(Rino Giuliani) - È la tradizione politica che va da Rosselli a Nenni, da Calogero a Foa, da La Malfa a De Martino a poterci indicare una via d’uscita dalla crisi attuale. Per ricostruire il futuro dalle macerie sono le virtù civiche testimoniate Lettere dei condannati a morte della Resistenza che traghettano gli ideali repubblicani nel disegno della nostra Costituzione.

Quella passione civile cui ho fatto cenno inizialmente (v. Repubblica, repubblicanesimo e repubblicani, ADL 12.9.12, ndr), una passione civile che io per inciso condivido, non sminuisce ma connota il richiamo al Risorgimento neo-repubblicano come uno dei versanti fondamentali di una storia diversa. Una storia che riemerge insieme alla consapevolezza del fallimento del liberalismo. Il liberalismo fu una corrente di pensiero che ebbe certo dei meriti anche nel movimento repubblicano. E tuttavia, con il suo elitismo e con la sua antropologia della diseguaglianza, si rivelò inadeguato alle sfide sociali emerse dalla rivoluzione industriale. Per questo il liberalismo fu complessivamente sconfitto dal nascente socialismo, il quale seppe trovare un modus operandi sia con la preesistente sinistra radicale e laica, sia in alleanza con parte delle stesse forze interne al liberalismo emancipatesi dalla sterile autoreferenzialità conservatrice del vecchio mondo borghese. La grande forza della “dimensione associativa”, richiamata nel testo di Morigi e Salmi come dato antropologico e come dato politico, sta nella capacità di poter fornire risposte laddove l’individualismo e la satisfattoria libertà (intesa come assenza di interferenza) sono fonte di diseguaglianze e matrici di egoismi che minano le società. La comunità è qui intesa, come scrivono Salmi e Morigi, non in senso etnico o territoriale, ma come concreto amore per le “storie di libertà” che da un dato popolo e da una data patria sono nate e si sono sviluppate. L’ultimo snodo del pensiero repubblicano non poteva non avvenire intorno a Gramsci che è certo un grande pensatore, ma anche un importante uomo di battaglie politiche, forse il più grande fra quelli che in Italia hanno adottato la variante leninista del marxismo. Nel suo tempo i marxisti di ascendenza leninista tacciavano i marxisti “revisionisti” come Turati di non conoscere e attuare e il marxismo. Salmi e Morigi partono dal convincimento che Gramsci sia stato “un pensatore giustamente ascritto alla tradizione marxista ma di un marxismo fortemente connotato in senso volontaristico e niente affatto deterministico” per cui i concetti di egemonia, volontà collettiva nazional-popolare indicano in senso lato “una fortissima propensione verso il ‘momento’ volitivo e culturale della spiegazione storica (e della prassi di lotta); in addensamento di significato gli ultimi due rivelano una prossimità semantica con concetti machiavelliani di virtù e patria”. Certo nessuno ha parlato di simmetrie fra i concetti sopra richiamati né alcuno pensa che affermare che Machiavelli ha compreso “la positività del conflitto sociale per educare le masse e per rendere solide le istituzioni politiche” significhi doverlo intendere nella precisa accezione che se ne dà nella nostra contemporaneità (sarebbe come se si volesse sostenere che le ragioni di principio di “Potere operaio” o delle organizzazioni per sovversione armata hanno un’ascendenza nell’impostazione dei socialisti del sindacalismo rivoluzionario che proponevano lo sciopero generale come premessa, mezzo per il fine, di una repubblica non del popolo ma dei soviet). Gramsci, che con Bordiga fa la scissione del 1921 e che con lui condivide la tattica e la strategia leniniste della Terza Internazionale fino al congresso di Lione, a me pare condivida fino in fondo quelle scelte anche dopo. Nella sua prospettiva non c’è pluralismo politico ed istituzionale, ma autosufficienza per il combattimento di classe che si avvicina, per la guerra aperta o per quella di posizione quando le condizioni non siano favorevoli alla vittoria. Anche Tamburrano sostiene quello che sostiene Vacca e che sostengono Salmi e Morigi: che esista cioè in Gramsci un “prima” ed un “dopo”. C’è un valore fondante della libertà nel rapporto tra intellettuali e potere. Machiavelli vede l’intellettuale come persona che non può non essere libera, laddove in Gramsci la funzione dell’intellettuale è fondamentale didascalica e intimamente legata ai fini della classe operaia che vuole acquisire un consenso più ampio per la direzione dello stato. Machiavelli sottolinea la caducità delle tirannidi ed il ruolo fondamentale della libertà nelle repubbliche; l’avversione pragmatica (esse non portano risultati duraturi) delle congiure e il ruolo vitale della milizia, del monopolio della forza, dell’esercito cittadino. Sottolinea la caducità delle tirannidi e il ruolo fondamentale della libertà convinto che l’uso della forza e l’intervento di un Principe virtuoso servono a riportare in auge la repubblica e non ad avviare dittature personali. Questo argomento, per usare un termine più moderno, vale anche in rapporto alla dittatura del proletariato. Le diverse epifanie del politico e pensatore che, come si scrive è apprezzato da Gobetti e dai liberali, non mi hanno portato a superare i dubbi che ho ancora sulla sua accettazione convinta del fatto che il fine, come il metodo, deve essere democratico. Forse questo dipende un poco dalle troppe estrapolazioni e interpolazioni gestite dopo la sua morte e un poco dalla natura articolata dei suoi scritti. L’asimmetria tra l’investigazione su Gramsci che si occupa di Machiavelli e le osservazioni su Gobetti e Rosselli, che mi appaiono rapide e sommarie, non rafforza l’obiettivo importante (che certo non è la finalità primaria del libro) di far emergere e rafforzare nell’oggi con il neo-repubblicanesimo una prospettiva di governo realmente democratico per liberi cittadini titolari di pari diritti e di pari doveri. Eppure è ciò di cui si sente il bisogno anche dopo i colpi inferti alla costituzione formale e materiale del nostro paese e della nostra Europa in questi ultimi decenni. Gramsci, come si sostiene nel testo, ricerca in Machiavelli strumenti per “innervare e rinvigorire un marxismo che non aveva saputo prevedere la crisi di civiltà rappresentata dal fascismo”? La storia dei valori repubblicani passati al socialismo ha altri, ulteriori e per me più convincenti snodi. Di essi ci sono segni precisi e concreti, che a ridosso del ‘900 si sviluppano nei lunghi anni di azione ora parallela ora congiunta in strutture locali, nazionali e internazionali comuni. Mi riferisco al PSI dopo il 1892, un partito del revisionismo marxista. E mi riferisco alla sua lunga vicenda, come la conosciamo nel tempo, nella concezione gradualista favorevole alle riforme di struttura, nella Costituente repubblicana senz’alcun tentennamento né verso la monarchia che tradì il paese né verso la Chiesa che stipulò il concordato con Mussolini. Accanto alla vicenda del Partito socialista c’è poi l’azione dei Rosselli che si intreccia anche umanamente con quella dei Nathan e con le ascendenze culturali mazziniane. Carlo Rosselli e Pietro Nenni fondano nel 1926 la rivista “Quarto Stato” dove Rosselli – che non crede né alla lotta di classe né all’uso della violenza in politica (che passa invece da Sorel a Mussolini, ma anche alla tradizione leninista) – scrive della grande alleanza antifascista. Per Rosselli quell’alleanza deve portarci alla sconfitta del fascismo, al parlamentarismo e all’Europa federale. Nenni pensa all’unità di tutti i socialisti, coerentemente, non rinunciando all’obiettivo della presa democratica del potere alla fine di un processo di consunzione della preesistente egemonia. Nenni fu per tredici anni dirigente nazionale di primo piano dei repubblicani e riversò quell’esperienza nella sua elaborazione e nella sua azione di leader del PSI. Penso ancora ai repubblicani che nel XV congresso di Napoli delle “Società operaie affratellate” (giugno1889) si scontrano con la loro “destra” (i mazziniani conservatori di Saffi) e costituiscono poi in diverse regioni organizzazioni repubblicane-socialiste alimentando una corrente di repubblicani cosiddetti collettivisti e anticapitalisti che divennero, più volte confermati, amministratori di grandi comunità (grandi nel senso non territoriale, ma delle virtù civiche condivise) come Sassi indimenticato sindaco di Imola. Mazzini fu un pensatore osteggiato nella fase preunitaria e poi subito museizzato, soprattutto nel periodo fascista. Da personaggio storico a mito. Eppure quanta modernità in Mazzini! Mazzini che ha precorso i tempi. Egli è stato infatti promotore, difensore e a volte anticipatore di molti principi oggi largamente condivisi: dalla forma istituzionale repubblicano-democratica e laica dello stato all’idea progresso intesa come crescita materiale e culturale della nazione, dal comunitarismo (in opposizione all’individualismo di stampo liberale e liberista) alla compartecipazione del capitale e del lavoro nell’organizzazione del governo e delle attività produttive, dall’equità distributiva all’internazionalismo solidale e allo sviluppo delle relazioni pacifiche tra i popoli. In un’epoca in cui tutti questi principi non erano vincenti o in auge, Mazzini li ha ordinati in un sistema di pensiero coerente dal quale ha tratto direttrici per l’azione, per il riscatto dal dominio austriaco della nazione italiana, per la realizzazione della sua unità e per il suo rinnovamento sul piano delle relazioni tra i diversi gruppi sociali. Il pensiero repubblicano di Mazzini viene fuori oggi con più forza, dopo essere stato lungamente schiacciato, sottovalutato e travisato da studiosi dogmatici, sia marxisti che cattolici. Nel 1978 al congresso di Torino il PSI alla ricerca di un suo spazio mancò l’occasione di risalire al “socialismo umanitario” di Mazzini preferendo il Proudhom del “socialismo utopico”, ritenuto culturalmente idoneo nella sfida a sinistra con il “novello principe”, il PCI, che in quegli anni confidava nel compromesso storico per andare al potere ottenendo invece soltanto un’esterna solidarietà nazionale. Mazzini non ha mai formulato il “suo” socialismo come un sistema onnicomprensivo. In Mazzini non c’è solo la cura degli interessi materiali di un’Italia nuovamente libera e unita. C’è anche l’affermazione dei principi associazionistici, solidaristici e mutualistici, principi che sono alla base di qualsiasi organizzazione autenticamente socialista. Salmi e Morigi ricordano a ragione la crisi del liberalismo e quella dei socialisti. Ovviamente determinate da cause fra loro diverse. Conosciamo la critica ai limiti dell’approccio economicistico del socialismo italiano che è nella critica di Rosselli alla cultura politico- istituzionale del partito socialista e sappiamo i suoi timori sul rischio dell’approccio statalistico in chiave sia bolscevica sia socialdemocratica. La discussione odierna sulla crisi dei partiti personali, ridicolmente definiti “a direzione carismatica”, come pure la crisi del populismo innescato da tali partiti sarebbe oggetto delle critiche di Gino Germani. L’aspirazione a dare un senso nazionale ed europeo ai principi e alla progettualità della sinistra ci conferma nella grande attualità del dibattito sul neo-repubblicanesimo e sugli sforzi per conciliarlo con una tradizione che in parte procede parallela e in parte lo interseca. È questa tradizione politica – da Rosselli a Nenni, da Calogero a Foa, da La Malfa a De Martino – che può ridarci una via d’uscita dalla crisi attuale. Una via d’uscita in cui repubblica, socialismo e libertà, individui e collettività si riconcilino nell’incessante fluire della storia. Alla fine del fascismo la luce in fondo al tunnel fu rappresentata dalle virtù civiche di resistenza alla tirannia e dall’amore per la libertà che troviamo nei Rosselli di “Non mollare” e nel “Costi quel che costi” di Gobetti. Per ricostruire il futuro dalle macerie sono le virtù civiche testimoniate Lettere dei condannati a morte della Resistenza che per noi tutti traghettano la tradizione di valori civici che ritroviamo nella nostra Costituzione. 

Stefano Salmi (a cura di), Repubblica, repubblicanesimo e repubblicani in Italia, Portogallo, Brasile in prospettiva comparata", Archetipo Edizioni, Bologna 2012