Creare un’Alleanza per il dopo. In un pugno di mesi sull’Italia, sull’Europa e sul mondo è piombata la crisi del Covid-19 e ogni cosa è mutata. Per noi, oltre alle migliaia di vittime, ha significato la recessione peggiore della storia repubblicana.

Il governo ha affrontato l’emergenza e retto l’urto, anche se limiti ed errori non sono mancati. In prima battuta la BCE, poi il Consiglio Europeo hanno agito diversamente rispetto al 2008 e oggi dopo le “5 giornate di Bruxelles” e il loro impatto di svolta siamo alle prese, come altre nazioni, con la prova più impegnativa: sfruttare un deficit senza eguali e le ingenti risorse a disposizione per aggredire riforme incompiute da decenni (sulle scelte e sulla visione da coltivare è fondato il contributo programmatico allegato a questo testo). L’Occidente e la democrazia sono entrati in una stagione di emergenza. Numerosi paesi a guida autoritaria hanno usato la pandemia per introdurre norme repressive delle libertà civili e costituzionali. Alcuni tra i principali leader “populisti” hanno negato l’evidenza sino ad ammalarsi precipitando le rispettive popolazioni in una tragedia non ancora conclusa. Le grandi istituzioni sovranazionali sono apparse nell’insieme fragili sino a rivelare un paradosso: la crisi peggiore dell’ultimo mezzo secolo è coincisa col punto più basso di autorità e iniziativa del multilateralismo. Un mondo senza una potenza-guida e un ordine riconosciuti: con questa novità bisogna misurarsi nell’immaginare il “dopo”. Le grandi famiglie politiche, eredità del vecchio secolo, hanno visto convivere al proprio interno reazioni e persino valori opposti. A testimonianza, due tra i quattro paesi anti-federali (i cosiddetti frugali) sono guidati da coalizioni che comprendono partiti socialdemocratici e ambientalisti. Sull’altro fronte, i governi “sovranisti” di Budapest e Lubiana sono diretti da forze integrate a pieno titolo nel Partito Popolare Europeo. Da destra come da sinistra la risposta è stata concentrare nel potere esecutivo un sovrappiù di dirigismo, reazione inevitabile nell’immediato. Adesso però ogni nazione e l’Europa nel suo complesso sono dinanzi a decisioni che investono il modello di società, il suo modo di pensare, organizzarsi, di rinnovare e rafforzare i pilastri della democrazia. Se parliamo della pandemia e delle vittime il paragone con la guerra non ha ragione d’essere. Diverso è fondare un parallelo con la ricostruzione checonsentì all’Italia di lasciarsi alle spalle un regime oppressivo per divenire una delle grandi nazioni sulla scena europea e globale. Oggi alle classi dirigenti del paese –nella politica, nel lavoro e nell’impresa, nella cultura e nella scienza, nell’informazione –spettano un compito e ambizioni analoghe perché viviamo un passaggio rilevante della storia d’Italia, come fu il 1946 nel suo slancio unitario di ricostruzione nazionale o, in un contesto diverso, il 1992-93. Per affrontarlo servono decisioni radicali, serve un indirizzo –i più la chiamano una “visione” –sulla stagione che si apre. A non bastare è la logica dell’emergenza, l’accompagnare lo sviluppo dei processi e degli eventi governandoli di giorno in giorno. Insomma, se una chiave il momento ci consegna è la riscoperta di una politica fondata sul binomio tra principi ideali e traguardi di emancipazione, diritti, libertà in una concezione cooperativa e solidaristica della società. Questo è il tema chein tutta Europa interroga il socialismo e la sua radice liberale e libertaria. Questa è anche la sfida che il Partito Democratico ha il dovere di raccogliere ora. Farlo significa avere un giudizio sul come e il perché siamo arrivati qui. In questo la pandemia, seguita al collasso del 2008, ha rivelato tutta intera la debolezza e pericolosità del modello finanziario, economico e sociale che ha scandito gli ultimi quarant’anni e della sua ideologia improntata a un individualismo privatistico e anti cooperativo. A lungo la dipendenza della politica da un unico pensiero economico ha sottratto agli “sconfitti” della società l’orgoglio di sé e la speranza di riscatto. La fotografia dell’ascensore sociale inchiodato al pianterreno ne è stata la traduzione logica. A differenza della seconda metà del ‘900 quando sulle due sponde atlantiche l’insieme della classe politica, dal fronte liberale e conservatore a quello democratico e socialista, hanno favorito una riduzione delle disuguaglianze, la stagione prossima a noi quella forbice ha sistematicamente allargato riducendo lo spazio del pubblico, l’azione regolatrice dello Stato in una subalternità dello stesso vocabolario delle culture progressiste. Si è così regrediti a una concezione aziendalistica dei servizi pubblici, con un impianto caritatevole a sostituire la spinta universalistica che aveva generato un senso di comunità e coinvolgimento della classe media. Al posto di sicurezza, crescita nella coesione sociale, servizi universali e maggiore uguaglianza si è imposta l’ideologia costruita ad arte del prezzo eccessivo di questi benefici sotto la forma di una inefficienza economica, di una tassazione esosa, del soffocamento dello spirito d’impresa e di un debito pubblico fuori regola. La tragedia della pandemia con i dati angoscianti sulle carenze dei servizi sanitari in alcuni territori ha finito col confermare una verità: ogni società che distrugge il tessuto del proprio Stato “si sfalda in una polverosa disgregazione di individualismi”. Con una coda solo in apparenza paradossale: nell’emergenza si sono rivelati più “liberi” quanti vivono in società che hanno mantenuto un buon livello qualitativo e quantitativo del sistema sanitario pubblico.A quel punto, la denigrazione e distruzione del pubblico è divenuta anticamera di una fragilità del diritto con effetti perversi sulla tenuta delle democrazie. Il passaggio di adesso è l’occasione unica per rifondare quel discorso pubblico, recuperando una lettura critica dei processi in atto che un tempo lungo ha cercato di archiviare, purtroppo a volte con successo. Premessa per riuscirci è superare l’idea che nelle nostre società tutti vogliano le stesse cose e che la differenza riguardi solo il modo per ottenerle. Non è così e insistere sulla fine della distinzione tra destra e sinistra è solo l’inganno retorico in uso alla destra per coltivare la sua concezione della politica e del potere. Anni addietro lo spiegava benissimo un liberale non tenero verso la sinistra come Raymond Aron: scordarselo oggi sarebbe un peccato imperdonabile. Alla sinistra e ai democratici spetta dire con quale struttura politica e morale, con quale linguaggio dei fini e con quali mezzi a quei fini coerenti, intendono restituire la dignità a una cittadinanza che la modernità piegata a un pensiero unico ha cercato di ridurre e talvolta azzerare. Per l’insieme di queste ragioni quello davanti a noi può e deve tornare a essere il tempo della speranza e della fiducia in una società ricostruita sul primato della persona e della sua dignità, in ogni contesto e passaggio della vita. Il messaggio giunto dall’Europa con la scelta di fare della crisi peggiore la base di una più forte integrazione è la conferma fondamentale della nuova strada che le democrazie del continente, e non solo, devono imboccare.* In Italia poco meno di un anno fa è nato un governo pienamente legittimo che aveva come scopo evitare di consegnare l’Italia a una destra nazionalista e antieuropea, in particolare dopo l’evocazione di “pieni poteri” da parte del suo leader. Per farlo abbiamo dato vita a una maggioranza con il Movimento 5 Stelle, la forza negli anni più distante dal Pd e in generale dal centrosinistra, in particolare sulla democrazia rappresentativa e sul ruolo dei corpi intermedi. Siamo così tornati al governo un anno dopo la peggiore sconfitta di sempre (elezioni politiche del 4 marzo 2018) e senza passare da nuove urne. A governo insediato la maggioranza si è allargata a una nuova sigla come effetto della scissione di Italia Viva. Il Pd ha sostenuto la nuova esperienza sollecitando i protagonisti a condividere un accordo dotato di respiro e non figlio del momento. L’appello non ha impedito l’emergere di due letture: quella di chi interpretava la nuova maggioranza come strategia destinata a riprodursi in città e regioni, e quella di chi la giudicava momentanea e senza l’ambizione di consolidarsi altrove. Oggi siamo di fronte a una novità: arriviamo alle elezioni in diverse regioni senza un quadro di accordi tra le forze che sostengono il governo. Il Pd affronterà il voto con la fiducia nei buoni programmi e l’impegno, già vincente in Emilia-Romagna, a non consegnare la guida di quelle realtà alla destra. Rimane la fotografia: il perimetro del governo attuale non coincide a oggi col perimetro di un nuovo centrosinistra. Non si tratta di un fatto formale. Affrontare spesso divisi la prossima sfida nelle urne rende meno coesa la maggioranza in uno dei passaggi più complessi per il futuro del paese. Di fronte a questa immagine e alla vigilia di un autunno che potrebbe accentuare sofferenza e rabbia spetta al Partito Democratico assumere una iniziativa chiara e rivolgere al Paese un progetto di ricostruzione. Perché il messaggio risulti credibile deve poggiare su un campo progressista largo e su una sinistra radicale nei principi e capace di aggregare, nel pluralismo delle sensibilità, le componenti innovative della società italiana. In questo senso la stagione dell’Ulivo è un riferimento nel metodo: si comprese allora come solo intrecciando le tradizioni della sinistra storica, del cattolicesimo avanzato, di ambientalismo e cultura laica dei diritti e delle donne, si poteva offrire un riscatto dopo il crollo del vecchio sistema politico. Di quella stagione il risanamento della finanza pubblica e l’ingresso nell’euro furono i capisaldi. Oggi il contesto è mutato: si sono imposti bisogni diversi mentre le classiche formazioni sociali (operai, lavoro dipendente tutelato) hanno lasciato spazio a nuovi soggetti (donne e giovani marchiati da disoccupazione e precarietà). La condizione attuale chiede una proposta diversa anche come replica all’impatto del Covid-19 sull’economia e sulla vita di milioni di famiglie. A partire dall’esperienza positiva del governo Conte, oggi l’Italia ha bisogno di una Alleanza fondata sul patto solidale tra generazioni, sull’ascolto e rispetto di movimenti e associazioni impegnati a disegnare l’Italia dei prossimi anni in una sfida di valori e programmi capaci di ripensare:

•Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e nel mondo come paese promotore della pace, dei diritti umani, del dialogo tra religioni, culture, civiltà;

•Una giustizia ambientale e sociale dove diritto alla salute e a un reddito siano fondamento della più radicale azione di contrasto alle disuguaglianze e condizione di una libertà dal bisognoa cominciare dal futuro dei giovani e delle donne.

•Il compito di una formazione distribuita lungo l’arco intero della vita, premessa di cittadinanza;

•Il ruolo dell’impresa in un’economia investita da una trasformazione tecnologica e dei modelli di produzione;

•La funzione dello Stato nello sviluppo del paese a partire dalla rivoluzione digitale e il suo impatto sulla cittadinanza; •La qualità della vita nelle città sul piano abitativo, del rispetto di ambiente e paesaggio, del legame tra tempi di vita e di lavoro, come perno e patrimonio di una rete di beni comuni da valorizzare.

•La cura, assistenza, vicinanza alla persona intese come valore della società tutta e primo ammonimento a un cambio di rotta e strategie dopo la pandemia.

Muovendo dall’esperienza di questi anni nella sinistra del Partito Democratico proviamo a offrire questo contributo a tutto il Partito Democratico: al suo Segretario e al gruppo dirigente, a parlamentari e amministratori, alle migliaia di militanti e segretari di circolo, alle donne e uomini che sentono il peso del momento e la responsabilità in capo alla principale forza della sinistra italiana. Presentiamo queste note come l’occasione per aprire questa riflessione al giudizio e all’integrazione necessari: la volontà è a lavorare assieme oltre gli steccati di un correntismo esasperato. Vorremmo portare queste idee all’attenzione di una sinistra diffusa, in parte dispersa, ma consapevole che una nuova unità non è più rinviabile. Un percorso, dunque, nell’Italia turbata e colpita dalla tragedia, ma insieme animata di voglia e passione per una rinascita possibile. Scegliamo di partire da qui perché capiamo quanto l’invito di questi mesi a dotare la sinistra e il governo di una “visione” sia fondato, ma quella “visione” è sempre coincisa con una lettura delle alleanze da costruire nella società, nelle pieghe dei suoi conflitti, nelle sue potenzialità, prima che dentro il Palazzo. Così dovrà essere oggi dopo lo spartiacque di questi mesi. Anche per tutto questo provarci è più di una scelta. Oggi diventa quasi un dovere. (Gianni Cuperlo)