Matteo Renzi ha concluso quel che aveva preparato quando, ancora segretario del Pd, con una legge elettorale confezionata dal più fido dei suoi amici, il Rosato, fece eleggere alla Camera e al Senato i “suoi” gruppi parlamentari.

Da allora, l’alternativa a cui ha sempre pensato era chiara a tutti coloro che volevano capire: o resto capo del Pd o sarò il capo di un mio partitino, ma pur sempre capo. Oggi, annunciando la scissione, Renzi conferma la sua vocazione: essere capo assoluto. Nell’intervista a La Repubblica, tra le altre cose, Renzi afferma: “Il Pd nasce come grande intuizione di un partito all’americana, capace di riconoscersi in un leader carismatico e fondato sulle primarie. Chi ha tentato di interpretare questo ruolo è stato sconfitto dal fuoco amico”. Tutto chiaro. Lui, Renzi, è il “leader carismatico”, sconfitto non dai suoi errori ma dal fuoco amico. Ma questo “leader carismatico”, che dice di amare le primarie, avrebbe potuto candidarsi in contrapposizione a Zingaretti. Invece ha candidato suoi fedeli senza carisma e ha fatto vincere Zingaretti. Ridicolo e penoso. Il “capo carismatico” non si è candidato perché sapeva di perdere nel confronto con uno che non si candidava come capo carismatico. La verità è che Renzi non potendo più scalare il Pd con le tanto amate primarie, come fece la prima volta vincendo e defenestrando Letta da Palazzo Chigi, farà il “capo carismatico” con il suo partitino. Con il quale avrà un potere ricattatorio, grazie al suo gruppetto al Senato, nei confronti del governo, dato che i suoi voti saranno determinanti. Nell’intervista a La Repubblica, Renzi dice d’aver rassicurato Conte di stare “sereno”, come disse a Letta. Vedremo come andranno le cose. Questa vicenda, però, chiama ovviamente in causa il Pd, per come esso è nato e per come non è cresciuto quale forza politica con un suo asse politico culturale e un suo insediamento sociale. In questa occasione non voglio rivendicare le ragioni per cui non aderii al Pd e scrissi un pamphlet, edito da Feltrinelli, dal titolo “Al capolinea”. Dicevo allora, e confermo oggi, che il Pd nasceva da una fusione a freddo tra i gruppi dirigenti dei DS e della Margherita, senza un coinvolgimento degli iscritti, senza un grande dibattito popolare che può scatenare dissensi e consensi e soprattutto passione politica. L’illusione che la partecipazione alle primarie di tanti cittadini, i quali però dopo il voto restano estranei alle vicende politiche del partito, fosse il massimo possibile della democrazia era del tutto infondata. Infatti, il Pd è nato ed è rimasto un aggregato di più soggetti e persone, separato da una partecipazione attiva degli iscritti. Anzi, iscriversi sembrava del tutto inutile. La vicenda di Renzi, in ascesa e discesa, oggi scissionista, è una conferma di questa analisi. Infine, a me pare che quel che vediamo oggi, con il caso Renzi ed il modo stesso con cui i giornali commentano la scissioncina, ci dice che la crisi della politica continua a caratterizzare il sistema italiano. Infatti il caso Renzi è un modesto prodotto di questa crisi. (17 settembre 2019)