DALL’AVVENIRE DEI LAVORATORI - In questi giorni dell’anno siamo usi qui ricordare Carlo e Nello Rosselli, trucidati in Francia il 9 giugno 1937. Poi c’è in noi ben viva la memoria del sacrificio di Giacomo Matteotti, barbaramente ucciso a Roma il 10 giugno 1924. Ma in questo editoriale,

pur senza dimenticare i tre grandi esponenti del socialismo caduti nella lotta contro la dittatura fascista, intendiamo dedicarci alla figura di Enrico Berlinguer. Fu l’ultimo grande leader del PCI e la sua scomparsa, trentacinque anni fa, commosse tutti. Aveva ereditato la “doppiezza” togliattiana, ma a un certo punto del percorso divenne impossibile per il suo PCI articolare una qualsivoglia posizione rispetto all’URSS e agli USA. E fu così che i comunisti italiani rimasero orfani di Berlinguer proprio nel tornante conclusivo della loro storia di Andrea Ermano Trentacinque anni fa moriva Enrico Berlinguer in seguito a un malore che lo aveva colto in Piazza delle Erbe a Padova mentre teneva un comizio per le elezioni europee. Sul palco, fiaccato dal dolore, esclamò: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada». E volle concludere così: «È possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alla nostra causa, che è una causa della pace, della libertà, del lavoro e del progresso della nostra Italia». Questo disse l’uomo colpito da un ictus di fronte alla folla commossa, che gli ribatteva: «Sì, va bene, però adesso basta, Enrico!» (vai al video dell’ultimo discorso su YouTube). Berlinguer rientrò in albergo. Cadde in coma. Fu trasferito all’Ospedale Giustinianeo e quattro giorni dopo si spense. La sua morte commosse tutta l’Italia e non solo l’Italia. Era l’11 giugno del 1984. La domenica successiva i comunisti balzarono al primo posto raccogliendo 11'714'428 voti. Ma la Rivoluzione d’Ottobre aveva ormai perso ogni forza propulsiva e il PCI, rimasto orfano del suo ultimo grande leader, si appressava al finale: un finale scandito dall’avvento di Gorbaciov alla guida del PCUS (1985), dalla caduta del Muro di Berlino (1989) e dallo scioglimento dell’URSS (1991). Il PCI era nato per impulso di Bordiga, obbedendo a un’astratta contrapposizione leninista tra la “dittatura del proletariato” e il modello standard del socialismo italiano. Ma fu il modello standard a trionfare con Turati nel XVII Congresso del PSI a Livorno. E la scissione comunista avvenne sì, ma partorì una formazione gracilissima, priva di dottrina politica e autonomia organizzativa. Amedeo Bordiga voleva fare la rivoluzione “come in Russia”, ma già nel 1921 rivendicava la specificità del “partito italiano” rispetto a Mosca. Nel 1926 al Congresso di Lione fu sconfitto dai “centristi” Gramsci e Togliatti. I quali tutti ebbero poi a intraprendere una lunga serie di revisioni ideali e adattamenti pratici sull’impianto leninista che in Italia non poteva funzionare. Antonio Gramsci prima come segretario nazionale, poi dal carcere e dal confino, si mosse lungo un percorso di riflessioni politiche e filosofiche che lo ricondussero a posizioni sostanzialmente socialdemocratiche. Analogo percorso fu intrapreso da tanti altri giovani intellettuali comunisti della prima generazione, come Umberto Terracini, Angelo Tasca e Ignazio Silone, seguiti a ondate da sempre nuove generazioni del dissenso, dopo i processi di Mosca, dopo il patto Molotov-Ribbentrop, dopo i “fatti d’Ungheria”, dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Palmiro Togliatti possedeva un genio tattico-organizzativo senza pari. Fu un campione di sopravvivenza a Mosca nella lunga e terribile glaciazione staliniana. Poi rientrò in Italia e, con estremo realismo, guidò la costruzione del più grande partito comunista d’Occidente. Che nei fatti ‘tendeva’ (per esempio nel governo dei Comuni) a emulare la socialdemocrazia, ma che a parole continuava ad agitare slogan bolscevichi in ossequio, non solo rituale, alla propria fedeltà moscovita. Questa “doppiezza” era, però, praticata a ragion veduta. Per tentare di comprendere il problema, bisogna richiamare due dati di cui oggi non si è molto consapevoli. In primo luogo, le spinte reazionarie permanevano forti nella società e nell’establishment italiani orfani del fascismo. In secondo luogo, l’URSS rappresentava allora la prima potenza mondiale. Quanto alle tendenze reazionarie italiane, basterebbe citare il direttore del Fatto, che ha di recente ricordato come il duce avesse «il consenso del meglio della cultura italiana», tant’è che facevano parte del governo Mussolini il filosofo Giovanni Gentile e molti altri ministri altamente competenti, sostiene Travaglio. Se è per questo, il fascismo ricevette una linea di credito ben più importante: l’avallo della Chiesa cattolica. Da secoli il clericalismo voleva riportare indietro l’orologio della storia a prima delle grandi rivoluzioni liberali moderne. Così, l’attivismo diplomatico vaticano venne a sostenere l’internazionale fascista. In vista di una “rivoluzione conservatrice”, il fascismo fu fortemente promosso come forza egemone nella maggior parte dei paesi occidentali. E non poche dittature a esso ispirate sopravviveranno alla fine della guerra, mentre altre ancora ne verranno instaurate fino a metà degli anni Settanta. Invece, la Chiesa di Giovanni XXIII abbandonerà il clericalismo. E con il Concilio essa intraprenderà un lungo programma di pacificazione con il mondo moderno. Questo sembra l’esito cui è approdata l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro. Francesco, il papa “venuto dalla fine del mondo”, è oggi sostenuto da molti laici, ma anche osteggiato da alcuni cardinali, i quali addirittura ne chiedono apertamente le dimissioni. Assistiamo a un vero e proprio assalto clericale al papato, assalto fomentato apertamente da pezzi della Curia e da una schiera di sovranisti. I quali accusano i vescovi italiani di volere, nientemeno, l’islamizzazione dell’Europa, complici di intellettuali “ebrei” come Roberto Saviano, Gad Lerner e George Soros. E mentre la sgangherata idiozia si diffonde, non senza ricadute preoccupanti, la Conferenza Episcopale Italiana sente il dovere di schierarsi a difesa del papa. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della CEI, deve avere le sue buone ragioni per dire a chiare lettere che la Chiesa in Italia non permetterà una “separazione” dei fedeli dal Papa. Clima storicamente eccezionalissimo, dunque: il nuovo clericalismo trova espressione politica nel primo partito italiano guidato da un ministro degli Interni che arringa le folle contro papa Francesco tenendo il rosario in mano. Ma ecco il punto: se oggi vediamo materializzarsi un attacco al cuore della Chiesa cattolica, ciascuno comprende quale tragico destino avrebbe avuto in sorte la nascente Repubblica Italiana negli anni Quaranta e Cinquanta di fronte al medesimo humus clericale, allora ben più virulento. Quanto alla grande potenza sovietica, è vero che nei decenni del secondo Dopoguerra l’URSS perderà via via la sfida economica e tecnologica, ma alla fine degli anni Quaranta Mosca dispone ancora di una burocrazia onnipotente, di una gigantesca industria pesante, di una grande agricoltura nonché di un sistema socio-previdenziale e formativo notevole per l’epoca. Dopo Yalta e la Rivoluzione cinese del 1947 i popoli collegati al “Paese guida sovietico” rappresentano la maggioranza dell’umanità, configurando un vastissimo impero egemonico, mentre il mondo libero si riduce a una minoranza di stati postisi sotto la tutela atomica USA. I Nenni, i Di Vittorio e i Terracini sapevano non meno chiaramente di De Gasperi, Saragat e Silone che cos’era l’URSS e, sul piano internazionale, tutti consideravano un bene la nostra collocazione geo-politica occidentale. Ma sul piano interno i leader del movimento operaio italiano reputavano che la nostra democrazia avrebbe potuto non reggere all’urto reazionario (e/o rivoluzionario) senza una “riassicurazione” sovietica. Alla prima seria rivendicazione operaia la “razza padrona” del Nord avrebbe potuto volersi nuovamente saldare al potere latifondista del Sud sotto l’egida clericale. Proprio questo, secondo il giudizio di Gramsci, era già accaduto negli anni Venti (e oggi, tra parentesi, se ne intravvede un tentativo di riedizione sovranista in salsa giallo-verde, tentativo favorito da grandi potenze ostili all’UE, ma intralciato dal magistero bergogliano). Per i Nenni, i Di Vittorio e i Terracini non si poteva, dunque, evitare il mezzo della “doppiezza” togliattiana quale componente di base nella definizione di un rapporto politico, sostenibile per la giovane Repubblica, con le tre potenze globali che a diverso titolo esercitavano la loro influenza sul nostro paese: la Chiesa Cattolica, gli USA e l’URSS. Sul PCI di Togliatti ricadeva il compito della “doppiezza”, sui governi filo-atlantici il compito di garantire la fedeltà all’Occidente e sul mondo cattolico il compito di portare avanti il rinnovamento post-conciliare. Nessuno dei tre compiti poteva dirsi scevro di ambivalenze, ma questa fu, insomma, la Prima Repubblica dal punto di vista della sua razionalità storico-politica. Torniamo alla vicenda conclusiva del PCI berlingueriano. Che nel 1984 è ormai divenuto, sul piano sociologico e dei valori, un partito democratico occidentale, ma Berlinguer non ha cuore di compiere una scelta politica, o di qua o di là. La nuova strategia vorrebbe e dovrebbe proclamare con molta più forza la collocazione dell’Italia nella NATO e nella Comunità Europea in congedo definitivo da Mosca e dal mito della Rivoluzione d’Ottobre, accelerando il passo verso la socialdemocrazia occidentale sotto il benevolo patrocinio di Willy Brandt. Un anno prima della sua scomparsa, al comizio per la pace tenuto il 16 giugno 1983 a Roma, il segretario nazionale del PCI esplicita questa nuova prospettiva come «socialismo nella libertà, nella democrazia, nella pace» (vai al link dell’audio su RR). Berlinguer “indica” a tutto il partito e anche alla Federazione Giovanile la via dell’addio post-sovietico. Ma resta un addio lunghissimo, iniziato con la nascita stessa del PCI e mai portato a termine. Finirà, incompiuto, sotto le macerie del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989. Negli anni Ottanta il tempo fugge rapinosamente. Non è più possibile alcuna doppiezza con Mosca, che ha iniziato a dispiegare i missili SS-20 sfidando l’Occidente a fare altrettanto con i Pershing. Per ragioni di sicurezza, gli USA rifiutano di collaborare con un governo italiano a partecipazione comunista. Non il compromesso storico né un accordo con il PSI di Bettino Craxi sarebbe minimamente praticabile senza un taglio netto e plateale con Mosca. Sul veto USA s’infrange, postumo, il disegno di Aldo Moro. E intanto l’URSS stessa entra nella sua crisi terminale. Inizia il conto alla rovescia, ma Berlinguer ancora sceglie di non scegliere. Il suo PCI si ritira sull’Aventino della “questione morale” lanciando invettive contro “quelli che hanno guidato e continuano a guidare l’Italia”. Ma così un terzo dell’elettorato sembra destinato a rimanere all’opposizione per sempre, sicché il governo del Paese si sfibra in una vischiosità consociativa fatta di formule senza dialettica politica vera e senza più alternative possibili. «Infine giunsero i ministri, gli eunuchi e i nani, ma nessuno badava a loro, e la processione a poco a poco si scompose perdendo ogni parvenza d’ordine», è l’epilogo a Le spade del grande scrittore cinese Lu Xun. Non molto diverso l’epilogo che, in fondo alla via, attende i partiti della Prima repubblica addivenuti ormai, con la morte di Berlinguer, all’antivigilia del Crollo