ROMA - Promosso dall’Usef di Rosario, mercoledì scorso si è tenuta una videoconferenza sulla cittadinanza che ha visto confrontarsi rappresentanti delle associazioni, Comites e Cgie con il Console generale Martin Brook. Ad aprire i lavori è stato Fabio Porta. (foto accanto)

Oltre al Console Generale Brook, hanno partecipato il coordinatore dell’USEF in Argentina e presidente del CEIA-USEF Salvatore Finocchiaro, il segretario generale dell’USEF Salvatore Augello, il vice segretario del CGIE Mariano Gazzola, il presidente del COMITES Franco Tirelli, una folta rappresentanza del “movimento” dei richiedenti della cittadinanza italiana, ed i rappresentanti dei patronati INCA ed ITAL-UIL. Dopo l’introduzione di Porta, riporta Salvatore Augello, il Console Generale ha spiegato che le tante pratiche in giacenza sono dovute sia al gran numero di nuove richieste di cittadinanza, sia al lavoro sul referendum di settembre che ha impegnato il personale del Consolato. Personale che solo da pochi giorni ha visto l’arrivo di cinque nuove unità alle quali prossimamente se ne aggiungerà una sesta. Risorse in più che però, ha spiegato Brook, a causa della pandemia saranno divise in due gruppi, quindi risulterà dimezzato rispetto al lavoro sulla cittadinanza che necessariamente deve essere fatto in presenza. Secondo l’USEF, a Rosario – dove gli iscritti all’Aire superano le 150.000 unità – il personale del Consolato è “largamente insufficiente anche raffrontato ad altri consolati con comunità meno numerose”. Tutti i presenti, continua Augello, hanno accolto “con favore la grande disponibilità del Console ad adoperarsi per portare tutto a soluzione”, anche grazie alle tecnologie: “un ingegnere informatico è già a lavoro affinchè sia possibile consultare online lo stato di avanzamento della pratica, senza dovere ricorrere alla segreteria telefonica che spesso confonde chi chiama”. Anche i rappresentanti del gruppo nato per sollecitare lo smaltimento dell’arretrato, dopo aver ribadito le loro lamentele, hanno manifestato la loro “soddisfazione” per la disponibilità del Console generale, che ha “posto fine alle tante incomprensioni che si sono fin qui accumulate”. Ben accolta anche la proposta del Console Brook di una visita in Consolato dei rappresentanti del “movimento” (a gruppi di tre per rispettare i limiti imposti dalla pandemia) così che possano rendersi conto di come lavora il personale e della mole di lavoro che hanno da sbrigare. Nei rispettivi interventi, sia il segretario generale dell’USEF che il coordinatore per l’Argentina hanno tenuto a sottolineare che la riunione “ha dato l’esito sperato, che innanzitutto era quello di chiarire eventuali incomprensioni sul lavoro svolto e sul modo di lavorare dell’associazione, così da zittire tentativi di speculazioni che spesso falsano la qualità e la fluidità dell’informazione”. In particolare, il segretario generale ha tenuto a precisare che “l’USEF non ha mai dubitato della disponibilità del Console, anche se qualcuno ha cercato di leggere il lavoro dell’Associazione come un attacco al Consolato”, rilievo questo “lontanissimo dalla mente e dai metodi dei dirigenti dell’USEF, che invece si adoperano, là dove sono presenti, per favorire e facilitare il rapporto tra la comunità e le istituzioni italiane e locali”. Al dibattito hanno anche preso la parola sia Gazzola (Cgie) che Tirelli (Comites), che hanno sottolineato l’esigenza di una maggiore collegialità tra associazioni ed organismi elettivi. Gli organizzatori dell’incontro hanno infine manifestato “soddisfazione per il risultato dell’iniziativa: non solo sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati, con una prima delegazione del movimento ricevuta in Consolato, ma è stato anche aperto un grande spazio di confronto e di collaborazione tra enti che alla fine condividono la stessa missione: aiutare la comunità italiana ad ottenere il rispetto dei diritti che appartengono loro e tenere vivi i legami con la madre Patria”. A cento anni dalla firma del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) che fissò il confine orientale italiano dopo la Prima Guerra Mondiale sulle Alpi Giulie, la Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati (Federesuli) vuole ricordare questa data come la fase iniziale di un processo che ha portato alla definitiva cancellazione degli italiani dalla Dalmazia. “Quel fragile microcosmo dove partendo dalla caduta dell’Impero romano, passando per San Girolamo e per i due papi dalmati San Caio e Giovanni IV, dagli albori del basso medioevo era nata una cultura tardo latina che intrecciava quella italiana alla slava, a quella albanese, a quella sefardita ed alla greca per dare i suoi frutti nella letteratura, nell’arte e nella scienza, il 12 di novembre 1920 cessò di esistere”, scrive Federesuli per l’occasione. “Quella terra di confine, dove si era sviluppato il neolatino dalmatico, dove i comuni avevano seguito le stesse vicende di quelli italiani, terminando con un podestà proveniente dalla penisola, statuti desunti da quelli dei comuni italiani, dando i natali alle Repubbliche di Ragusa e della Poglizza dove poi, la Serenissima - rispettando la compagine etnica – aveva rinsaldato i legami commerciali fra le due coste, quella terra di confine che aveva sviluppato un rinascimento unico del quale parlano le cattedrali ed i molti siti patrimonio dell’UNESCO, dove si erano formati umanisti e scienziati come Balgivi, Ghetaldi, Boscovich, Darsa, Veranzio, Laurana e tanti altri, dal 12 novembre 1920 vedeva definitivamente alterata la sua compagine multietnica e multiculturale”. “Quel giorno - aggiunge ancora la Federazione - moriva il sogno della “Nazione Dalmata” tanto agognata da Tommaseo, dal podestà di Spalato Bajamonti e descritta alla perfezione dal primo archeologo di Spalato, il monsignor Francesco Carrara quando nel 1849 immaginava una nazione dalmata ponte culturale fra Slavia e Italia, dove “l'italiano non istudia di italianizzare lo slavo, né lo slavo di slavizzar l'italiano”. Le clausole del trattato di Rapallo prevedevano l’annessione all’Italia di Zara con un piccolo entroterra e del solo arcipelago di Lagosta: in tutto il resto dei territori dalmati, a chi optava per la cittadinanza italiana veniva impedito di possedere beni mobili ed immobili o di svolgere qualsiasi professione anche in lingua italiana come era avvenuto sino a quel momento”. “Queste disposizioni immediatamente applicate dalle nuove autorità jugoslave provocarono l’esodo di ventimila dalmati dai piccoli centri - prosegue -. Molti furono costretti a trasferirsi a Zara, ma la maggior parte emigrò verso la penisola o le Americhe privando della loro millenaria presenza le città di Ragusa, Cattaro, Traù, ma specialmente Spalato e Sebenico. I piccoli centri delle isole come Lissa, Lesina, Curzola, Brazza, Pago, Veglia e Arbe videro la partenza di tanti italiani e anche lo smembramento di tante famiglie, metà in Italia e metà sul posto. Esempio emblematico fu la famiglia Bettizza le vicende della quale il noto giornalista raccontò nel suo famoso libro “Esilio”. In una parte del libro Enzo Bettiza parla del significato che la parola “dusman” ha nelle varie lingue slave. Una via di mezzo fra traditore, malattia o cancro da espellere. Così dal trattato di Rapallo in avanti vennero visti e trattati gli italiani di Dalmazia”. “I bombardamenti di Zara del 1943-44 portarono a termine il progetto di pulizia etnica; la Jugoslavia titoista non riconosceva alcuna presenza italiana denominando infatti l’ente di rappresentanza della minoranza italiane, Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume (UIIF). Quel che resta degli italiani di Dalmazia è timidamente risorto dopo il 1992 grazie alla Croazia democratica. Oggi esistono le comunità di Zara, di Spalato e quella di Lesina, ma stentano a sopravvivere con gli intermittenti finanziamenti che non sempre ricevono. Stentano soprattutto a nascere gli asili ed i corsi in italiano nelle prime classi delle scuole primarie: se le cose continueranno come negli ultimi decenni, gli italiani della Dalmazia, ridotti oggi a poco più di un migliaio, saranno destinati a scomparire portando a termine il progetto di eliminazione iniziato con il trattato di Rapallo e portato avanti con determinazione sia dalle autorità monarchiche che – in modo più sanguinario - dai partigiani jugoslavi”, conclude. (focus\ aise)