuali, possa aiutare a sconfiggere il male oscuro del capitalismo moderno. Abbiamo gli strumenti, conosciamo le cure ed abbiamo i medici in grado di curare il malato, un mondo finanziario senza regole o con regole troppo flessibili o con controllori incapaci di svolgere bene l’azione di controllo democratico. Rimettere al centro le persone, la capacità di produrre benessere per tutti e di investire in attività produttive. Le regole anche qui vanno riscritte insieme. La multiculturalità, la capacità di conoscere altri Paesi, altre lingue, altri mercati, ma anche la capacità in Italia di offrire prodotti sempre più avanzati anche sotto il profilo della cultura e della lingua che li presenta o li spiega, e che quindi anche all’estero trovino mercati pronti a riceverli, questo aspetto “multiculturale” è ampiamente sottovalutato in Italia. La multiculturalità è un vantaggio, in molte società, il “multi” offre elementi di competitività inaspettati e nuovi. Per valorizzare la multiculturalità occorre comprenderne il valore prima, poi avere politiche che ne consentano l’utilizzo. L’Italia ha ancora molta strada da fare.