Care e cari colleghi ed amici, un saluto e un ringraziamento a tutti i presenti, ai componenti del Direttivo, agli invitati, ai componenti del Comitato scientifico del Faim. Ho il compito di introdurre i lavori di questa prima giornata

che abbiamo pensato aperti alla partecipazione esterna, ma che sono iscritti come primo punto dell’ordine del giorno del nostro Direttivo, l’ultimo di questa prima stagione del FAIM, che precede l’assemblea congressuale, per fornirci indispensabili elementi di riflessione. E’ dunque un’occasione importante per fare un bilancio di questi 4 anni di attività, individuare ciò che è stato fatto di buono e ciò in cui siamo stati carenti in modo da tentare di superare le problematicità e definire un modello di sostenibilità e di sviluppo per il futuro del FAIM. Ci teniamo quindi ad una comunicazione aperta, ad un confronto che faciliti la discussione. Parto da alcune considerazioni che credo sia giusto ricordare: il processo che ha portato alla nascita del Faim, come superamento della più antica esperienza della Consulta nazionale dell’Emigrazione (C.N.E.) – (che ha attraversato oltre 25 anni della storia dell’associazionismo dell’emigrazione conseguendo alcuni successi importanti) -, è iniziato nel 2013. Ma bisogna anche ricordare il documento approvato in sede Cgie nel 2007 che aprì questa riflessione nella quale veniva evidenziata, da una parte, l’originalità storica della presenza associativa italiana all’estero come base e condizione di agibilità democratica e fondamento di comunità e, dall’altra parte, la necessità di procedere ad un rinnovamento di questa presenza. Nel 2014 il percorso di riflessione intorno alla situazione dell’associazionismo si è articolato poi nella preparazione di un importante appuntamento che ebbe luogo nel luglio del 2015 e che chiamammo “Stati generali dell’associazionismo”: una iniziativa che portò alla realizzazione della più grande assemblea - totalmente autofinanziata - svoltasi dopo la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione del 2000; gli Stati generali dell’associazionismo videro la partecipazione di 250 rappresentanti da tutte le regioni e dall’estero. Fu un segnale importante di vitalità e di capacità di interazione del mondo associativo dell’emigrazione, in grado di produrre indicazioni importanti sulla necessità di passare ad una fase di nuova costruzione della rappresentanza sociale, caratterizzata da orizzontalità della partecipazione, da serrata critica al declino di attenzione al mondo emigratorio sia da parte istituzionale che politica, e confermando la forte esigenza di rinnovamento. L’assemblea approvò la relazione predisposta dal gruppo organizzatore e diede mandato all’organismo di coordinamento, che nel frattempo aveva superato la dimensione considerata eccessivamente verticale della vecchia CNE, di procedere alla costituzione del Faim, quale soggetto giuridico pluralistico, autonomo e, almeno negli auspici, coeso. Cosa che avvenne in tempi piuttosto brevi, nell’aprile del 2016, raccogliendo l’adesione di 85 diverse realtà associative, oggi cresciute a 100, tra grandi federazioni a carattere nazionale, federazioni regionali italiane ed estere, e singole associazioni. I singoli circoli e entità associative rappresentate nel Faim risultano essere oltre 1.500. Formalmente, il Faim è la maggiore aggregazione associativa degli italiani nel mondo; ed è la prima volta nella storia dell’emigrazione italiana, che si da vita ad un contenitore così ampio. Sia la relazione predisposta per gli Stati generali che quella approvata nel primo congresso del Faim contenevano analisi, indicazioni ed orientamenti che anche oggi, a distanza di alcuni anni, possiamo considerare condivisibili e attuali. Come anche il Manifesto di adesione agli Stati generali e il Piano di azione programmatica del Faim. Rileggere questi documenti può ancora aiutarci a capire in che misura gli obiettivi a suo tempo prefigurati siano stati conseguiti. Anche per questo abbiamo voluto che fossero inseriti nella cartella dei nostri lavori. ***** La cosa che a mio parere emerge con evidenza è che a fronte dell’importante risultato di riaggregazione conseguito, di un’analisi e di una proposta progettuale complessivamente condivisa, tuttavia nella quotidianità della gestione del Faim di questi primi 4 anni sono riemersi eccessivi distinguo e individualità che non avevano particolare coerenza con quanto scritto nei documenti iniziali. Sono riemersi approcci più legati alle antiche identità delle singole organizzazioni aderenti e fondatrici e si è assistito ad una forte limitazione dell’iniziativa collettiva, mentre veniva da alcune parti privilegiata quella della singola organizzazione. La questione di dare gambe solide ed operative al progetto del Faim non è semplice per nessuno, in un contesto caratterizzato da scarsissime risorse disponibili, e dalla difficoltà di sostenere un autofinanziamento che sia adeguato ai compiti che ci si propone; ma bisogna riconoscere che vi è stato uno scarto evidente tra l’entusiasmo confermato dal numero di adesioni e la capacità di dare risposta a questo dato positivo. Non solo – aggiungo - da parte del centro di coordinamento verso le associazioni aderenti, ma anche viceversa: sono state poche, rispetto alle attese, le interazioni che si sono costruite, e sono emerse difficoltà anche sul piano della comunicazione interna tra le associazioni, non soltanto verso l’esterno. L’orizzontalità, ha mostrato, per così dire, effetti e risultati parziali. Organizzare un pluralismo identitario, territoriale, di storie, sensibilità e percorsi differenti è un’impresa sempre molto complessa che necessita di livelli di responsabilità, disponibilità, impegno e definizione di priorità “comuni o di comunità”, piuttosto che di singole sigle. Sarebbe necessaria una progressiva devoluzione di poteri al progetto comune; sono tutte questioni note e che vediamo emergere a tanti diversi livelli di costruzione sociale o politica, non ultimo, il processo europeo. Vi sono responsabilità interne che coinvolgono tutti noi e vi sono certamente anche motivi esterni che non hanno contribuito al superamento di questa situazione, non ultimo la perpetuazione di un disinteresse istituzionale e politico alle questioni emigratorie e ai grandi cambiamenti che si registrano ormai da un decennio. In particolare rispetto all’emergere e al consolidarsi della corrente impetuosa di nuova emigrazione italiana, cosa nota al Faim e alle sue organizzazioni fin dal 2007-2008 e questione centrale che ha contribuito a dare vita al Faim. Credo comunque di non sbagliare dicendo che proprio in riferimento alla nuova dimensione dell’emigrazione, il Faim ha prodotto i migliori risultati in termini di indagine, ricerca, approfondimento e sensibilizzazione, fatta propria poi anche in parte delle istituzioni, dal Cgie e più recentemente anche da parte dei media nazionali. Da questo punto di vista, penso che il nostro contributo sia stato importante. E su questo dobbiamo anche ringraziare il nostro Comitato Scientifico e l’impegno del suo presidente, il Prof. Enrico Pugliese. Altrettanto importante sarebbe stata l’azione di sensibilizzazione e di proposta sul tema immigrazione, se il Faim fosse stato conseguente coi principi sottoscritti e avesse superato poco comprensibili contrasti interni all’organismo di Coordinamento. Alcuni di noi hanno individuato nella strutturazione e modalità di lavoro degli organi dirigenti uno dei motivi di difficoltà. Certamente le regole hanno un loro peso, possono e debbono essere riviste ad adeguate. Ma le regole sono sempre una costruzione orientata e consustanziale ai contesti. Vi sono altri motivi, che definirei strutturali, alla base dei problemi riscontrati; accenno, molto sinteticamente, a quelli che mi sembrano prioritari, considerando che essi sono già in parte presenti nell’analisi iniziale e nella definizione della mission del Faim, ma, per le ragioni descritte e per una insufficiente assunzione di consapevolezza, o per resistenze di vario genere, non sono stati assunti come centrali; ne abbiamo avuto ulteriori importanti richiami anche nell’ultimo seminario svolto nel giugno scorso, in particolare negli interventi del Prof. Matteo Sanfilippo, di Padre Lorenzo Prencipe e di altri: I * - a fronte di un cambiamento radicale nella consistenza e nella segmentazione della nostra emigrazione avvenuta negli ultimi 15 anni, la rappresentanza di base del Faim, pure ampia e diffusa, ne rappresenta solo una parte e, se vogliamo essere del tutto schietti, non corrispondente a questa nuova qualità e composizione: le nostre collettività sono cresciute dai 3 milioni circa del 2006 agli attuali 6 milioni; ma al raddoppio della presenza emigratoria, non ha certo corrisposto il raddoppio o la corrispondenza della capacità di rappresentanza sul piano sociale, associativo, politico. Questo è un dato generale, che non riguarda solo noi. Le cause di questa mancata corrispondenza di nuova rappresentanza sono tante e in gran parte indipendenti dalla nostra capacità o organizzativa. Quando ripartono flussi emigratori di massa si assiste sempre ad una sommatoria di scelte individuali, in gran parte forzate, che stentano, per lungo tempo ad assumere una configurazione collettiva – se e quando ci riescono -. Ancora più arduo conseguire questo obiettivo in un contesto culturale fatto di precarietà, di programmata riduzione di intermediazione sociale, di atomizzazione e isolamento delle persone sia nella dimensione lavorativa che in quella del vissuto quotidiano. Il fatto che la dimensione emigratoria sia poi ampiamente sciolta per sua natura da contesti identitari territoriali o culturali, rende il percorso di aggregazione collettiva in emigrazione, uno dei più complessi e difficili in assoluto; rispetto a tutto ciò, la stagione della crescita dell’associazionismo italiano all’estero registratasi nel secondo dopoguerra un po' ovunque e in particolare in Europa, in Canada, in Australia, appare come una sorta di miracolo congiunturale, parallelo ad altri più importanti miracoli e conquiste conseguite in ambito di diritti civili e sociali in quell’epoca. E’ il caso di ricordare che la cosiddetta emigrazione organizzata divenne forte in un contesto sociale ed economico caratterizzato dal “fordismo”, dalla centralità della funzione politica, della programmazione pubblica e dello Stato Sociale. Negli ultimi 10 anni, all’inversione della polarità delle relazioni tra Stato e Mercato, si è andata aggiungendo negli ultimi anni, in corrispondenza con il maturare della crisi neoliberista, una ulteriore dimensione particolarmente ostica che aggiunge ulteriore complessità alle vicende migratorie nel loro complesso: mentre tutti i paesi, in particolare quelli a maggiore tasso di sviluppo o impegnate in imponenti ristrutturazioni e centralizzazioni, manifestano interesse e fabbisogno di immigrati, parallelamente a ciò, il contesto ad essi riservato diventa sempre più ostile: si sta cioè passando da una tendenziale libera circolazione delle forze di lavoro, ad una circolazione, da una parte sempre più “forzata e indotta” da tali processi di centralizzazione e, dall’altra, “condizionata” e tendenzialmente imbrigliata da obiettivi “congiunturali”, cioè legata ai cicli economici e alle necessità del mercato del lavoro dei singoli paesi di arrivo. L’accentuata competizione tra diversi sistemi-paese si gioca sulla disponibilità di competenze umane viste come una risorsa indispensabile, ma da gestire in modo variabile, analogamente ad altri fattori produttivi. Questa disponibilità può essere di volta in volta incentivata o rifiutata. Da qui discende la condizione di precarietà in generale e dei migranti in particolare. Riprende vigore, di fatto, l’antico concetto (tedesco) di Gast-Arbeiter, cioè di lavoratore ospite, a tempo determinato. Un approccio che rimette oggettivamente in discussione l’orizzonte di apertura che aveva caratterizzato la fase precedente, nella quale pensavamo che i diritti potessero dispiegarsi in parallelo alla costruzione europea. La dimensione individuale in emigrazione, il mito della libertà di movimento delle persone, si riconfigura dentro una dimensione vincolata di merce-lavoro condizionata dall’evoluzione dei mercati nazionali e globali e dalle conseguenti necessità di attenuazione, in particolare nelle fasi di crisi, delle contraddizioni sociali innescate dai medesimi processi: la soggettività dei migranti, l’anello più debole della catena, è ostaggio e viene sacrificata due volte sull’altare della valorizzazione neoliberista. Tutto questo possiamo osservarlo negli scenari costituiti dai paesi di arrivo, con annessi fenomeni di limitazioni in ambito di tutele e di welfare, di integrazione ostacolata, di espulsioni dei senza lavoro fisso (un vero ossimoro nel contesto ideologico della massima flessibilità), fino ad arrivare alla Brexit o alla definizione di “pseudo-sovranità” che pretendono una legittimazione dalla capacità di controllo o dal respingimento degli “alieni con altro colore”: lo Stato accentua ovunque atteggiamenti e pratiche di eccezione, per attenuare, nei confronti della maggioranza autoctona impoverita, la generale caduta del welfare; cosa che implica una ulteriore segmentazione dei diritti e del welfare stesso sulla piramide sociale. Prima gli italiani, i francesi, gli ungheresi, gli inglesi, o i polacchi, (ovviamente a prescindere dalla loro collocazione sociale e di classe) poi, in fondo alla piramide, gli altri. La subalternità di questo sovranismo regressivo ai processi di ristrutturazione neoliberistica del mercato mi pare sia di una evidenza assoluta, nella sua opzione di incentivazione delle dinamiche conflittuali tra autoctoni (proposti furbescamente come fossero una compagine unitaria) e gli ultimi arrivati. Altra cosa è la sovranità democratica e popolare di cui all’Art. 1 della nostra Costituzione, secondo cui la Repubblica è fondata “sul Lavoro” (e vale la pena chiarirlo, non “sul Mercato”). Allo stesso tempo, se osserviamo l’emigrazione dai luoghi da cui parte, possiamo vedere gli effetti che essa produce su questi territori: spopolamento, riduzione delle potenzialità di sviluppo locale, declino anche ambientale, e così via: ma soprattutto riduzione della capacità di tenuta del tessuto sociale dei paesi e delle zone di partenza, cioè riduzione della partecipazione sociale e politica, quindi della possibilità di decidere del proprio futuro. Nell’atrofia della socialità territoriale delle zone di esodo si riduce il controllo sociale, trovano ulteriori spazi poteri spesso esterni, criminalità organizzata, rendita immobiliare e gentrificazione elitaria. Chi resta in questi territori marginalizzati, sente crescere rancore e sentimenti di rifiuto verso altri “alieni” e rivendica una priorità, una sovranità locale perduta. Che si mobilità spesso, anche in questo caso contro gli ultimi, piuttosto che contro i primi (quelli che rappresentano, redditualmente, meno dell’1%). Nella dimensione di accentuata solitudine e impossibilità di far valere giuste rivendicazioni e diritti, evaporano i fondamenti di solidarietà, di apertura, di comprensione, di costruzione di futuro. Dunque l’aggregazione e la mobilitazione sociale, e quindi l’associazionismo, si misurano con una doppia dimensione ostile: sia alla partenza che all’arrivo. E nella misura in cui l’emigrazione è un prodotto di riduzione di socialità alla partenza, appare quasi ovvio che la sfida di produrre nuova socialità, nuovo associazionismo nei paesi di arrivo, risulti quasi un’impresa di Sisifo. E tuttavia non impossibile; a diverse condizioni, io credo: innanzitutto a condizione che siano espunti dall’analisi tutta una serie di nomi, di definizioni, di narrazioni ideologiche che hanno egemonizzato la lettura delle nuove emigrazioni in particolare europee e italiane negli ultimi 20 anni, costruendo una immagine del nuovo emigrante come una sorta di “homo super-habilis” che attraversa le frontiere e trova la sua “naturale” collocazione in un altro luogo, cancellando radici, memoria, relazioni; il famoso “expat” che soffre la dimensione nazionale e si proietta, vincente, nel nuovo mondo in cui è perfettamente riconosciuta la sua competenza, la sua superiorità interculturale. Cosa che, sulla base delle ultime vicende, a partire dalla Brexit, ma non solo, appare ormai messa in forte dubbio. Si tratta di una ideologia non nuova, che ha avuto i suoi antecedenti storici, in contesti diversi ma sempre unificabili nell’immagine dell’emigrante di successo che individualmente si emancipava da una condizione di subalternità. Una condizione che riguardava, nella migliore delle ipotesi, una frazione minoritaria di chi se ne andava e che costituiva la condizione della permanenza o dell’accentuazione di relazioni arretrate in patria. Bisognerebbe avere la capacità di richiamare alla coscienza del “nuovo mobile”, come qualcuno ha voluto caratterizzare la dimensione ‘umanoide’, ma poco umana del nuovo migrante, la natura in buona parte eterodiretta della sua condizione, cosa che lo accomuna (forse a sua insaputa) a gran parte degli altri “mobili” che devono arredare di volta in volta le cucine e sale di ristoranti, i magazzini, i supermercati, le residue fabbriche, gli studi di professionisti e financo i centri di ricerca: una condizione che peraltro si perpetua solo finché il mercato regge e la crisi non coglie anche i paesi più solidi dal punto di vista dei bilanci pubblici e della capacità di penetrazione del loro export o della loro finanza. La socialità e l’associazionismo nascono e crescono nella condivisione di una condizione, che innanzitutto va percepita dai suoi attori, nel mettere insieme risorse per una mutua crescita che superi l’occasionale e fragile emancipazione individuale. Condivisione di una condizione e costruzione comune di una prospettiva. Più o meno siamo di nuovo a quel passaggio che Carlo Levi descrisse con un noto slogan: “non più cose, ma protagonisti”. Un protagonismo che può inverarsi sia dove si arriva, ma anche nei luoghi da dove si parte. E in un certo senso questa è una novità dei tempi della globalizzazione. Il protagonismo dell’emigrazione può essere giocato, almeno potenzialmente, su entrambi i versanti. Credo che ci troviamo a questo snodo complesso. Che in gran parte riguarda dunque la nuova emigrazione, più che la vecchia. Ma di cui anche le ultime generazioni della vecchia emigrazione possono essere partecipi ed attori. Per tornare a noi, la difficoltà di affermare concretamente la novità del Faim, da questo punto di vista, è essenzialmente parallela alle difficoltà di auto-organizzazione della nuova emigrazione. E cioè del problema di come produrre socialità in un mondo pervaso da individualismo e anomia come condizioni della precarietà e della competizione, o come ricerca della Dea Fortuna, una dea individuale che prova a soccorrere gli uomini e le donne dopo che hanno subito gravi sconfitte sociali collettive. ***** Per quanto difficile sia questo processo, bisogna essere d’accordo su una cosa; se e dove vi sono e nascono nuove puntuazioni organizzate della nuova emigrazione, seppur ridotte, seppure allo stato nascente, esse non possono essere tenute in naftalina. Questo sarebbe un errore madornale. Se cioè, per quanto ci riguarda, si intende contribuire a costruire una nuova rappresentanza sociale che sia più vicina alla nuova dimensione dell’emigrazione italiana, costituita ormai di 6 o più probabilmente (considerando chi non compare nelle statistiche ufficiali) di 7 milioni di persone, una condizione indispensabile è che essa sia presente in modo non episodico o ornamentale, ma come parte centrale, fondamentale e dirigente degli organi del Faim e dell’emigrazione in generale. A chi ha vissuto la stagione precedente, quella del miracolo associativo, spetta una funzione di accompagnamento decisiva, che è quella della trasmissione di una memoria storica di partecipazione democratica che va recuperata integralmente e trasferita alle generazioni dei nuovi emigranti, per una nuova declinazione dei suoi valori e di modalità organizzative da collocare in un contesto che si situa ormai ad un bivio epocale e sistemico. Credo cioè che vada perseguita con maggiore convinzione il principio di una organizzazione orizzontale e che questo principio non riguardi soltanto le federazioni nazionali, ma anche le singole associazioni all’estero, laddove è indispensabile che la componente della nuova emigrazione diventi parte dirigente almeno paritaria rispetto a quella consolidatesi nei decenni passati, tentando di rispettare una proporzionalità tra queste componenti, secondo quanto emerge dai dati disponibili. Allo stesso tempo, penso vi sia assoluto bisogno di un’apertura all’adesione delle associazioni nate nell’ultimo decennio e composte in maggioranza, se non esclusivamente da nuova emigrazione. E’ compito di tutti noi stimolarne l’adesione e offrire spazi di rappresentanza interna, prescindendo ove possibile, dallo scoglio rappresentato da configurazioni giuridiche probabilmente non del tutto strutturate. Circoli informali, associazioni di fatto, costituiscono, storicamente, i primi passaggi aggregativi che si producono nei contesti emigratori. Coinvolgere questi momenti nel Faim può aiutare il loro consolidamento e la loro crescita. Un altro ambito di possibilità consiste nel raccordo associativo con altre nazionalità di nuovi migranti, laddove si presentino e siano possibili: la nuova emigrazione non è soltanto un fenomeno italiano, ma anche spagnolo, greco, portoghese, polacco, rumeno, africano, asiatico, ecc. In gran parte, nei paesi di arrivo, questi giovani vivono condizioni simili; il nostro nuovo associazionismo non dovrebbe costituirsi esclusivamente su base etnica, anche se l’elemento etnico continua a rappresentare uno degli elementi portanti di ogni aggregazione; in particolare in Europa, la dimensione della libera circolazione “indotta e forzata” accomuna diverse nazionalità con problematiche analoghe sia alla partenza che all’arrivo. Peraltro, questa comunanza è stata in molti ambiti, un patrimonio storico e organizzativo anche nella precedente fase migratoria del dopoguerra. Questa possibilità può consentire anche di strutturare meglio la necessaria interlocuzione a livello comunitario (U.E.) sia sulla condizione e i diritti civili e di cittadinanza dei nuovi migranti, ma anche di stimolare una negoziazione sulla questione delle modalità in cui si attua la cosiddetta libera circolazione dai paesi semi-periferici verso i paesi “centrali” e dei suoi effetti sul declino delle aree di partenza. Allo stesso tempo, per quanto riguarda le federazioni nazionali con sede in Italia, si apre, da questo punto di vista, la possibilità di una reale integrazione di emigrazione ed immigrazione, poiché la presenza massiccia di alcune nazionalità di immigrati europei, per esempio dei rumeni, albanesi o di altri paesi dell’est europeo (che costituisce la maggioranza dell’immigrazione in Italia), e di altre nazionalità extrauropee, africane, asiatiche, sud-americane, consente di strutturare relazioni ed ipotesi di lavoro comune nella stessa direzione. Tutto ciò costituirebbe un importante contributo alla discussione su come debba essere rimodulato il progetto di costruzione europea oltre che, ovviamente, la nuova dimensione di cittadinanza nazionale già oggi presente nei fatti e che sarà ancora più chiara nel prossimo futuro. La dinamica migratoria tra paesi sottosviluppati, paesi semi-preiferici e infine paesi centrali, costituisce una unica, seppur diversificata e articolata corrente la cui strutturalità e interdipendenza andrebbe ormai colta e organizzata. Si tratterebbe dunque, di passare, almeno come prospettiva ed orientamento generale, ad una riconfigurazione del Faim come soggetto aperto alla dimensione internazionale delle migrazioni in grado di tenere insieme con convinzione i due antichi lati della medaglia. Cosa che peraltro alcune nostre organizzazioni all’estero perseguono da tempo e che caratterizza in parte anche l’associazionismo tradizionale italiano, se, secondo i dati MAECI, le circa 1.700 associazioni italiane nel mondo accreditate per l’elezione dei componenti del CGIE, sono già costituite, in prevalenza, da cittadini non italiani, per oltre il 50% dei loro aderenti e soci. Questa apertura implica anche una revisione del perimetro di interlocutori e di alleanze necessarie a a far procedere il percorso del FAIM. Soprattutto nell’ambito di altre organizzazioni sociali e di base, da quelle sindacali a quelle di servizio sociale, ma anche di quelle della piccola impresa e del mondo cooperativo, della finanza etica, o del terzo settore in generale. La nostra mission non può essere concepita come impermeabile ad altre forme di aggregazione sociale perché sappiamo che la scommessa si gioca proprio sulla riattivazione e sul rafforzamento dei momenti di intermediazione sociale come funzione strategica che consenta di ridurre la deriva di generale subalternità delle forme di rappresentanza e di partecipazione, ivi incluse, ad altri livelli, quelle politiche e partitiche. Queste considerazioni non intendono mettere in dubbio la funzione del Faim rispetto agli “italiani all’estero” che, sulla base dei riferimenti istituzionali e legislativi presenti, può ben mantenere la sua specificità ed autonomia da altre forme di rappresentanza. Anzi, da questo punto di vista, vi è da insistere convintamente nel riconoscimento della funzione associativa all’estero come fondamento della stessa agibilità democratica in emigrazione, recuperando e aggiornando, sulla base dei cambiamenti intervenuti, il disegno di legge presentato anni or sono da Franco Narducci e altri parlamentari. In un momento caratterizzato da molteplici emergenze e rapidi cambiamenti di scenario, il Faim ha una ragione d’essere se è in grado di misurarsi con queste dinamiche e di giocare un proprio ruolo rafforzando la capacità di rappresentanza del mondo migratorio in generale, accanto alle altre grandi questioni del clima e dell’ambiente, della pace, della giustizia sociale, del riequilibrio delle relazioni economiche tra aree territoriali e paesi, della rappresentanza di genere, delle relazioni intergenerazionali, questioni con cui il fenomeno migratorio è strutturalmente connesso. Non è dunque estranea al suo ambito di azione, per tornare ai temi nazionali, la questione del rapporto tra aree interne e aree metropolitane, cioè all’emigrazione interna che ha portato, secondo i dati Istat 1,85 milioni di persone dal sud al centro-nord negli ultimi 15 anni; a maggior ragione la vicenda della cosiddetta autonomia differenziata e dei tentativi di superare la crisi da parte di alcuni contesti ed attori a discapito di altri, approfondendo le divisioni e la segmentazione sociale, piuttosto che agire verso un riequilibrio generale sul piano degli investimenti e della distribuzione delle risorse e dei redditi. Altrettanto importante è la discussione sulle relazioni intergenerazionali, innescata dal malcelato proposito di mettere in conflitto giovani ed anziani, a partire dal tema pensionistico, prescindendo dalla reale strutturazione di un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario e dall’obiettivo di salvaguardare la rendita ancor più che il profitto. Certo che si devono anche affrontare tutti i temi della specifica situazione, dei bisogni e dei diritti degli italiani all’estero rispetto all’Italia: dalle classiche questioni delle insufficienti risorse per la scuola, per la formazione, della riforma degli organi di rappresentanza (Comites e Cgie), della insostenibile riduzione dei parlamentari in rapporto al raddoppio della presenza emigratoria; dell’informazione, dei carenti servizi della rete consolare, del coinvolgimento delle nostre comunità nelle politiche di promozione del sistema-paese e dei sistemi-regionali; certo che dobbiamo avere la capacità di contribuire ad un positivo svolgimento della prossima Conferenza Stato-Regioni-P.Autonome-Cgie; ma tutto ciò costituisce, a mio parere, solo uno degli ambiti di azione del Faim; e non risolve di per sé la questione del rilancio dell’associazionismo e il rapporto con la nuova emigrazione in questa nuova fase. Assieme ad un ampio rinnovamento anche generazionale, siamo cioè chiamati ad una assunzione di responsabilità e ad una coerente maturità di comportamenti, di decisioni e di azione. Perché è proprio la crescita dei flussi migratori e della nuova emigrazione che ridefiniscono il nostro impegno, da settoriale (e marginale, come poteva essere interpretato fino a dieci/quindici anni fa), ad ambito di rilievo nazionale e internazionale. Il secondo Congresso del Faim non dovrebbe schivare questi fatti: o è in grado di approdare ad un passaggio qualitativo che ne rinnovi una funzione, un ruolo, un protagonismo generale, oppure, più modestamente, si riconfiguri in un perimetro di più limitata consultazione e confronto tra i suoi aderenti secondo una logica - che continua certamente ad avere una sua pregnanza e legittimità all’interno di una cornice già sperimentata e certamente meno complessa da gestire -, ma che lo riposizionerebbe su un piano oggettivamente residuale rispetto alle attese e limitato ad ambiti relazionali che a me pare comincino a stare stretti anche a diversi livelli istituzionali, oltre a non costituire elemento di particolare attrazione per le nuove migrazioni. In ciascuno dei due casi, comunque, la necessità di una innovazione sotto il profilo della rappresentanza interna, con l’ingresso di nuove energie, e di un’organizzazione meno paroliera e più operativa, si rende a mio parere, visibile, indispensabile, non rimandabile. E’ compito e impegno di questo Consiglio Direttivo definire una opzione e una proposta chiara e non equivocabile da presentare al prossimo Congresso. La discussione odierna è stata programmata in questa chiave: abbiamo bisogno di definire un orientamento, una strada su cui procedere. II Vorrei infine aggiungere, avviandomi a concludere, alcune brevi considerazioni che saranno sviluppate meglio nella giornata di domani dal Consiglio Direttivo, ma che credo siano utili anche per la discussione odierna. Si tratta di questioni organizzative, o meglio, di come rendiamo più coerente la struttura e la operatività del Faim rispetto ai principi costitutivi della orizzontalità, della collegialità, e di una base sociale diffusa e stratificata in tanti diversi paesi e aree continentali che in futuro può essere ulteriormente ampliata. La questione di come far agire un organismo così plurale e diffuso non è certo semplice, ma certamente non può essere risolta riformulando pratiche di centralizzazione nazionale o eludendo il dato dei cambiamenti così importanti nel tessuto sociale dell’emigrazione che abbiamo sopra evidenziato: 1) - C’è bisogno di modalità operative che tengano costantemente in rete le diverse puntuazioni del Forum e consentano loro di co-decidere sulle diverse questioni affrontate. 2) - Vi è poi bisogno di ricondurre a unità coordinate le realtà territoriali caratterizzate da tipologie di presenza migratoria simile, come quelle continentali o di singolo paese. 3) - Vi è bisogno di fare emergere componenti che sono attualmente marginalizzate, innanzitutto i giovani e le donne, in particolare quelli delle nuove migrazioni. 4) – Vi è bisogno di dare maggiore continuità programmatica al mandato quadriennale degli organi, secondo le linee prioritarie che di volta in volta l’Assemblea congressuale definirà. 5) – Vi è bisogno di innovare su tutti questi ambiti, mantenendo fermi e attualizzando i valori fondanti del Faim. Rispetto a questi 5 punti possono essere individuate alcune soluzioni gestibili sia sul piano tecnico, sia attraverso una rimodulazione di alcune parti dello Statuto. Accenno quindi ad alcune possibili soluzioni: 1) – Nel 2020, le riunioni del Comitato di Coordinamento (o esecutivo) possono essere facilmente realizzate in teleconferenza, salvo una o due occasioni annuali di riunione fisica nella sede legale o in altra sede, anche estera, scelta congiuntamente. Non è quindi indispensabile o obbligata una composizione dell’organo esecutivo costituita prevalentemente da persone residenti in Italia. 2) – E’ possibile costituire rapidamente unità di coordinamento per paese e per area continentale, ove possibile con la creazione di Forum paesi, altrimenti individuando coordinamenti che restino in carica per un determinato tempo e che possano essere integrati o revocati. 3) – E’ indispensabile definire una presenza paritaria di giovani e donne negli organi dirigenti e di rappresentanti della nuova emigrazione. 4) – E’ possibile ampliare il mandato del Portavoce portandolo a due anni, mantenendo fermo il principio di collegialità dell’organismo di coordinamento. 5) – E’ auspicabile istituire un organo ulteriore rispetto a quelli già presenti nello Statuto che garantisca la salvaguardia dei valori fondanti del Faim; un comitato dei saggi che assolva a questo compito e che abbia capacità di orientamento e di indirizzo. Aggiungo infine che la logica di rete, implica la possibilità che la stessa carica di portavoce possa essere ricoperta da componenti non per forza residenti a Roma. Infatti, per le funzioni riguardanti la rappresentanza verso le istituzioni di governo centrali o regionali italiane è individuabile un mandato specifico di uno o più membri dell’organismo di coordinamento che invece, ma solo per una questione di facilitazione, siano residenti in Italia. Coerentemente con quanto esposto fin’ora, è anche auspicabile l’ingresso nell’Assemblea - e in prospettiva negli altri organi-, di dirigenti non necessariamente di cittadinanza italiana, ma che condividano o operino direttamente o attraverso le proprie organizzazioni sul versante emigrazione ed immigrazione. Queste semplici innovazioni consentirebbero di prefigurare un arricchimento sostanziale del Faim e una capacità più ampia di interazione al suo interno e di rappresentare meglio, verso l’esterno, una realtà che è già oggi ampiamente plurale, non soltanto sul piano dell’ispirazione ideale dei fondatori, ma anche su quello, molto più concreto, di un pluralismo territoriale, di genere e generazionale, interculturale e internazionale. La consistenza e pluralità della condizione migratoria vi troverebbe meglio una casa e un’unità. Allo stesso tempo, le possibilità di sviluppo di azioni concrete, di progettualità diversificate ma convergenti verso comuni obiettivi, potrebbero essere notevolmente ampliate, come pure la gamma di interlocutori sociali ed istituzionali italiani ed esteri, consentendo un netto miglioramento della sostenibilità anche finanziaria del Faim che non può contare esclusivamente sulle quote sociali. Credo che, da tutti questi punti di vista, siamo dunque chiamati, come direttivo, come singole associazioni e federazioni, come singoli componenti, ad una forte assunzione di responsabilità e all’impegno non derogabile di costruire le condizioni necessarie ed indispensabili per la ricomposizione della rappresentanza sociale delle migrazioni. Rodolfo Ricci, pres. Consiglio Direttivo Faim (24 gennaio 2020)